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Francia antisemitismo

Quanto pesa nei luoghi comuni del pregiudizio anti israeliano l’eco dei pregiudizi religiosi più antichi. Può fare qualche esempio?

 Negli anni ottanta sulle pagine de Il Manifesto, Baget Bozzo non esitava ad utilizzare un vocabolario di matrice teologica preconciliare per fondare la falsa equazione delle vittime che diventano carnefici. In questa perversa logica la rappresentazione del conflitto era surrettiziamente ricondotta ad una contrapposizione tra il Dio vendicativo dell’Antico Testamento e il Dio dell’amore  del Nuovo Testamento: un pregiudizio talmente diffuso, che ha accompagnato per secoli l’insegnamento del disprezzo contro gli ebrei. E’ terribile a dirsi. Il processo di revisione dell’insegnamento del disprezzo che per secoli ha avvelenato l’esistenza degli ebrei,  ha avuto inizio dopo lo sterminio di oltre un milione di bambini ebrei.  Se solo ci si pensa, è come se nell’inconscio collettivo, un Moloch assettato di sangue ne avesse preso coscienza. Ma col senso di colpa non si va avanti. L’odio verso gli ebrei esiste non solo malgrado Auschwitz. Ma anche a causa dell’impossibilità di superare il senso di colpa che ne deriva. Il rovesciamento dell’accusa contro le vittime di ieri, trasformate “in carnefici” ha lo scopo illusorio di liberarsi da un senso di colpa che non è mai stato in realtà elaborato. Se gli ebrei possono essere accusati di essere diventati come i nazisti, il conto può essere pareggiato. Appropriarsi dell’immagine di Anna Frank, rovesciando sui figli e sui nipoti dei sopravvissuti è sul piano simbolico il coronamento dello sterminio nazisti. Nella sottrazione dell’identità che fonda la memoria di un’esistenza millenaria, si ripete nell’inconscio un atto cannibalico di appropriazione che per quanto ci si possa illudere,  la realtà non cesserà di smentire.   

   So che ha partecipato ad alcuni viaggi del dialogo. Puoi accennare a qualche criticità? 

Il Cardinale Carlo Maria Martini, quando era alla guida della Gregoriana, introdusse  l’obbligo per i suoi futuri allievi di un semestre di studi alla Hebrew University. Lo scopo dichiarato era la creazione e il consolidamento di un rapporto con la realtà viva di Israele e dell’ebraismo, che andasse oltre le riflessione teologica e completasse  il dialogo con l’Ebraismo della diaspora. Fu una decisione importante  che in seguito però è stata disattesa. Più volte ho sollevato il problema, non incontrando mai una risposta.  I viaggi che le parrocchie organizzano nei luoghi santi della Chiesa, ignorano completamente l’esistenza ebraica in quel paese. Come se gli ebrei non esistessero nemmeno e gli israeliani fossero degli occupanti, si attraversa il Paese incontrando arabi cristiani e mussulmani. Mai però gli ebrei come tali con la loro storia e memoria più recente. Yad Vashem con le sue memorie doloranti e strazianti, l’Università e il Museo del Libro, i Resti del Tempio, è come se non esistessero. Si torna da Israele come se gli ebrei che lo abitano fossero degli “stranieri” che lo hanno occupato  e degli “oppressori”. In una situazione così falsata i pregiudizi più antichi si rafforzano alimentandosi di una narrazione politica che mina alle radici la cultura del dialogo ebraico cristiano e i suoi possibili sviluppi futuri. E’ un aspetto della cultura dei viaggi su cui le associazioni per l’amicizia ebraico cristiana dovrebbero riflettere.  

