Via Rasella, l’antifascismo e il valore della Resistenza, oggi

Gabriele Ranzato esamina il contesto in cui 80 anni fa venne realizzato l’attentato di via Rasella e cosa significò per la storia della Resistenza

Professor Ranzato, qual era la situazione a Roma all’indomani dell’8 settembre 1943? La città aveva una rete già attiva contro i nazifascisti?

Gabriele Ranzato, professore emerito di Storia contemporanea

Naturalmente no. I partiti antifascisti avevano un’esile presenza. Non solo a Roma, ma in tutta Italia. Il Regime Fascista, debole per tanti aspetti, soprattutto sotto il profilo militare, aveva mostrato una grande efficienza nella repressione dell’opposizione clandestina. Nel mese e mezzo successivo alla caduta di Mussolini i partiti antifascisti avevano potuto fare ben poco per organizzarsi. Anche il Partito Comunista, di cui era sopravvissuta un’organizzazione un po’ più consistente non poté fare granché, soprattutto perché il governo Badoglio aveva mantenuto nei luoghi di confino fino all’ultima decade di agosto i suoi principali quadri dirigenti. A Roma si era costituito un “Comitato delle opposizioni”, che il pomeriggio del 9 settembre si trasformò in Comitato di Liberazione Nazionale, ma non riuscì a fare nulla per partecipare attivamente alla difesa di Roma. Diversi membri dei partiti del CLN andarono a Porta San Paolo. Ma ci andarono per iniziativa personale e non parteciparono a quei combattimenti di soldati e popolo contro i tedeschi, che possono rappresentare l’aurora della Resistenza. Non si poteva andare al di là di quell’impresa simbolica, perché anche un maggior coinvolgimento della cittadinanza non avrebbe potuto impedire l’occupazione tedesca.

Proviamo a descrivere quei mesi di occupazione tedesca. Innanzitutto: come fu gestita dal punto di vista ammnistrativo e militare la città? Con pugno duro o cercando di ottenere il consenso della cittadinanza?

8 settembre 1943: battaglia a Porta san Paolo

L’intento dei tedeschi, non solo a Roma, ma in tutte le città dell’Italia occupata, fu quello di lasciare la normale amministrazione e il controllo dell’ordine pubblico soprattutto alle autorità della RSI. In particolare nella capitale restarono in funzione il Governatorato della città e il corpo di polizia della Questura, a cui fu aggiunto un Comando di Polizia della Città Aperta. Nei primi mesi dell’occupazione, quando la cittadinanza non appariva particolarmente ostile, le truppe tedesche addette a compiti di repressione non furono molto numerose, e il famigerato colonnello Kappler, il cui reparto era particolarmente dedicato alla lotta antipartigiana e alla persecuzione degli ebrei, anche successivamente non ebbe mai a disposizione più di una settantina di uomini. In quella fase i tedeschi usarono il pugno duro a fini di ammonimento solo in un caso, quando alla fine di ottobre del 1943 fucilarono dieci popolani o protopartigiani – non si è mai potuto stabilire con certezza – sorpresi a saccheggiare di viveri ed armi il Forte Tiburtino abbandonato dall’esercito italiano. Della notizia di quel castigo i tedeschi diedero la massima diffusione attraverso un manifesto che fecero affiggere in tutta la città. Era il 29 ottobre, ma già giorni prima avevano mostrato tutta la loro spietatezza e crudeltà con la razzia degli ebrei.

Per quanto riguarda la Resistenza: come era organizzata? Aveva contatti con gli Alleati? C’era un coordinamento unico o si procedeva in modo autonomo?

la mattina del 16 ottobre 1943 immaginata dal regista Carlo Lizzani

La Resistenza romana, proprio per la scarsa consistenza, in uomini e organizzazione, dei partiti che in origine la componevano aveva di fronte un compito difficilissimo, soprattutto per quanto riguarda l’attività “militare”, di belligeranza contro l’occupante e i suoi sostenitori fascisti, che era la sua missione principale. Occorreva infatti far conoscere la sua esistenza, in primo luogo ai molti dispersi nella città disposti a raggiungerla per combattere i nazifascisti e ingrossare così le sue file, e poi anche agli Alleati, per far loro sapere che c’erano degli italiani che si stavano battendo con loro per gli stessi fini di liberazione dell’Italia e dell’Europa. A questo scopo fu creata una Giunta Militare del CLN, che tuttavia non riuscì mai a stabilire, dirigere e coordinare le azioni armate da compiere. Così la lotta armata in città fu autonomamente condotta solo da alcuni partiti, tra cui prevalse certamente quella del Partito Comunista. Ma anche il PC era inizialmente povero di armi e di uomini, soprattutto quelli addestrati alla clandestinità e al combattimento urbano, e fu un risultato straordinario quello di riuscire a mettere in campo già dal tardo autunno un nucleo gappista che cominciò a bersagliare con efficacia tedeschi e fascisti. In questa attività la Resistenza non poté avere alcuna assistenza dagli Alleati, con i quali peraltro ebbe scarsi contatti, di importanza soprattutto informativa a loro beneficio, attraverso servizi radio gestiti dal Partito Socialista e dal Fronte Militare Clandestino.

