Antisemitismo, fenomeno carsico: e oggi?
L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la conseguente guerra a Gaza hanno risvegliato sentimenti antisemiti diffusi. Ne abbiamo parlato con David Meghnagi*
Professore, lei è da sempre impegnato contro l’antisemitismo – soprattutto nelle università. La situazione attuale, che tutti conosciamo, credo ci porti ad avere delle sfide ulteriori. Può dirci qual è la differenza tra l’antisemitismo di sempre e quello di adesso?
L’antisemitismo è un fenomeno carsico che periodicamente riemerge con modalità diverse. È profondamente radicato nel linguaggio e nella cultura. Fintanto che resta allo stato latente, lo si può contrastare con le buone pratiche della convivenza e della comprensione reciproca. Il vero problema è quando assume il carattere di un progetto politico finalizzato a riplasmare la vita sociale e culturale di un paese o di una società. Soprattutto in momenti di profonda crisi sociale e politica, può avere delle conseguenze devastanti. L’ostilità contro gli ebrei e la sua sottovalutazione, è un termometro importante per stabilire i pericoli che incombono su una società. Le principali città arabe agli inizi dello scorso secolo, salvo eccezioni, avevano tutte delle comunità ebraiche. Di tutto questo non è rimasto nemmeno il ricordo. Mahfuz il grande scrittore egiziano, ambientando i suoi racconti, ne ignora del tutto la presenza. Quel silenzio è il segno di un fallimento che oggi tocchiamo con mano. La violenza subita dagli ebrei, non è cessata dopo la loro fuga. E’ dilagata nel tempo coinvolgendo la maggioranza islamica e le minoranze religiose. L’odio contro gli ebrei anziché diminuire, dopo la loro fuga in massa è progressivamente aumentato. E’ stato proiettato su Israele che nell’immaginario collettivo arabo è diventato il simbolo di ogni fallimento interno, lo strumento per condurre vittoriosamente conflitti che hanno ben poco a che vedere con la composizione diplomatica di un contenzioso politico e nazionale. Basti pensare al conflitto che oppone oggi il regime sciita iraniano a quelli sunniti. Per non parlare di altre questioni rimaste aperte dopo la Prima guerra mondiale.
All’epoca dell’Affaire Dreyfus, quattro decenni prima, la sinistra tardò nel suo insieme a comprendere l’importanza della difesa di un capitano ebreo falsamente accusato di tradimento. All’interno del movimento socialista (basti consultare le pagine dell’Avanti e di altri giornali di sinistra dell’epoca), la questione fu per un lungo periodo largamente derubricata come fosse “un affare interno” alla borghesia. Il movimento socialista e le forze democratiche si mobilitarono solo quando fu chiaro che erano in gioco i valori della Repubblica. È questo che bisogna saper spiegare oggi a chi direttamente o indirettamente collude con la spirale di odio contro Israele e la delegittimazione della sua esistenza. In questa difficile sfida è in gioco il futuro democratico dell’Europa. Dirò di più: sono in gioco i processi di integrazione di milioni di immigrati di immigrati di seconda e terza generazione ed è in gioco anche la stabilità dei Paesi arabi con cui l’Europa deve costruire un rapporto nuovo fondato sul rispetto reciproco. È una questione allo stesso tempo culturale, religiosa e geopolitica che coinvolge le due sponde del Mediterraneo e di cui Israele è parte integrante.
Che vuol dire “valenza politica”?
La demonizzazione di Israele, la sua delegittimazione, il doppio standard con cui se ne giudicano le azioni, fanno da sfondo ad un antisemitismo di tipo “nuovo” che ha come obbiettivo la trasformazione di Israele in uno Stato paria. L’obiettivo, dichiarato è la sua esclusione dal consesso politico e morale delle nazioni e degli Stati, mettendolo progressivamente nell’impossibilità stessa di difendersi. Oltre mille cittadini pacifici che vivono nei Kibbutz, impegnati da sempre per una composizione politica del conflitto in cui è tragicamente avvolta la realtà del Vicino Oriente, sono stati sgozzati, le donne sono state stuprate in presenza dei famigliari perché soffrissero di più, torturate e violate nei corpi prima di essere barbaramente trucidati e uccisi. L’eccidio è stato pubblicamente esibito, le immagini hanno girato il mondo ma non hanno provocato la reazione di condanna che in condizioni normali ci si sarebbe attesi. Nel 1982 dopo la strage alla Sinagoga di Roma, ci fu un momento di risveglio. Si aprì un dibattito e ci fu un momento di riflessione condivisa, per quanto dolorosa e carica di ambiguità irrisolte. La strage compita contro i civili nei Kibbutz è stata nelle capitali arabe largamente festeggiata. Se i festeggiamenti non sono andati oltre, è stato solo per il timore delle autorità che le manifestazioni potessero trasformarsi in una sollevazione generale contro i regimi al potere.