Qualche anno fa con l’amico Vittorio Bendaud ho partecipato a un paio di viaggi per l’amicizia in cui c’erano ebrei e cristiani in cui sono stati visitati luoghi ebraici e cristiani. Nel primo viaggio voluto da Rav Laras c’erano studiosi ebrei e cristiani, tra cui la sorella del cardinale Martini. Il viaggio andò come meglio si potesse immaginare. Nel secondo le persone venivano da alcune parrocchie ed erano accompagnate da un giovane sacerdote.  Agli inizi alcuni parrocchiani erano spaesati. Erano venuti in Israele per visitare i luoghi in cui aveva preso corpo la predicazione cristiana. Visitare il Muro occidentale, il Yad Vashem e il Museo del Libro, le tombe dei Maestri della Mishnah con annesse la sinagoghe, non era stato nemmeno contemplato. Ci fu un momento difficile e una lunga discussione. Pian piano però le cose si sono aggiustate e il viaggio è stato un successo.  

Il dialogo con il mondo cattolico è oggi profondamente in crisi, ma non bisogna desistere, né arrendersi. Nel Salmo novantesimo rivolgendosi a Dio, il profeta Mosè paragona i millenni al giorno che è appena trascorso, come una vigilia di notte, come un sogno al mattino e l’erba che cresce. Un’immagine struggente e allo stesso tempo possente da cui possiamo attingere, per non essere colti dallo scoramento. Il dialogo non si deve fermare. Deve estendersi e coinvolgere quella parte del mondo islamico a percorrere insieme un cammino difficile che consolidi i principi e i valori della convivenza  (un esempio positivo in tal senso sul versante islamico,  sono le dichiarazioni dell’imam parigino Chalgoumi, che vive sotto scorta da 17 anni). 

Cosa è cambiato rispetto all’ondata di ostilità antiebraica seguita alla guerra del Libano nel 1982?  

La composizione culturale e religiosa della popolazione europea è negli ultimi cinquanta anni profondamente cambiata. Negli anni Ottanta il conflitto era largamente esterno ed era percepito largamente come tale. Nelle manifestazioni anti israeliani c’erano giovani di sinistra e di estrema sinistra la cui appartenenza politica, culturale e religiosa era  profondamente radicata nella storia europea e ad essa rimandava. Gli attentati micidiali contro i luoghi di culto ebraici erano stati compiuti da organizzazioni terroristiche antisemite di matrice palestinese che avevano contatti con il terrorismo politico in Italia, ma che avevano le loro basi nei Paesi arabi. Ciò che differenzia la situazione di allora,  dagli sviluppi odierni è che nelle scuole e nelle manifestazioni che demonizzano Israele ci sono decine di migliaia di giovani mussulmani figli di immigrati di seconda e terza generazione che vivono il conflitto arabo israeliano ed il contenzioso irrisolto fra israeliani e palestinesi come una guerra che li riguarda in prima persona. È uno sviluppo pericoloso che mina alle radici un processo difficile e complesso di integrazione e convivenza fra culture e sensibilità diverse. che è in atto. La radicalizzazione dell’odio antiebraico e anti israeliano messa in atto dai movimenti antisemiti di matrice islamista, rappresenta un pericolo  per il futuro dell’Europa e per il mondo mussulmano.  Centinaia di migliaia di mussulmani hanno perso la vita in Algeria, Libia, Siria, Iraq, Afghanistan e in molti altri paesi  islamici. Per non parlare delle minoranze yazidi e cristiane costrette alla conversione forzata e alle popolazioni dell’Africa centrale. Siamo di fronte a sfide nuove rispetto alle quali la consapevolezza politica, culturale e religiosa segna un grave ritardo. 

Quindi possiamo dire che questo nuovo filone di antisemitismo fa un po’ da collante di tutte queste proteste.

Da alcune ricerche emerge che nelle aree generalmente orientate a sinistra, soprattutto nelle frange estreme, il pregiudizio verso gli ebrei è in forte salita, specie  nelle fasce più giovani.  Si è notato nelle interviste sociologiche che fra le persone che hanno un atteggiamento simpatetico per gli immigrati e per i Rom, non avviene lo stesso quando si fanno delle domande sugli ebrei. E’ un segnale importante da non sottovalutare. Il radicamento del pregiudizio anti israeliano avvenuto lungo l’arco degli ultimi cinquant’anni tende inconsciamente a trasferirsi sugli ebrei. 

Come valuta la definizione IHRA.