L’attentato di via Rasella è il caso più eclatante di resistenza ai nazifascisti, ma non l’unico. Possiamo ricordarne altri?

la stele che ricorda una delle peggiori stragi naziste in Italia: S. Anna di Stazzema

Nessuno di quella portata, che d’altra parte non ha riscontro in alcun altro attentato partigiano in Italia e in tutta Europa. A Roma ci fu soltanto un attentato con bomba il 18 dicembre 1943 in una trattoria di via Fabio Massimo frequentata da tedeschi, ma di cui rimasero vittime solo nove operai italiani del “servizio del lavoro” da loro impiegati, e un altro del 23 gennaio 1944 contro il Posto di Ristoro tedesco alla stazione Termini in cui sarebbero morti tre loro militari. Furono però numerosi gli attacchi mortali gappisti a tedeschi e fascisti isolati o in piccoli gruppi.

Ancora oggi, tra i detrattori dell’attentato a via Rasella, c’è chi dice che la rappresaglia dei tedeschi era prevedibile, e che dunque l’attentato si ritorse contro i romani con la consapevolezza di chi lo organizzò.

Comprendo quanto sia difficile, soprattutto per le generazioni più lontane dalle vicende della Seconda Guerra Mondiale, lasciate ignare di quale fosse l’immenso pericolo per l’intera umanità di una vittoria del Nazifascismo, capire la necessità di un attentato come quello di via Rasella, e accettare che fosse effettuato con la consapevolezza, per me indubitabile, che ad esso sarebbe seguita una terribile rappresaglia. Quell’attentato differiva da tutte le azioni della lotta armata della Resistenza sui monti e nelle città solo per l’alto numero di nemici tedeschi uccisi in un sol colpo, ma come tutte quelle altre azioni era inevitabile che fosse seguito da rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile, che i tedeschi attuarono dovunque poterono. Accettando il ricatto della rappresaglia non ci sarebbe stata la Resistenza armata, tanto più necessaria per gli italiani che dovevano riscattarsi dalla colpa di avere accettato e assecondato la criminale guerra di Mussolini a fianco di Hitler. Dire che via Rasella si poteva evitare senza rinunciare a continuare la lotta non ha senso, perché questo doveva poter valere per ogni città e ogni singolo borgo, e poco ci sarebbe restato allora di quella lotta. La Resistenza romana alla vigilia dell’arrivo degli Alleati liberatori poté offrire loro come unico atto di guerra capace di attirare, per le sue dimensioni, la loro attenzione solo l’attentato di via Rasella, non solo come gesto simbolico del suo contributo alla liberazione della città, ma come indicazione concreta che c’era una Resistenza italiana disposta a ogni sacrificio per la loro vittoria che sarebbe stata anche la sua vittoria.

Mussolini, Hitler e Vittorio Emanuele III

Lo scorso anno ci fu anche il presidente La Russa a mettere in dubbio che i soldati altoatesini fossero armati. Qual è la sua idea di storico al riguardo?

Quanto alle vittime dell’attentato, al di là delle osservazioni farsesche che degradano anche la loro memoria, posso dire questo: i soldati che rimasero uccisi appartenevano a un battaglione di polizia, in seguito impegnato al nord in molte operazioni antipartigiane, costituito da coscritti altoatesini. Appare alquanto capzioso desumere da questo, come hanno fatto molti critici di via Rasella, che si trattasse di uomini buoni e inoffensivi. Perché non sappiamo nulla dei loro orientamenti politici né delle loro qualità morali. Non dobbiamo saperlo. Coscritti buoni, e alcuni anche antinazisti, c’erano certamente anche nell’esercito germanico, eppure coloro che si opponevano a quell’esercito, fossero soldati alleati o partigiani, dovevano ucciderli. Come fanno sempre tutti i militari di fronte al nemico, sia che questo si trovi all’attacco, sia che stia in stato di quiete. Questo è uno dei più grandi orrori di ogni guerra, la cui responsabilità ricade su chi la provoca, tanto più se persegue intenti esecrabili.

Pio XII (1876-1958) quando era nunzio apostolico a Berlino

Il Vaticano è costantemente al centro di dibattito circa i silenzi di Pio XII sulla deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Sull’eccidio delle Fosse Ardeatine invece il pontefice si espresse?

