Ci attende un mondo più cooperativo e più competitivo
Gianni Vernetti*, parlamentare dal 2001 al 2013 ed esperto di relazioni internazionali, descrive a Riflessi i cambiamenti in atto nello scacchiere internazionale, dal Mediterraneo al Pacifico, e quale ruolo si profila per due peasi come l’Italia e Israele
Onorevole Vernetti, nell’ultimo anno abbiamo registrato sul piano internazionale, il passaggio dall’amministrazione Trump a quella Biden, il compimento della Brexit, il ritiro drammatico della coalizione occidentale dall’Afghanistan e da ultimo la fine dell’era Merkel. Che mondo è quello in cui vivremo nei prossimi anni?
Credo che nei prossimi anni assisteremo ad un mondo che sarà contemporaneamente più “cooperativo” e più “competitivo”. Più cooperativo perché le grandi sfide globali posso essere affrontate soltanto con coalizioni e accordi di lungo periodo fra gli stati e le organizzazioni regionali: cambiamento climatico, sicurezza e lotta al terrorismo internazionale e pandemia sono sfide sovranazionali che possono essere affrontate soltanto con vere intese di lungo periodo fra i principali attori politici sulla scena globale. Più competitivo perché si sta sempre più profilando all’orizzonte un confronto sempre più acceso fra due modelli contrapposti di governo e di sviluppo: quello delle “democrazie liberali” e quello delle “autocrazie”.
Sarà una competizione economica?
No, non si tratta soltanto della competizione fra le prime due grandi economie di Stati Uniti e Cina; si tratta di una competizione più profonda fra due modelli di società, fra due idee contrapposte sul ruolo dello stato, sui diritti inalienabili degli individui, sul rapporto con il mercato.
Che modello è quello rappresentato dalla Cina?
Abbiamo per troppo tempo ritenuto che fosse possibile “confinare” la Cina a ruolo di “fabbrica del mondo”, dove poter facilmente delocalizzare a costi ridotti molte delle nostre produzioni, per poi scoprire, in seguito alla svolta di Xi-Jinping del 2014, un paese sempre più assertivo sulla scena internazionale, che ha occupato illegalmente ampie porzioni del mar Cinese Meridionale, vuole esportare il proprio modello autoritario con il progetto della Nuova Via della Seta, ha stravolto lo status quo di Hong Kong, minaccia quotidianamente Taiwan, rinchiude milioni di propri cittadini in centri di detenzione dal Xinjiang al Tibet. Anche il ritiro affrettato e sbagliato dall’Afghanistan di Usa e coalizione occidentale può produrre un’inedita alleanza fra Cina e forze islamiste fra Pakistan, Afghanistan, Iran, Qatar e Turchia, che rischia di accrescere l’instabilità dell’area.
L’Europa è, al solito, schiacciata tra occidente (USA) e oriente (Cina, e anche Russia). Le tensioni tra Francia da una parte, e Usa Gran Bretagna e Australia dall’altra, sulla vendita dei sommergibili atomici, ha evidenziato anche fratture dentro la coalizione Nato. Insomma, l’Unione europea quanto conta nel mondo?
Credo che l’accordo AUKUS (Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti) sulla vendita dei sommergibili a propulsione atomica a Canberra sia stato un fatto positivo che, insieme all’avvio del QUAD fra Usa, India, Giappone e Australia, rafforzi l’alleanza fra le democrazie “atlantiche” e quelle dell’Indo-Pacifico. La Francia ha perso un’opportunità commerciale che con buone probabilità si riaprirà a breve con un’equivalente commessa della Corea del Sud e comunque sarebbe stato meglio coinvolgerla fin da subito nelle nuove alleanze dell’Indo-pacifico. La Francia è l’unico paese europeo con 1 milione di suoi cittadini che vivono nell’Oceano Indiano (Isola di Reunion), e con basi militari nel Pacifico (Tahiti e Nuova Caledonia). Quanto all’Europa, indebolita dalla Brexit, dovrebbe mettersi a fare davvero l’Europa.
Cosa intende?
Mai come oggi servirebbe un’Europa più coesa e più integrata. La nascita di un esercito europeo è sempre più una necessità, come sono fondamentali accresciuti poteri europei in materia di politica estera. Quando l’Europa agisce unita nel mondo ottiene notevoli risultati: pensi al settore della Cooperazione allo Sviluppo. In tutta l’Africa sono le delegazioni della UE e le risorse europee investite il vero attore della cooperazione, non i singoli stati.