La definizione IHRA di antisemitismo del 2016 è costituita da un preambolo e da una serie di indicatori che sono la parte rilevante del documento.  Si tratta di indicatori  sociali e politici che aiutano a comprendere la situazione. Non una legge che impedirebbe il diritto di criticare  le politiche dei governi israeliani, come alcuni hanno erroneamente o strumentalmente sostengono alcuni. Si tratta di un documento operativo  da utilizzare con intelligenza e saggezza  per costruire delle buone pratiche. Utile in particolare di fronte alla sfida di un antisemitismo di tipo nuovo che non si definisce come tale.  Una sorta di soft law con degli indicatori ampiamente utilizzati nella ricerca sociale sulle dinamiche dell’antisemitismo.  La definizione è stata approvata dal Parlamento europeo e anche dal governo Prodi che ha creato per questo una commissione ad hoc (la Commissione Santerini), di cui ho fatto parte. Dal lavoro della Commissione sono scaturite delle Linee guida che dovrebbero fare da sfondo al lavoro delle istituzioni. La definizione è stata ripetutamente fatta oggetto di attacchi ed è in parte diventata un terreno di scontro ideologico fra centro destra che l’ha in genere proposta e il centro sinistra in cui vi è un nocciolo duro che la rigetta. Le difficoltà potrebbero essere superate mettendo insieme le parti più responsabili dei due schieramenti politici. La lotta all’antisemitismo deve essere proposta come una lotta condivisa da chi è per la difesa della democrazia. Per questo esistono già delle Linee guida governative che sono una fonte di ispirazione per la didattica nelle scuole e per le istituzioni nel loro insieme. Si tratta di mettere in pratica qualcosa che esiste già. Dopo avere accolto la definizione IHRA il governo ha incaricato una Commissione (la Commissione Santerini, di cui ho fatto parte) per ha lavorato ad un documento che ne mettesse  in pratica le indicazioni per l’Italia. Posta in questi termini la questione assume un diverso significato. Non si tratta di scegliere se opporsi o meno, ma di rendere operativo un documento che già esiste e dovrebbe essere una fonte di ispirazione per il lavoro dei Comuni. In questa prospettiva il Comune di Brescia ha adottato con un voto bipartisan, le Linee guida del Governo Draghi. Una decisione lodevole che potrebbe fungere da modello per tutti i Comuni italiani.

Lei ha parlato di ricerche sociologiche…  

Asher Daniel Colombo insegna sociologia generale all’università di Bologna. E’ presidente dell’istituto Cattaneo

Una ricerca sociologica condotta da Asher Colombo e altri colleghi ha fornito un quadro particolarmente inquietante.  Su un campione di 2.579 studenti con un’età tra i 19 e i 21 anni (del primo e del secondo anno dei corsi di laurea triennali o a ciclo unico, di indirizzo umanistico e non), intervistati tra il 29/9 e il 31/10/2023, emerge quanto segue: l’antisemitismo tradizionale che si basa di pregiudizi come la “cospirazione” e la “doppia lealtà”, pur segnando un lieve calo, ma di brevissima durata intorno al 7 ottobre, resta stabile. 

Il  “gruppo di indicatori… che compongono la tesi del nazismo-sionismo” non è intaccata dagli eccidi verificatisi il 7 ottobre. L’unico dato che appare in crescita dopo il 7 ottobre, è un elemento che deve fare riflettere chi nega la correzione fra  nuovo antisemitismo e demonizzazione di Israele, è quello relativo alla equiparazione di Israele con la Germania nazista. È un dato, afferma Colombo in un’intervista a JoiMag,  “cresce da subito” tra il 7 e il 10 ottobre.  Ossia prima della risposta militare israeliana, e anche prima  del  17 ottobre: una data spartiacque per la vicenda dell’Ospedale  che fu in realtà colpito da un razzo lanciato da Hamas  (i morti furono 21 non 500 come aveva annunciato immediatamente dopo Hamas). Come hanno sottolineato gli autori della ricerca tutto ciò dimostra che la falsa equiparazione di Israele con il nazismo fa sì che i feroci crimini commessi da Hamas “non sono letti come atti di terrorismo ma come azioni di resistenza”. Guardando ai dati che dividono gli studenti secondo la propria auto collocazione politica si nota che tra chi si definisce di destra  o di centro destra dopo il 7 ottobre i dati non cambiano. Mentre tra chi si reputa di sinistra e o di centro sinistra dopo il 7 ottobre crescono sensibilmente. La falsa accusa secondo cui gli ebrei sfrutterebbero a loro vantaggio la Shoah non si riduce dopo il 7 ottobre. Mentre quella che identifica Israele come Stato nazista aumenta. L’unico elemento di consolazione in questo triste quadro è che i ragazzi che leggono di più hanno maggiori anticorpi. 

