L’aria che tira nei campus degli Stati Uniti
Dopo il 7 ottobre anche negli USA si sono moltiplicate le manifestazioni ostili a Israele. Nadja Hofmann ci spiega le origini delle proteste
L’antisemitismo nelle università americane non è un nuovo fenomeno. Da anni nei campus americani e nel mondo accademico, coloro che si identificano come detrattori di Israele hanno confuso volutamente o non, il conflitto palestinese-israeliano con altre lotte di liberazione ed hanno coinvolto e condannato i sostenitori di Israele di ogni ingiustizia sociale.
Nelle aule universitarie, anche in quelle più elitarie come Harvard, Cornell, Columbia, MIT, Penn, Berkeley, per citarne alcune, la disonestà intellettuale e le motivazioni politiche hanno spesso influenzato l’interpretazione e l’insegnamento della storia, demonizzando Israele come stato coloniale e delegittimando la patria storica del popolo ebraico. Il movimento palestinese BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) dal 2005, ha avuto una grande risonanza nel mondo accademico soprattutto fra i docenti. Di conseguenza, già esistevano enormi preoccupazioni prima del pogrom del 7/10 in Israele e la grande paura ed il timore erano che l’odio per Israele si tramutasse in odio per gli ebrei, cosa che purtroppo si è avverata.
Già il 9 ottobre, il movimento SJP -Studenti per la Giustizia in Palestina, si era già mobilizzato organizzando un incontro nazionale fra i vari Chapters che rappresentano il movimento nelle università, e in preparazione per la protesta del 12 ottobre, chiedendo una giornata nazionale di azione e resistenza nei campus universitari americani e canadesi, esercitando il potere politico che le loro organizzazioni detengono nei campus e nelle varie comunità contro il nemico sionista. Basta leggere il loro manifesto “Day of Resistance Toolkit”.
Purtroppo, molti fra i Presidenti delle università americane non hanno reagito immediatamente al clima iper-violento delle proteste nei loro istituti né agli slogan inneggianti al genocidio degli ebrei, alcuni si sono limitati a appelli generici e in difesa del “free speech”- della libertà di parola – non condannando con fermezza il massacro del 7/10, né prendendo iniziative contro quei professori che si sono dimostrati “euforici” – vedi alla Cornell University – o non intervenendo sui Social delle Università dove imperversa ancora adesso un antisemitismo pauroso e un grande negazionismo su quello che era accaduto il 7/10: il Sabato Nero, o non dando la dovuta attenzione agli studenti di religione ebraica o agli studenti israeliani o quelli con doppia cittadinanza americana ed israeliana che erano stati minacciati, insultati, intimiditi, isolati, o che erano stati bullizzati in classe o avevano subito assalti fisici all’università. Tutto questo ancor prima che il governo israeliano decidesse di entrare militarmente a Gaza.
Nelle università americane, il problema dell’antisemitismo si moltiplica perché è riflesso nel Hate Speech Climate del campus, nei “dorms” dove vivono gli studenti, con i compagni di stanza, nelle mense, nelle biblioteche universitarie, nelle classi e online.
Le organizzazioni ebraiche all’interno delle università si sono mobilizzate immediatamente, per esempio Hillel International si è mossa sia a livello di sicurezza dei loro centri e a livello di assistenza e consulenza legale, e di rispondere immediatamente alla crisi del momento degli studenti (Crisis Response) e di puntare anche sulle politiche educative delle università.
Diverse piattaforme sono nate nel giro di pochi giorni – create da genitori, o madri o studenti di religione ebraica nei quali quotidianamente si possono leggere testimonianze di antisemitismo e di un clima intollerante contro studenti di religione ebraica a cui la libertà di parola viene negata, o gli si impedisce fisicamente di andare in classe, o durante il percorso si sentono gridare “Global Intifada” o che vedono svastiche nei dorms. Tale clima ha fatto sì che portare il magen David o la kippah è diventato sinonimo di “Jewish Pride” o di paura di “mostrarsi” ebreo.
Un sito in particolare, è “Mothers Against College Antisemitism” – creato da una avvocatessa newyorchese di religione ebraica – nel giro di due settimane, circa 50.000 persone, per lo più madri, hanno aderito a questa organizzazione.
L’organizzazione ADL – Anti-Defamation League – parla di un aumento dell’antisemitismo del 400 % dal 7 ottobre ad oggi e con una percentuale ancora piu alta nei campus.
La strada è lunga- e legalmente esistono dei provvedimenti come il Title VI parte dello storico Civil Rights Act del 1964 che proibisce la discriminazione sulla base della razza, del colore, e dell’origine nazionale nei programmi e nelle attività che ricevono assistenza finanziaria federale ma ovviamente non basta.
C’è una gran mancanza di chiarezza morale nel mondo accademico ed i valori universali democratici sono in forte pericolo.
