Perchè il 25 aprile rischia di essere dimenticato
Quest’anno più che mai la Festa della liberazione sembra a rischio di essere derubricata. Abbiamo chiesto ad Alberto Cavaglion che aria tira per la coscienza storica di un intero paese
Alberto, siamo a 24 ore dalla prima tappa di quel percorso civile che Liliana Segre aveva tracciato inaugurando la Legislatura al Senato, indicando nel 25 aprile, nel 1° maggio e nel 2 giugno le date fondative della Repubblica. Vorrei partire allora proprio dal 25 aprile, quest’anno preceduto dalla ricorrenza degli 80 anni della rivolta del ghetto di Varsavia, un’altra data che ci parla di libertà e di lotta ai tiranni. Che aria tira nel nostro paese alla vigilia della Festa della Liberazione?
Tira una brutta aria, ma ti sorprenderò dicendo che l’aria è brutta, anzi pessima non tanto per quello che si è ascoltato e si ascolta su via Rasella, sull’antifascismo in Costituzione, sul 25 aprile, ma per quello che non si è ascoltato a proposito della Resistenza ucraina e della sua somiglianza con la Resistenza. Leggo di una raccolta di firme per un referendum popolare che abroghi la possibilità di sostenere con le armi l’Ucraina [promosso, tra gli altri, dal Movimento 5 stelle, n.d.a.]. Non si nomina l’Ucraina, come ovvio, ma qualunque paese al mondo – bruttissimo segno di ipocrisia. Se uno stato dispotico invadesse l’Italia, come è accaduto fino a che i partigiani non sono entrati in azione, che ne diremmo? Per la prima volta nella mia vita, in questi mesi, ho preso coscienza di quale sia la situazione in Europa, del pericolo in cui ci troviamo. La richiesta della Finlandia di entrare nella Nato mi ha lasciato senza parole. Da noi la storia ritorna sempre sotto la veste di Maramaldo. Diceva bene l’altro giorno sul Foglio Adriano Sofri che questa Italia, tutta, non solo i suoi Fratelli (d’Italia), non ha padri né madri: non il Mazzini della repubblica romana, non l’Enrichetta di Pisacane, non i volontari illusi dell’interventismo democratico, non i nostri padri saliti in montagna con Galimberti, con Fenoglio, con Meneghello e Giuriolo.
Il 25 aprile: lo spiegava Portelli nella intervista che ti ha rilasciato, non può essere condiviso da chi prova nostalgie; più divisivo che mai, quest’anno, secondo me, per la difficoltà che incontro a parlare di quanto sta accadendo con amici di una vita, convinti che i nostri padri, che dirti un Nuto Revelli o un Vittorio Foa, vedendo quello che sta accadendo a Kiev, sarebbero contenti di vederci correre a firmare il nostro «ripudio della guerra». Nobile aspirazione, chi può essere a favore della guerra? Ma inascoltabile alle orecchie dei nostri partigiani. Un’aspirazione vuota di senso quando la tua casa è invasa. Il mio quasi omonimo Pino Levi Cavaglione, il cui straordinario libro Guerriglia nei castelli romani torna in questi giorni in libreria (Il melangolo) ha pagine illuminanti che dimostrano quanto per la Resistenza il ripudio della violenza fosse inconcepibile.
Vorrei soffermarmi un po’ di più sulle frasi che abbiamo ascoltato da Giorgia Meloni e dagli uomini del suo partito. Provo a fare un rapido elenco: l’invocata tutela della Patria e dell’identità nazionale, dal cibo alle parole quotidiane; la condanna delle leggi razziali, ma senza condannare il fascismo; l’affermazione che il MSI è stato uno dei protagonisti della costruzione della Repubblica; l’annunciata lotta senza quartiere agli scafisti che si è tradotta nell’ennesima stretta contro gli immigrati; il ricordo dell’eccidio del Fosse Ardeatine parlando però di vittime italiane, ma non antifasciste; il tentativo di riscrivere l’azione dei Gap a via Rasella, descrivendo dei militari tedeschi armati come dei musicisti in pensione; il finanziamento del futuro museo della shoah di Roma, a condizione però che il governo ne possa condizionare l’attività; la necessità di evitare la sostituzione etnica che sarebbe in corso nel nostro paese; la negazione dei minori di copie omogenitoriali a vedere riconosciuto il legame con entrambi i genitori. Forse ho dimenticato qualcosa, ma ti chiedo: che destra è questa che ci governa?
Il salto fra le preoccupazioni di cui sopra e la cronaca italiana di queste ore è avvilente. Il caso La Russa fa storia a sé, anche se l’inaugurazione della legislatura con quel mazzo di rose donato a Liliana Segre non sarà immagine facile da dimenticare; che le esternazioni di La Russa rientrino in un disegno prestabilito può essere, anche se io propendo per un patetico macchiettistico fenomeno isolato, quale si evince dalla intervista da lui resa in tv a Francesca Fagnani, che a me è parsa rivelatrice. Mi illudo di pensare che i diciottenni di oggi ascoltando quella intervista non abbiano potuto evitare di cogliere questo lato patetico-macchiettistico. Quello che colpisce è l’assoluta indifferenza verso i problemi della storia. Non solo La Russa. Si tratta di un dramma che ci accompagna da decenni, in scena anche con governi precedenti di altro colore. Storici e politici raramente s’incontrano, i loro sono due mestieri differenti, ma fanno finta di non saperlo.
