In politica estera occorre essere pragmatici e realisti
Matteo Perego, deputato di Forza Italia, indica a Riflessi quali sono gli scenari internazionali che avremo davanti nel prossimo futuro, con un occhio particolare al Mediterraneo e al Medio oriente
Onorevole Perego, lei fa parte della commissione difesa della Camera. Può spiegare innanzitutto ai nostri lettori di cosa si occupa la commissione, e i punti principali della sua attività in questa legislatura?
La commissione cui partecipo è preposta a interessarsi di tutti quei provvedimenti che riguardano la difesa del nostro Paese. In questa legislatura sono stato il primo firmatario del progetto di legge per l’introduzione della c.d. mini naia, su base volontaria, che ora è all’esame del Senato, in attesa di essere approvato dopo la fine della fase d’emergenza che abbiamo vissuto. Inoltre ho presentato un altro progetto di legge per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui pericoli della radicalizzazione jihadista e sul terrorismo di estrema destra e anarchico insurrezionalista nel nostro paese; inoltre un terzo progetto prevede l’istituzione di un Dipartimento per la scurezza nazionale, sul modello americano del National Security Advisor, per integrare e coordinare le attività del ministero degli esteri, degli interni e della Presidenza del consiglio in materia. Infine, mi sono interessato anche alla figura del c.d. soccorritore militare per le forze speciali.
Gli ultimi due anni sono stati finora interessati, sul piano internazionale, da numerosi accadimenti. Il passaggio dall’amministrazione Trump a quella Biden, il compimento della Brexit, la pandemia e, da ultimo, il ritiro drammatico della coalizione occidentale dall’Afghanistan. Lei che giudizio dà, in termini generali, degli attuali equilibri (o disequilibri) internazionali?
Partiamo dal ritiro dell’Afghanistan. Sono stato lì il 12 e 13 aprile, 2 giorni prima dell’annuncio del ritiro da parte degli USA. La scelta si spiega come un palese ri-orientamento della politica americana verso l’area dell’indopacifico. Oggi è infatti a Taiwan e in tutta l’area del mar meridionale cinese che si registrano le maggiori tensioni geopolitiche. Questo comporta per effetto la necessità di alleggerire le tensioni in medio oriente.
Si vedono altri effetti al riguardo?
Certo. Pensi agli accordi di Abramo. Essi sono l’effetto di un tentativo di stabilizzazione dell’intera regione, sia da parte di Israele che delle monarchie del golfo. Nel momento in cui gli USA tentano di mettere di nuovo mano al dossier sul nucleare iraniano, tutto ciò comporta la necessità di dare maggiore stabilità all’area, per passare poi più a Est. I due aspetti vanno dunque letti insieme. In Medio oriente si mischiano le necessità di alleggerimento degli americani, le ambizioni degli attori regionali, la nascita di un governo israeliano di larghe intese, che ripristina relazioni con Giordania e Egitto – attore fondamentale nella questione palestinese –, a favore di una pace duratura e maggiore prosperità.
Soprattutto la questione afghana ha fatto sorgere, con il ritorno al potere dei Talebani, il timore di una ripresa del terrorismo internazionale. Quanto è fondata questa possibilità?
L’Afghanistan ha una complessità notevole, che tende a essere letta con troppe semplificazioni. Il ritorno dei talebani può favorire tentativi d’emulazione, e dunque il ritorno a strutture radicali di potere, specie in Africa. E far nascere il timore che sia di nuovo base per azioni terroristiche. In realtà, a una lettura più approfondita, se vediamo i legami del nuovo emirato col Pakistan in funzione di tutela della propria sicurezza nazionale, non sono così convinto di tale automatismo. Semmai, il rischio è che un governo talebano debole come quello attuale – senza che ovviamente io auspichi un suo rafforzamento – consente a formazioni radicali in antagonismo, come l’Isis, di poter operare sul territorio con azioni violente. I talebani hanno esigenza di vedersi riconosciuti a livello internazionale, cosa che ovviamente non si avrà se c’è il terrorismo.
Come giudica il ritiro?
Ritengo che noi occidentali avremmo dovuto assumere l’atteggiamento tenuto in Kosovo, o in Libano con operazioni come quella Unifil, per calmierare la tensione. Si è scelta un’altra strada.
Vorrei soffermarmi ora sul Mediterraneo e l’area del Medio oriente. In Libia sembra essersi realizzata almeno una tregua tra i rivali Haftar e Al-Sarraj. Questo che effetto potrà avere sulle rotte immigratorie che hanno come obiettivo l’Italia?