Alla domanda “Cosa è cambiato nella società americana dopo il 7 ottobre?” Rachel Fish, esperta riconosciuta ed attivista americana sul tema dell’odio verso gli ebrei, consulente speciale per l’iniziativa presidenziale della Brandeis University per il contrasto dell’antisemitismo nell’istruzione superiore, ricercatrice presso il Cohen Center for Modern Jewish Studies e Visiting Professor alla George Washington University dove insegna storia e società israeliana nella “Graduate School of Education and Human Development”, ha risposto che nel 21° secolo l’antisemitismo, senza alcun dubbio, è diventato “socialmente accettabile” e il problema non è un problema degli ebrei, bensì della società liberale e occidentale: “Si sono abbassati enormemente gli argini della nostra società e la differenza fra – un prima – e un post 7 ottobre – è che “ adesso, abbiamo aperto gli occhi”. Già da anni, prosegue la Dott.ssa Fish, aveva dato l’allarme sull’ondata di antisemitismo da parte sia della estrema destra che estrema sinistra nonché da parte dei movimenti dell’islamismo radicale e dei movimenti estremisti di liberazione dei Neri.
C’ è stato, volutamente e non, un rifiuto a guardare la realtà negli occhi. Siamo arrivati, continua Fish, a essere testimoni di gruppi universitari che non hanno nulla a che fare con Israele o con l’ebraismo o con il sionismo, tipo gruppi per l’ambiente o contro la violenza sessuale sulle donne che dicono a coloro che si identificano come sionisti, che non è loro permesso di partecipare alle loro iniziative in quanto tali, quindi ora è diventato politicamente corretto accettare questa forma di odio verso gli ebrei in molti spazi intellettuali all’interno delle università americane.
Sempre secondo Rachel Fish, parte del motivo del silenzio e/o dell’assenza di condanna su ciò che è accaduto il 7 ottobre può essere attribuito a diverse cornici concettuali che sono state operative e fondamentali su come si è percepito il mondo da 50 anni ad oggi, nel mondo delle idee e accademico. Cornici concettuali come il post colonialismo, o la decolonizzazione, che si sono gemellati con il “postmodernismo” nel quale non esiste una verità oggettiva, tutte le narrazioni sarebbero “uguali” e tutti i fatti sarebbero “discutibili”, o con l’idea marxista per la quale l’obiettivo sarebbe “indebolire i più forti e rafforzare i deboli” o con il post nazionalismo. Laddove queste cornici intellettuali diventano il modo esclusivo in cui si vede e comprende la realtà, si finisce ad accettare un paradigma molto semplicistico e superficiale per il quale “coloro che hanno la pelle chiara sono chiaramente potenti e quindi sono allineati con l’oppressore”, rispetto agli “impotenti e oppressi dalla pelle scura”. In conclusione, la Dott.ssa Fish aggiunge che si arriva a concepire la formula di “Israele e per estensione tutti gli ebrei, come colonialisti bianchi, imperialisti, che hanno sfollato una popolazione indigena nativa dalla pelle scura”, ma che conclude che questa rappresentazione errata manca di reale integrità storica. Tuttavia, per le persone e i gruppi che vedono il mondo sotto queste lenti, il 7 ottobre “non è conforme al loro paradigma in cui gli ebrei sarebbero le vittime”.
La chiara analisi di Fish, intesa in un contesto storico americano, chiarisce la demagogia delle varie forme di discorsi di odio che continuano a verificarsi e ad aumentare nei campus, nelle classi e da parte dei rettori delle università della Ivy League (le più importanti università USA) e non solo. Recentemente, alla domanda se l’appello all’Intifada gridato a squarciagola nei campus, è di fatto quello di commettere un genocidio contro il popolo ebraico in Israele e nel mondo – e quindi un discorso incitante all’odio contrario al codice di condotta di Harvard, della Penn State o della MIT, le tre rettrici si sono espresse facendo appello alla libertà di espressione e solo quando e se quel discorso si dovesse trasformare in azione (conduct) che viola i regolamenti universitari. Allora ci si pone la domanda: “Devono uccidere tutti gli ebrei nel campus per diventare “una violazione alla condotta di comportamento dell’università?”
Gli esempi sono molteplici e accadono giornalmente. Gli studenti di religione ebraica nelle varie università stanno fornendo le proprie testimonianze al Congresso degli Stati Uniti. Talia Kahn, di madre ebrea e padre musulmano immigrato afghano, presidentessa dell’alleanza israeliana al MIT presso il quale si è laureata, afferma che c’è un’atmosfera antisemita estremamente malata.
Il gruppo radicale anti-israeliano CAA (Coalition Against Apartheid) ha condizionato così tanto la vita nel Campus del MIT che il clima è diventato intollerabile. Il 70% degli studenti ebrei intervistati si sentono costretti a nascondere la propria identità e opinioni. Un esempio su tutti, quello di uno studente israeliano, il cui nome è stato pubblicato on line con una “taglia”, che non esce più dalla sua stanza dell’università. Talia dice che lei stessa ha dovuto abbandonare il gruppo di studio di dottorato dopo che alcuni suoi membri avevano detto che le persone al Nova Festival in Israele meritavano di morire perché stavano festeggiando su una terra “rubata”. Conclude la sua toccante testimonianza implorando l’amministrazione al MIT di intervenire e di prendere provvedimenti ed alla Presidente Sally Kornbluth di adempiere ai suoi obblighi e se non è in grado, Talia ha chiesto al Congresso di farlo.
n.d.r La richiesta è stata fatta propria da un gruppo di 72 parlamentri del Congresso e, ad oggi, ha portato alle dimissioni di Liz Magill della University of Pennsylvania (UPenn).