Ho dedicato i migliori anni della mia vita a spiegare ai miei studenti le diverse finalità dei due mestieri. Se un professore va in classe pensando di spostare voti dalla sua parte, quale che sia, insegnando storia, sbaglia di grosso. Siamo in anno di celebrazioni, bisognerebbe far circolare di più le pagine di Salvemini su come si insegna storia senza cadere nei ricatti della politica; anche durante l’esilio in America quel grande uomo teneva distinte le conferenze politiche contro il fascismo dalle lezioni agli studenti delle università che lo invitavano. I politici che si improvvisano storici sono pari agli storici che si improvvisano politici.
A cosa pensi?
Ti faccio due esempi che mi sembra non abbiano attirato la giusta attenzione, anche se molto hanno fatto discutere. Primo: la frase della Meloni sulle vittime di via Rasella, la cui unica colpa sarebbe stata quella di essere italiani. Nessuno ha notato l’automatismo rivelatore. Proprio per la scarsa importanza attribuita alla storia, Meloni deve aver pensato di essere intervistata sulle foibe e ha ripetuto senza pensarci troppo il ritornello della Giornata del Ricordo, dell’esodo dei fiumani, cacciati per la sola colpa di essere italiani. Una frase jolly, buona per tutti gli usi, che smaschera l’irrilevanza che ha per lei la storia e la sua complessità. Tale indifferenza, tale leggerezza, sia chiaro, vale per la maggior parte della nostra classe politica, non solo la destra al potere maramaldeggia con questo uso disinvolto della storia a fini politici.
E il secondo esempio?
Qualche settimana prima, in altro suo discorso, la Meloni ha evocato un nume tutelare della sua formazione e cioè Ernest Renan e la sua idea di Nazione come plebiscito quotidiano. Una buona idea, lodevole. Vecchia e nuova destra, così come vecchia e nuova sinistra non hanno avuto solo cattivi maestri. Renan è stato un grande dell’Ottocento. Sulla scienza e sulla origine dei popoli aveva le idee tipiche del suo tempo, che lo avvicinano se mai a Graziadio Ascoli. Ma da qui a farlo un proto-nazista come subito ha rinfacciato Fratoianni in replica alla Meloni ce ne passa. Renan è uno degli autori che Luigi Meneghello cita nel libro più bello sulla Resistenza che io conosca, I piccoli maestri. Magari la Meloni facesse tesoro della lezione di quel grande, «un Maimonide del nostro tempo», lo definì il senatore ebreo Massarani. Se Meloni facesse suo un centesimo della saggezza renaniana saremmo tutti più sereni. Inviso ai cattolici per la sua «Vita di Gesù», Renan diventa l’eroe del primo modernismo, caro a Della Vida. Buonaiuti faticò a resistere al suo fascino. La conferenza sulla Nazione di Renan è stata riletta dagli storici del Risorgimento meno ideologizzati solo molto tardi, in prossimità del centenario dell’Unità italiana. Convinti che sia esistita soltanto l’idea fascista di nazione abbiamo gettato fuori dalla finestra il fondamento dello Stato italiano. Tra parentesi: la decisione degli amministratori di Bologna di sostituire la parola «patriota» con «partigiano» a me sembra totalmente folle: un’accentuazione ingiustificata, come quella, oggi diffusissima, di definire «razziste» le leggi di Mussolini, quasi non bastasse leggi «razziali». Con le parole e con la volontà testarda di rendere il nero più nero di quanto non sia stato, abbiamo riempito le urne di voti alla destra.
Parlando del Giorno della memoria, avevi denunciato il rischio che un certo modo di celebrare il 27 gennaio potesse avere l’effetto opposto rispetto alla lotta all’antisemitismo. E per il 25 aprile? Come evitare che anche qui si determini un’assuefazione, o un’indifferenza, verso questa data?
Assuefazione e indifferenza verso questa data hanno una radice lontana. Non me la sento di ripeterti quello che da molto tempo, inascoltato, vado scrivendo e ripetendo. Da più di due decenni il 25 aprile ha perso rilievo nel dibattito pubblico. Così la parola antifascismo si è persa per strada e di nuovo per colpa di una banalizzazione diffusa. Ci sono stati infatti due antifascismi: quello dettato dalla lezione delle cose, nato dopo l’8 settembre, e quello puro e originario nato subito dopo la Marcia su Roma. Il primo ha assorbito il secondo, di cui nessuno più si occupa da decenni. Vedremo quest’anno quanto spazio i giornali daranno al centenario di Salvemini, temo pochissimo. Vorrei adesso che si riscoprisse e ristampasse Lussu, che si leggesse Carlo più di Primo Levi.
Il tentativo in corso di riscrivere la storia investe in pieno anche noi ebrei italiani. Rischiamo sempre la strumentalizzazione da cui ci avevi messo in guardia circa un anno fa?