Ormai il paese è diviso in due, come a prima dell’unificazione, tra la Tripolitania, ad influenza turca, e la cirenaica. Anche se credo che l’attuale equilibrio non abbia effetti diretti sui flussi diretti di immigrati, certo va detto che l’Europa ha fallito, per le rivalità tra la Francia, che voleva contendere l’influenza sull’Italia, cosicché ora entrambi non sono più gli attori principali sulla scena. L’agenda estera europea deve essere ricostruita, a mio avviso, con un maggiore interventismo.
Il nostro paese è preoccupato che la Russia di Putin si sia stabilmente affacciato nel mediterraneo, con una sorte di protettorato in Libia?
In politica estera occorre essere pragmatici e realisti. In Siria, nel 2019, ho visto i risultati prodotti dal vuoto di potere. Se pensiamo di utilizzare i criteri attuali della politica estera europea, troveremo sempre competitor più efficaci di noi. Noi non abbiamo mai dato un vero supporto militare ad al Sarraj, che quindi si è appoggiato alla Turchia. Anche in Cirenaica, la Russia interviene per colmare un vuoto occidentale. Ogni volta che ci sono conflitti internazionali, operano nazioni che non hanno i nostri vincoli costituzionali, per mezzo di contractor, e credo che noi europei continueremo ad arrancare, se pensiamo solo a usare gli strumenti del dialogo e della burocrazia. Gli europei devono decidere cosa fare: non si può essere protagonisti geopolitici senza le forze armate. L’Europa, a mio avviso, deve avere poter disporre di una forza di deterrenza militare concreta.
Per quanto riguarda Israele, con le ultime elezioni si è registrata la fine (al momento) della stagione di Netanyahu, un nuovo governo Bennett. Netanyahu ha comunque lasciato in eredità gli accordi di Abramo, tra Israele e alcuni paesi arabi. Come giudica questo cambiamento nelle relazioni diplomatiche tra paesi da sempre in regime di guerra fredda?
Il mio giudizio è positivo, in particolare perché Israele ha intuito la necessità di ricostruire e rafforzare le relazioni con i paesi limitrofi, in un approccio più oriento al dialogo, e non alla chiusura registrata dal governo Netanyahu. Pensiamo alla questione iraniana. Come segalato da alcuni analisti, è importante pe Israele non esporsi in attrito con gli Usa, come fatto con Obama, ma essere più pragmatici. Se l’agenda USA prevede un dialogo con l’Iran, poi Israele dovrà parlare con gli USA per bilanciare di nuovo l’equilibrio regionale. E dovrà rafforzare i rapporti con Giordania e Egitto. Insomma, bisogna essere più pragmatici, naturalmente senza mutare valori su cui poggia Israele.
Quali sono le linee di politica estera che il nostro paese segue in medio oriente?
La mia opinione personale è che, fermo restando ogni sforzo per trovare la verità sul caso Regeni, non si può non pensare di mantenere i rapporti con l’Egitto sul piano geopolitico, della difesa e del commercio. L’Egitto è un partner fondamentale per l’Italia, per le nostre industrie – pensiamo solo all’ENI – e non possiamo pensare che una singola vicenda possa compromettere la relazioni tra i due paesi, perché sarebbe un vantaggio per i nostri competitor. Dobbiamo evitare lo stesso errore che fu fatto con gli Emirati Arabi uniti, quando decidemmo di limitare l’esportazione di armi per via del conflitto in Yemen.
Per quanto riguarda il conflitto tra Hamas e Israele, il suo partito che giudizio dà di chi governa Gaza?
Io penso che si sia aperta una nuova prospettiva. Il Qatar sta lavorando per dare fornitura di servizi e assistenza senza passare per Hamas. Io credo che Israele, con l’aiuto dei paesi arabi, se garantirà standard di vita accettabili al popolo palestinese, allora potrà ridimensionare Hamas. Allo stesso modo si deve sostenere l’ANP, nonostante Abbas sia in declino, perché dove si riesce a elevare il benessere della popolazione, viene meno il fanatismo.
È favorevole alla nascita di uno Stato palestinese?
Sono pragmatico. Credo che oggi il traguardo politico sia secondario rispetto allo stato di fatto. In questo momento è più importante far accedere la popolazione ai bisogni primari, più che pensare alla nascita di uno Stato palestinese.
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