Portiamo la luce della Torà tra gli ebrei del mondo
Rav Yitzhak Hazan è una delle figure più note tra i maestri dell’ebraismo italiano. Nato a Mosca, emigrato negli Usa, dopo un breve soggiorno in Israele arriva in Italia. A lui abbiamo chiesto di parlarci della sua “missione” e in generale dell’ebraismo italiano.
Rav Hazan, da quanti anni è in Italia?
Da 45 anni. Sono nato a Mosca e vissuto in un piccolo paese nei suoi sobborghi, durante gli anni del comunismo sovietico. Sono stati anni difficili, dove c’era molta sofferenza per chi, come me, era un bambino ebreo e religioso. Grazie a D. siamo stati forti e abbiamo resistito, anche per merito di mio padre, rav Aharon Chazan, un grande studioso. Oggi, dei miei 10 figli, uno è con me a Roma (rav Shalom Hazan, n.d.r.), mentre gli altri sono negli USA.
Lei è un rav Lubavitch. Può descrivere in poche parole ai nostri lettori il movimento Lubavitch?
In poche parole si può dire che il movimento chassidico Lubavitch si basa sull’amore verso il prossimo; non si pensa solo a sé stessi, ma agli altri, per cui si vuole andare a trovare gli ebrei in tutto il mondo, e aiutarli a ritrovare la loro connessione con Hashem e la Torà e per dare una mano agli ebrei dovunque su trovino. Il movimento Chabad è basato sul chassidismo, cioè sul hesed, che significa bontà e generosità: non verso sé stessi, ma verso gli altri. Spesso questo comporta anche lasciare le proprie famiglie, le proprie comunità religiose, per dare un aiuto dove c’è bisogno.
Come è arrivato in Italia?
In ogni paese c’è uno shaliach, un inviato del Rebbe. In Italia, nel 1959, c’era rav Garelik, che rappresentava il movimento in Italia, Austria e Grecia. Lui ha avuto il compito di preparare l’arrivo di altri chassidim. Negli anni Ottanta si decise così di mandare un rav a Roma e a Bologna. A Roma, in particolare, c’erano non solo gli ebrei tripolini, ma in quegli anni affluivano gli ebrei immigrati dalla Russia, in attesa del visto per l’America e il Canada. Restavano in Italia tra 3 e 12 mesi. Avevano molto poco di religioso per via dell’oppressione Sovietica… io sono stato scelto per aiutarli, anche perché conoscevo bene il russo (Rav Hazan parla anche ebraico, inglese e yiddish, oltre all’italiano, n.d.r.). Con la collaborazione della Hias e della Joint e dei miei colleghi a Milano ed in Europa, mi occupai di tutte le necessità dei profughi. A un certo punto il lavoro necessario era troppo per una persona (anche perché avevo altre responsabilità e attività che mi tenevano impegnato) e così portai altre famiglie di rabbanim e rabbaniot che si stabilirono nel litorale romano, in particolare in zona Ladispoli; insieme creammo una mini comunità, arrivando a costruire perfino un bellissimo mikve. C’era inoltre la comunità della Agudà Ashkenazita di Via Balbo, frequentata da molti sopravvissuti della Shoà che cercavano giustamente un rav e un chazzan che conosceva il loro rito, che parlasse Yiddish e desse loro un assaggio della vita che fu loro crudelmente tolta. Tutti questi tasselli (e altri che non menziono per mancanza di spazio) mi tennero e mi tengono molto impegnato in questa missione che svolgo insieme a mia moglie, la Rabbanit Sarah.
Lei ha studiato dal Rebbe dal 1969 al 1976. Ci parla di lui?