Certo, il rischio è sempre quello. La strumentalizzazione è sempre dietro l’angolo, ma è duplice: riguarda troppo facili corteggiamenti, strumentali sia rispetto alla Shoah, sia rispetto alla solidarietà a Israele. Vanno entrambi respinti al mittente: andrebbe rafforzato lo studio dell’Ottocento, andrebbe spiegato che gli ebrei hanno contribuito a costruire lo Stato dopo l’Unità, andrebbe valorizzata la storia «positiva», che unisce i nostri antenati e non li divide. Pure su questo terreno Renan ha molto da insegnare, per la sua lezione sulla Nazione. Visto che la Meloni si dice fedele a Renan, coraggio. La Destra storica ha costruito lo Stato: l’agenda Draghi è una specie di agenda Quintino Sella adeguata ai nostri giorni. Mazzini ha inventato l’idea di Europa, un’Europa solidale dei popoli.
Resta un’ultima domanda. Oggi è il tuo compleanno e quello di tua figlia, due nascite che legano due generazioni alla vigilia della festa di Liberazione. Un bel segno, vorrei dire. E per il nostro paese? Su cosa dovremmo puntare per una nuova rinascita?
Non saprei dirti: alla luce delle cose che ti ho detto all’inizio, è difficile pensare a una nuova rinascita. I compleanni sono sempre gioiosi e non vanno turbati dalle malinconie attuali. Noi nati il 24 aprile apparteniamo, come mi piace sempre ripetere, alla banda dei nati il giorno prima. E dunque bisogna guardare con speranza al domani. Quest’anno Mattarella ci fa il regalo di venire in visita a Boves [luogo in cui fu realizzata una delle più gravi stragi naziste. n.d.r.] e andrà pure, come già fece Ciampi, a Borgo S. Dalmazzo, da dove vennero deportati ad Auschwitz 350 ebrei «stranieri». La destra è molto forte, aggressiva, sicura di sé, dopo l’esito elettorale, ma le risposte che spesso mi capita di ascoltare (le Meloni a testa in giù, i fascisti carogne che devono ritornare nelle fogne) sono le stesse che hanno guastato la mia giovinezza e a ondate ritornano, avvilenti, cupe. Non vorrei mai che guastassero l’adolescenza del mio nipotino. L’Italia, oltre ad avere un pessimo rapporto con la sua storia, sta immersa in una crisi economica e culturale senza precedenti e si perde in sofismi, senza rendersi conto della spaventosa crisi europea nata con la guerra in Ucraina. Quando scrivevo il libro mia figlia aveva 18 anni, ora mi ha reso nonno. Al nipotino l’idea di spiegare che cosa è stato per mio padre e suo bisnonno il 25 aprile è un’impresa che mi spaventa come spaventerebbe chiunque. La tentazione di dirgli che forse l’oblio sugli odi passati potrebbe essere condizione necessaria per la costruzione di una nazione adulta (che poi vorrebbe dire sintetizzare per lui la lezione di Renan) non ti nascondo che è forte: se mi dovessi cimentare nella nuova impresa dovrei lottare per tenerla a freno.
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4 risposte
Bellissima intervista, una vera – e purtroppo ormai rara – lezione di vita!
Quanta saggezza in Alberto Cavaglion, quanta conoscenza, quanta capacità di voler e saper porre a disposizione degli altri il proprio sapere, il proprio vissuto, il proprio cuore.
Queste straordinarie Personalità andrebbero pubblicamente apprezzate, tenute strette dalla Comunità ebraica invitandole – e fornendo loro i momenti ed i contesti giusti – a comunicare e diffondere la loro “Cultura” in ambiti e circostanze sempre più vasti ed articolati.
Sarebbe regalo bello e giovevole per tutti gli appartenenti alla Comunità, renderebbe la presenza di questi ultimi nell’ intero ambito nazionale ed oltre ancor più incidente e significativo, direi decisivo.
Complimenti a “Riflessi Menorah”, che ogni mattina ci dona quel che ci serve: la conoscenza, mai disgiunta dai princìpi religiosi e dalla concretezza del fare e fare bene.
Potrei ripetere una per una le parole di Alecci… Grazie Alberto, tanti auguri a te e a tua figlia!
Grazie, analisi molto approfondita.
Ho imparato moltissimo dalla intervista di Boni a Cavaglion. Una memorabile lezione di lettura critica e disincantata. Avevo letto con attenzione le parole di Meloni, e preso doveroso atto della sua indubbia abilità dialettica e politica, pur talvolta infastidito da qualche ridondanza e inevitabile contropelo. Cavaglion ha, con sapienza, sistemato tutto, dando il giusto peso alle difficili scelte dialettiche dell’autrice di quelle dichiarazioni. Ho 93 anni, e quando fui cacciato da scuola perché ebreo, la Meloni non era ancora nata. Oggi vado per scuole a condividere quell’esperienza, e suscito negli allievi di quinta elementare e delle scuole medie incredulità. Con la lettura di Boni e Cavaglion, sono cresciuto. Grazie, Cavaglion; grazie Riflessi menorah.