Il Segretario delle Nazioni Unite ha gravemente affermato che l’eccidio non è maturato nel vuoto, rifiutando di partecipare ad una proiezione riservata in cui si documenta l’accaduto. Alla manifestazione contro la violenza nei confronti delle donne, l’eccidio del 7 ottobre è stato largamente ignorato, rimosso e derubricato. Se la vita di una donna diventa meno importante perché è ebrea, vuol dire che un argine all’antisemitismo è venuto meno con conseguenze potenzialmente devastanti.
Una delle false accuse contro chi mette in guardia sui pericoli del nuovo antisemitismo è di voler mettere in bavaglio il diritto alla critica contro i governi israeliani.
Non è in discussione il diritto dovere a dissentire su questa o su quella pratica del governo israeliano. Il diritto alla critica è il sale della democrazia. La società israeliana, pur attraversata da una terribile sfida che coinvolge la sopravvivenza delle persone, non smette di discutere. Il fatto di doverlo ogni volta ripetere come fosse un mantra, per non essere fraintesi o vedersi falsamente accusati di voler impedire la libertà di critica, può essere considerato un sintomo delle derive cui è andata incontro la rappresentazione dei conflitti che lacerano il Vicino Oriente. Sono in discussione i luoghi comuni che fanno da sfondo alla critica, per non parlare della demonizzazione, della delegittimazione e del doppio standard, che fanno da sfondo ad un antisemitismo che ha riscoperto una falsa innocenza declinandosi falsamente come “antirazzismo”, “anticolonialismo” e “anti imperialismo.”
Nei suoi interventi ha spesso evocato i quattro stadi che condussero alla distruzione degli ebrei in Europa.
I quattro stadi sono stati descritti da Raul Hilberg nella sua magistrale opera sulla storia della Shoah. E’ uno strumento di grande utilità per comprendere come sia avvenuto il processo di distruzione degli Ebrei in Europa e come sarebbe possibile fermarlo prima che fosse tardi. Una lezione di storia, ma anche di metodo per la didattica. Le tre fasi che negli anni Trenta hanno preceduto e reso possibile ciò che è poi tragicamente accaduto sono state l’intensità del processo di demonizzazione degli ebrei, la loro individuazione e classificazione, infine la loro esclusione dal resto della società. La demonizzazione degli ebrei messa in atto dai nazisti e dai movimenti antisemiti europei aveva a disposizione un vasto dispositivo presente in ogni area della cultura: dalla religione al linguaggio alla cultura e alla scienza. Kant che era fortemente favorevole all’emancipazione degli ebrei, affermava che risolvere il problema ebraico era l’eutanasia dell’ebraismo. Sto parlando del principe del filosofi e non di una persona qualunque. Kant era a favore dell’emancipazione degli ebrei. Come gran parte dei pensatori tedeschi dell’epoca nutriva un’avversione profonda per la storia e per la cultura degli ebrei. Nel parlare di eutanasia Kant si riferiva alla cultura e non alle persone. Aveva una sincera stima e considerazione per Moses Mendelssohn, filosofo ebreo, praticante. Kan non poteva minimamente immaginare quel che sarebbe accaduto cento cinquant’anni dopo. Se lo avesse solo immaginato sarebbe inorridito e forse avrebbe riflettuto sulla facilità con cui sui utilizzavano termini così dispregiativi verso gli ebrei.
“La vita e la morte”, insegnano i Proverbi “sono affidate alla lingua”. Le parole utilizzate hanno una loro logica interna, che non va sottovalutata. Se le parole sono malate, vanno curate come le persone. Ci sono parole che curano e altre che possono uccidere. Se il termine “sionismo” viene utilizzato come un insulto che priva l’interlocutore di ogni rispettabilità, vuol dire che nel linguaggio politico e nella cultura si è prodotta una lacerazione deve essere sanata prima che sia tardi.
Il sionismo è stato un movimento di liberazione nazionale che ha portato alla creazione dello Stato di Israele, l’unico che nella Regione abbia un assetto democratico. In una situazione normale la discussione sul sionismo non avrebbe nemmeno senso. Sarebbe come se la discussione intorno al Risorgimento non avvenisse in sede storica. Ma comportasse lo schierarsi per l’esistenza o meno dell’Italia come Stato e come nazione.
Il secondo e il terzo stadio sono stati è classificazione e l’esclusione totale dalla società. Perché questi stadi fossero raggiunti era necessaria la conquista del potere e la distruzione di ogni forma di opposizione al sistema. Con lo scoppio della guerra, prese corpo il progetto di distruzione e di sterminio totale. Ogni stadio ha preparato quello successivo, ma in ogni fase si poteva e si doveva fare qualcosa che potesse impedire che la fase raggiunta dispiegasse per intero la sua distruttività.
Che relazioni ha questa riflessione con l’oggi?