È molto difficile parlare del Rebbe (rav Menachem Mendel Schneerson, 1902-1994, n.d.r.), Cominciamo col dire che lui è stato il settimo della dinastia dei Lubavitch, e che divenne la guida del movimento un anno dopo la dipartita del Rebbe precedente, che era anche suo suocero. Si può dire che il Rebbe è nato leader. È stato un grande studioso di Torà, Talmud e mistica, ma anche di studi laici, perché si è laureato a Berlino e alla Sorbona. Nel 1951 è diventato Rebbe, come ho detto, della settima generazione, proprio come sette sono le generazioni che separano Abramo e Mosè. E come Mosè ha portato la Torà in basso, questo è il compito dei Lubavitch, di portare la Torà laddove è stata dimenticata. Il Rebbe è stato uno tzaddik, un educatore, un studioso. Tutti i grandi rabbini di Israele sono andati da lui. Anche rav Toaff si è rivolto a lui. Nel 1961 capitò infatti che non ci fosse più uno shochet a Roma, così rav Toaff scrisse al Rebbe, che mandò un ebreo marocchino, Rav Eliahu Ouazana, nel 1962, che assunse il ruolo di shochet e quello più informale di guida spirituale. Da allora la famiglia Ouazana è rimasta a Roma.
I rabbini Lubavitch non aderiscono all’Ari, l’assemblea rabbinica italiana. Come mai?
Naturalmente c’è rispetto e collaborazione tra noi e il rabbinato italiano, ma noi siamo un’organizzazione americana indipendente, e quindi abbiamo nostra indipendenza, pur nella collaborazione.
Si parla sempre del movimento Lubavitch come aperto al dialogo e all’accoglienza. Qual è l’approccio del movimento verso il ghiur?
Il movimento Lubavitch segue le indicazioni del rabbinato di Israele e di tutte le massime autorità rabbiniche ortodosse, basate sulla halachà. Il ghiur, infatti, è previsto dalla Torà e ha regole specifiche che vanno seguite. Chi si converte con un Bet Din riconosciuto dalle autorità competenti è benvenuto e ben accetto.
Dopo tanti anni passati in Italia, come vede lo stato di salute dell’ebraismo italiano?
Quando arrivai esisteva una comunità certo fondata su una lunga tradizione, ma con una bassa religiosità. Io in particolare mi dedicai alla comunità tripolina. A quel tempo le attività di supporto e di difesa dell’identità religiosa dei giovani ebrei erano minime, per cui iniziammo organizzando Talmud Torà per bambini, e in un solo anno facevamo già lezione per 120 ragazzini tripolini, cui altrimenti nessuno avrebbe pensato. Abbiamo creato gruppi di studio per giovani, a quel tempo c’era solo il collegio rabbinico, e non c’erano shiurim in altre zone della città. Abbiamo cominciato ad organizzare gruppi di studio, a pregare e studiare nelle case. Oggi molti rabbanim fanno lezione fuori dal collegio rabbinico, a quel tempo non lo faceva nessuno. Devo dire che le cose sono migliorate grazie a D-o e sono molto felice di vedere la grande crescita spirituale della nostra bella comunità. Ciò detto, il Rebbe non era mai soddisfatto e incoraggiava chiunque lo incontrava a fare di più, quindi, chazak per ciò che abbiamo fatto fino ad ora e continuiamo, c’è sempre da migliorare. Un rav deve sempre continuare a lavorare per il benessere degli altri ebrei. Io sono sempre fiducioso per il futuro. L’importante è che ci sia una vita ebraica. A Roma molti ebrei hanno una gran fede in Hashem e un forte attaccamento alle tradizioni, che è fondamentale. Per questo sono molto fiducioso per il nostro domani, fino all’arrivo del Mashiach, che sia presto nei nostri giorni. Amen.
Questa è la decima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.
Per leggere le altre tappe del viaggio: Rav Arbib, rav Della Rocca, rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, rav Piperno, rav Sermoneta, rav Somekh
leggi anche: il Gan chayà dei Lubavitch a piazza Bologna
Una risposta
Vengo da una famiglia tradizionalista è sufficientemente osservante. Ma la Mitzva di mettere i Tefillim, cosa che faccio oramai quotidianamente da quasi trent’anni, lo devo ai Lubavich, precisamente a Rav Borshtein di Bologna. Veniva a trovarmi periodicamente a Roma e mi chiedeva: “hai messo i Tefillim oggi?” Al mio no,saliva con me in ufficio e me li faceva indossare. Dopo tre o quattro volte,decisi di prevenirlo e iniziai a metterli da solo tutti i giorni in attesa della sua prossima visita. Arrivo quel giorno e alla solita sua domanda questa volta risposi:Sì!! Da allora non ho più smesso di indossarli ogni mattina che H mi ha mandato.