E l’Italia? Può delineare per i nostri lettori i punti su cui si muove la nostra diplomazia con il governo Draghi?
Con Draghi, l’Italia è oggi uno dei paesi più ascoltati e rispettati a Bruxelles. La politica estera dell’Italia non può che svolgersi lungo 3 direttrici: l’europeismo, l’atlantismo e il Mediterraneo. Più integrazione europea, con la prospettiva strategica di lungo periodo degli Stati Uniti d’Europa. Più solidi rapporti atlantici con Usa e partner Nato e infine una chiara missione geografica: il Mediterraneo e l’Africa Sub-sahariana.
In particolare, sul mediterraneo quale linea dovremmo seguire?
Sul Mediterraneo l’Italia può e deve “cambiare passo”: più cooperazione economica con tutti i paesi dell’area, più sostegno ai processi democratici nel Maghreb, sostegno all’allargamento degli Accordi di Abramo con altri paesi arabi; impegno diretto nel contrasto al terrorismo in Libia e nel Sahel; rafforzamento della partnership strategica con Israele.
Veniamo proprio ad Israele. Con le ultime elezioni sembra essersi conclusa la lunga stagione di Netanyahu. Su quali linee di politica estera le sembra operare il governo Bennett, e il ministro degli esteri Lapid?
Credo che il governo Bennett da poco insediato rappresenti la voglia di concludere il lunghissimo ciclo di Netanyahu con un’intesa fra soggetti politici anche molto distanti fra loro. Non c’è dubbio che tale scelta avrà un impatto sul paese. Non vedo però cambiamenti drastici in politica estera e credo che ci sarà una sostanziale continuità: prosecuzione del lavoro avviato con gli Accordi di Abramo; solidissimi rapporti con l’Amministrazione Usa; contenimento e contrasto dell’Iran e suoi proxys alle frontiere, da Hamas ad Hezbollah.
Netanyahu ha comunque lasciato in eredità gli accordi di Abramo, tra Israele e alcuni paesi arabi. Come giudica questo cambiamento nelle relazioni diplomatiche tra paesi da sempre in regime di guerra fredda?
Credo che gli Accordi di Abramo siano una importantissima eredità ed una fondamentale svolta politica che sta cambiando soprattutto il mondo arabo, modificando i paradigmi del passato. Oggi non serve più leggere il mondo arabo con gli occhi del passato e la nuova “faglia” non passa più fra sciiti e sunniti, bensì fra “innovatori” e “conservatori”, fra jihadismo e pace con Israele. Gli Accordi di Abramo dimostrano come sia possibile una nuova stagione riformatrice ed innovativa nel mondo arabo e islamico: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan hanno aperto la strada che sarà della piena normalizzazione dei rapporti con Israele che sarà seguita da altri paesi. I leader di Ramallah dovrebbero cogliere questa opportunità
Più in particolare ritiene che il nuovo corso avrà effetti anche nelle relazioni con i palestinesi?
Credo gli Accordi di Abramo possano essere la cornice entro la quale riprendere il dialogo con l’Autorità palestinese. Non sarà semplice, ma credo che sia giunto il momento per i leader palestinesi di comprendere che il mondo arabo stia cambiando e dopo decenni di pregiudizio e di conflitto permanente con Israele, la convivenza, il riconoscimento reciproco, il diritto ad una vera sicurezza possano rappresentare un forte interesse reciproco.
Un’ultima domanda. L’Iran continuerà a essere una minaccia per la stabilità dell’area?
L’Iran di Raisi continua ad essere una minaccia non solo per le donne iraniane e per quei milioni di iraniani costretti a vivere in un regime violento e anacronistico, ma per tuto il grande Medio Oriente: dal Libano alla Siria allo Yemen e naturalmente per Israele. L’Iran esporta terrorismo e instabilità perseguendo un programma nucleare illegale e finanziando decine di milizie e gruppi terroristi in tutto il grande Medio Oriente. Hezbollah sono una minaccia costante nel nord di Israele e rendono impossibile la stabilizzazione del Libano; Hamas guida una dittatura islamica a Gaza e minaccia ogni giorno migliaia di civili israeliani nel sud del paese; in Siria, l’Iran è stato complice del dittatore Assad negli immani massacri di civili e oppositori de regime; senza l’Iran l’insorgenza Houthi non avrebbe scatenato il conflitto in Yemen.
* analista internazionale ed ex parlamentare. Per i dettagli: https://giannivernetti.it/