Personalmente no, ma fece apparire sulla prima pagina dell’«Osservatore Romano» un comunicato, che certamente rispecchiava il suo pensiero, nel quale voleva apparire «al di sopra delle contese», ma in realtà si esprimeva più severamente contro «i colpevoli [dell’attentato] sfuggiti all’arresto», mentre ai tedeschi, autori di quella mostruosa rappresaglia, sembrava rimproverare soltanto di non essere stati all’altezza della loro responsabilità «verso le vite che vogliono salvaguardare, verso la storia e la civiltà». Parole inammissibili se riferite, come erano riferite, alle più alte autorità della Germania nazista. Per quanto possa apparire comprensibile la paura del papa di vedere, di fronte a una sua più netta condanna della ferocia nazista, una reazione ancora più terribile da parte di Hitler, contro i cattolici e gli ebrei sotto la sua protezione, più degno sarebbe stato per evitarla almeno un corrucciato silenzio.

Lasciata Roma, i tedeschi commisero, aiutati dai fascisti, altre stragi nel centro e nord Italia.

In base alla Banca Dati dell’Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste risulta che, tra il settembre del 1943 e il maggio del 1945, tedeschi e fascisti provocarono più di 24.000 vittime tra civili e partigiani inermi, di cui circa 2/3 per rappresaglia o durante rastrellamenti. Nel primo caso si trattò di risposte, sempre per eccesso, ad azioni partigiane; nel secondo di una precisa strategia di fare terra bruciata, anche preventiva, in quei territori che i tedeschi ritenevano assolutamente necessario mantenere liberi nei loro movimenti da e verso il fronte, provocando anche, mediante le stragi, l’effetto che le popolazioni, il cui appoggio era un sostegno necessario delle formazioni partigiane, si volgesse in ostilità verso di esse, per aver causato le atrocità tedesche e per non aver saputo difenderle.

la prima pagina dell’Unità del 30 marzo 1944

Furono atti estemporanei o segnati da una strategia militare precisa?

Diverse volte ci fu una sproporzione, a volte superiore a quella delle Fosse Ardeatine, tra le vittime degli attacchi partigiani ai tedeschi e quelle da questi provocate con i loro massacri. Ma è sbagliato valutare con lo stesso criterio ogni singola azione partigiana seguita da una rappresaglia come fosse un fatto isolato, in un vuoto di riferimenti che esalta lo squilibrio tra i colpi assestati ai tedeschi e le vittime prodotte dalle loro terribili risposte, senza pensare che ciascuna o quasi di quelle azioni fu la componente di un insieme che costituisce nel suo complesso la lotta armata della Resistenza italiana contro la Germania nazista. Una lotta armata la cui rilevanza e diffusione sono evidenziate proprio dal gran numero di stragi perpetrate dai tedeschi, non solo come risposta vendicativa, ma soprattutto come misura complementare alla “bonifica” dei territori in cui le attività delle formazioni partigiane colpivano o mettevano in pericolo continuo l’integrità e la mobilità delle loro truppe e dei relativi rifornimenti.

il sacrario delle Fosse Ardeatine

Un’ultima domanda. La premier Giorgia Meloni, pur condannando più volte le leggi razziali del 1938, finora ha sempre rifiutato di dichiararsi antifascista, dichiarando che si tratta di una polemica del passato di nessuna attualità. Secondo lei ha ragione?

Assolutamente no. In primo luogo perché non si può sbarazzare del Fascismo, la cui nostalgia ha per tanto tempo condiviso, condannando soltanto le sue leggi razziali, poiché il fardello delle sue colpe e dei suoi crimini, non si circoscrive ad esse. Per restare in tema, quella colpa si sarebbe enormemente aggravata con la collaborazione dei “volenterosi carnefici” fascisti della Repubblica Sociale alla “soluzione finale” della Germania nazista. Ma, peggio ancora, scorda l’entusiastica partecipazione del Regime Fascista alla guerra criminale di Hitler per l’assoggettamento dell’intera Europa a un “nuovo ordine” fondato su una gerarchia di razze e di popoli, al cui fondo c’erano quelli destinati alla schiavitù o allo sterminio. Inoltre sembra aver dimenticato che il Fascismo è stato la negazione di tutti i valori di libertà e di democrazia che sono quelli fondativi dell’Italia attuale così come sono chiaramente indicati nella nostra Costituzione, che si può dire scritta col sangue degli antifascisti.

Giorgia Meloni e Ignazio La Russa

Ma l’antifascismo non è un fatto del passato?

Sembrerebbe di no. Ma se pure lo fosse, la premier Meloni dovrebbe sapere che la conoscenza del passato, la conoscenza della storia, è una componente essenziale non solo per la crescita culturale, ma soprattutto per la formazione, non solo dei giovani, alla cittadinanza democratica.

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