Israele dopo il voto: quali i possibili scenari? di Claudio Vercelli

Martedì 23 marzo si è votato in Israele, la quarta volta in meno di due anni, per eleggere la Knesset. La precedente legislatura, avviatasi pochi mesi prima, si era infatti ben presto arenata dinanzi all’impossibilità di continuare a mantenere in vita un governo di coalizione, presieduto da Benjamin Netanyahu, leader del Likud, che aveva imbarcato anche i voti parlamentari di Kahol Lavan, la formazione politica di Benny Gantz. Le continue frizioni tra queste due componenti maggioritarie ma, soprattutto, i conflitti permanenti tra lo stesso Netanyahu e i suoi alleati, hanno fatto sì che non venisse votata la legge di bilancio, in tale modo decretando lo scioglimento del Parlamento.

L’instabilità è un tratto oramai persistente del sistema politico israeliano, basato su un sistema proporzionale con una soglia di sbarramento del 3,25%. La stessa tornata elettorale del mese scorso non ha permesso di esprimere una leadership e, soprattutto, una stabile maggioranza, che possano garantire la naturale durata della legislatura appena inauguratasi, la ventiquattresima.

Il voto per i 120 seggi che compongono la massima istituzione rappresentativa del Paese, hanno riconosciuto al Likud il ruolo di partito di maggioranza relativa, con 30 eletti, ma hanno anche confermato la frammentazione che attraversa la rappresentanza parlamentare nel suo insieme, composta di 13 liste per 24 partiti.

Fare una sorta di collage tra così tanti protagonisti, per raggiungere il numero di 61 seggi, che garantiscono la maggioranza assoluta necessaria per fare passare le leggi attraverso il voto parlamentare, è decisamente arduo. Non di meno, un fattore decisivo di divisione, che attualmente la politica allo stallo, è il ruolo di Benjamin Netanyahu. In sella al suo partito da oramai 25 anni, tra i più longevi esponenti politici israeliani, ha da tempo trasformato le elezioni in una sorta di referendum sulla sua persona. Fortemente appoggiato dagli elettori del suo partito ma osteggiato duramente da un grande numero di israeliani, fino ad oggi, malgrado le inchieste giudiziarie e i processi che lo chiamano in causa, è riuscito a svolgere il ruolo di ago della bilancia.

Di fatto i suoi avversari ritengono che non si potrà raggiungere nessun accordo duraturo alla Knesset finché «Re Bibi», così come lo chiamano entusiasticamente i suoi sostenitori ed ironicamente i suoi detrattori, cercherà di assicurarsi la premiership. Che anela non solo per calcolo politico ma anche per difendersi dai guai giudiziari, trattandosi di uno scudo contro l’esecuzione di eventuali condanne a suo carico.

Nel complesso, la composizione dell’attuale Parlamento risulta sbilanciata a favore dei partiti della destra, sia di quella nazionalista che religiosa. Non solo il Likud ma gruppi come Yamina, Yisrael Beiteinu, New Hope, Tkuma (i«sionisti religiosi», che hanno al loro interno due eletti dell’area estremista di Otzma Yehudit e Noam), insieme alle stesse formazioni religiose come lo Shas e United Torah Judaism, sono i vettori politici di identità conservatrici. I«sionisti religiosi», inoltre,coltivano posizioni radicali su molte questioni dell’agenda politica nazionale. Mentre le liste arabe si sono ridimensionate, quasi dimezzando il numero di eletti e dividendosi tra di loro, la formazione più importante dell’area centrista e secolarizzata rimane Yesh Atid, con 17 parlamentari. La sinistra nel suo insieme, ossia il Meretz e il Labor, non supera i 13 seggi.

L’incarico di formare il nuovo governo è stato conferito dal capo dello Stato Reuven Rivlin ancora una volta a Netanyahu, in quanto esponente della lista più votata. Ha 28 giorni effettivi, più un’altra quindicina di riserva, per cercare di trovare i voti in Parlamento. Molti ritengono che non abbia spazi effettivi di manovra. Nel qual caso, se il suo, così come gli eventuali successivi tentativi, dovessero fallire, è pressoché certo che Israele torni a breve di nuovo alle urne, come in una sorta di gigantesco gioco dell’oca.

 

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