Da anni è impegnato contro le derive antisemite nelle università. Con Amos Luzzatto nel 2003 costituì un comitato accademico nelle cui prime riunioni era presente il futuro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano Nei campus americani ci sono stati gravi e ripetuti episodi di antisemitismo e in Italia ci sono stati appelli per il boicottaggio e le rottura dei rapporti di collaborazione con gli Atenei israeliani.   

Shimon Peres e Giorgio Napoletano

Le risposte evasive dei rettori delle principali università americane, di fronte all’esplosione di intolleranza e a manifestazione di odio contro gli studenti ebrei e israeliani nei principali campus americani  campus, hanno un che di inquietante. Una linea rossa è stata varcata ed è un bene che dopo tali dichiarazioni alcuni rettori abbiano rimesso il loro mandato e che gli atenei siano stati investiti dal problema. E’ una battaglia aperta dagli esiti incerti per il futuro e che non si può vincere richiamandosi unicamente alla legge. in Italia la situazione è per fortuna diversa.  Ma ci sono molti episodi che si ripetono e che non vanno sottovalutati: appelli di  colleghi che chiedono l’interruzione degli accordi con le università israeliane, manifestazioni interne ed esterne all’Università a sostegno del boicottaggio, richieste di condanna che arrivano al senato accademico,  iniziative che lasciano a desiderare sul piano scientifico in cui di fatto non sono previsti contraddittori  e che rilasciano dei crediti formativi, studenti chiamati ad inaugurare l’anno accademico con la conseguente trasformazione di un momento altamente simbolico della vita universitaria in un processo senza appello contro un Paese e i suoi abitanti. Per  fortuna i singoli docenti che non si arrendono alle derive della semplificazione e della banalizzazione di processi storici complessi e sfaccettati, non sono stati direttamente toccati. Ma alla lunga il loro isolamento non può che aumentare. Se nei loro corsi affrontano temi specifici collegati alla Storia del Vicino Oriente, le loro difficoltà non potranno che aumentare.  Le scritte contro il prof. Panebianco,  a cui ho ripetutamente manifestato la mia solidarietà, sono solo un esempio di quel che potrebbe accadere se la situazione dovesse sfuggire di mano. 

Messi alle strette diversi rettori lasciano correre sperando che l’onda d’urto rientri. Le mozioni per il boicottaggio anche quando arrivano al senato e sono votate, non possono, almeno per ora ed è una fortuna, procedere oltre.  A parte il danno grave che arrecherebbe all’Ateneo che rappresenta, per non parlare delle ricadute su interi settori della ricerca teorica e applicata. Solo per citare un esempio fra i tanti, in un ospedale  del Nord, lo stadio avanzato del Parkinson è bloccato grazie ad un progetto italo israeliano che potrebbe dare vita a nuovi sviluppi. Grazie al Servizio sanitario nazionale non poche persone da ogni parte d’Italia, in uno stadio avanzato della malattia, possono rivolgersi per aiuto.  Una decisione del genere per un rettore sarebbe un suicidio professionale. Il giorno dopo si dovrebbe dimettere. A meno che il suo incarico non stia per scadere e una dichiarazione demagogica, che non potrà riguardarlo personalmente, sia un mezzo per entrare dopo nell’agone politico.  Ma la rimozione dei problemi e la fuga dal principio di responsabilità non è senza conseguenze.  Renderanno più difficile la vita di chi non si arrende al ricatto e alle intimidazioni  e si oppone alla  banalizzazione dei processi storici e culturali.  

Quasi ancora peggio 

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