La geografia dell’Ebraismo e la sua composizione sociale rispetto ad un secolo fa è profondamene mutata. I grandi centri dell’Ebraismo orientale sono stati annientati dai nazisti. Le comunità ebraiche del mondo arabo sono fuggite in massa in Israele. L’Ebraismo dell’Europa occidentale è ormai un’ombra di quel che era. La nascita di Israele ha largamente evitato che i resti dell’Ebraismo precipitasse in un lutto senza fine. In situazioni di difficoltà estreme, la vita è tornata a pulsare. I due grandi poli dell’Ebraismo sono oggi rappresentati da Israele, dove vive oggi oltre la metà degli ebrei nel mondo, e gli Stati Uniti. Gli ebrei della diaspora sono largamente concentrati in paesi democratici. Sono parte della cultura e delle società in cui vivono. Per ragioni storiche, culturali e spesso anche famigliari, il loro legame con Israele è un elemento insopprimibile e irrinunciabile della loro identità. Identificare il presente come se fosse una mera ripetizione del passato, comporta l’impossibilità di comprenderlo in ciò che vi è di nuovo e di specifico nei pericoli che si annidano, e che sono tanti.
Nel 1975 l’Assemblea delle Nazioni Unite equiparò sionismo e razzismo.
Fu un episodio terribilmente inquietante. Il segno di una deriva che in appena sette anni dalla guerra del giugno 1967 aveva fatto tanto strada. Tre anni prima c’era stata la strage alle Olimpiadi di Monaco. Dopo il tragico epilogo, le Olimpiadi non furono sospese. L’anno dopo, il Paese dovette fronteggiare l’attacco a sorpresa dell’Egitto. Nel corso della guerra l’Europa non permise ai rifornimenti americani di fare scalo. A concederlo fu il Portogallo di Salazar. Da lì gli aerei americani poterono fare poi scalo a Tel Aviv. Dopo di che il 10 novembre del 1975, nel giorno che avrebbe dovuto semmai ricordare la mancata accettazione da parte della Lega araba della delibera del novembre 1947 con cui si auspicava la creazione di due stati, un ebraico ed uno arabo e la guerra di distruzione scatenata dagli eserciti arabi, come la causa prima della catena di lutti che si sono susseguiti nei due decenni successivi, l’Assemblea delle Nazioni Unite adottò una risoluzione (la 3379) nella quale si asseriva che “il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”.
A quell’epoca il numero degli Stati che mantenevano rapporti diplomatici con Israele si era fortemente assottigliato. Ci vollero sedici anni perché la risoluzione venisse cancellata con i voti di gran parte degli Stati che l’avevano a suo tempo approvata. Il cambiamento non è avvenuto per un processo di rielaborazione interna e di riparazione reciproca. Non investì il cuore delle relazioni fra i popoli della regione. Dopo la folle annessione del Kuwait da parte del regime di Saddam Hussein una coalizione di 35 Stati guidata dagli USA e sotto l’egida delle Nazioni Unite liberò il piccolo emirato. Nel corso della guerra Israele che non faceva parte della coalizione e ne era aprioristicamente escluso, fu ripetutamente colpito, ma non poté difendersi per non mettere a rischio l’unità della coalizione. Le immagini del direttore d’orchestra ed il pubblico, con le maschere di ossigeno da utilizzare in caso di necessità, fece il giro del mondo. Per un attimo il mondo che aveva voltato lo sguardo nel momento più tragico della storia del Novecento, si rivide per un attimo allo specchio. I sentimenti di colpa proiettati aggressivamente su Israele, tornarono alla fonte. Israele era in pericolo e con lui era in pericolo l’immagine del mondo che era stato edificato dopo la seconda guerra mondiale. All’indomani della guerra si aprì la conferenza di Madrid. La scommessa di un accordo sembrava possibile. E per procedere bisognava innanzi tutto cancellare l’ignominia di quella delibera. Dopo di che arrivarono nel 1993 gli accordi di Oslo che tanto fecero sognare e che fallirono tragicamente qualche anno dopo.
All’Assemblea delle Nazioni ci si limitò con un voto a cancellare la delibera del 1975. Nessuna riflessione su ciò che aveva simbolicamente rappresentato, affidando i cambiamenti che avrebbero risanato le ferite reciproche, ad un futuro incerto, che a molti sembrava invece sicuro, al punto da fare scrivere a qualcuno un libro dedicato alla “fine della storia”. La storia reale si riprese invece le sue rivincite e l’esito del futuro si è fatto ancora più incerto: carico di pericoli e di insidie che pongono sfide nuove che non si possono eludere.
Il mondo di oggi è un mondo multipolare che non ha trovato un equilibrio. È segnato dalla presenza di tre grandi potenze nucleari e da diverse potenze regionali emergenti. L’espansione iraniana di matrice sciita e quella neo ottomana di matrice sunnita spingo verso il Mediterraneo. Iran e Turchia erano un tempo per Israele paese amici. Insieme all’Etiopia rappresentavano una sponda contro l’accerchiamento del mondo arabo. La situazione è profondamente cambiata. L’Iran minaccia Israele di distruzione e lo accerchia di fatto militarmente. Quanto alla Turchia il tempo in cui i turisti israeliani visitavano in massa il paese, appare sempre più un ricordo lontano.