Io sono un ebreo sionista e socialista. Ho militato all’Hashomer Hatzair, come anche i miei fratelli e mia moglie e la sua famiglia; veniamo da quella gente lì, dall’idea che l’emancipazione come meta dell’ebraismo si ha nel sionismo, in particolare quello socialista. Israele infatti è nato su principi solidaristi e cooperativi. Dietro le mie spalle c’era stata la Shoah, che spingeva noi ebrei verso una liberazione dal giogo della storia d’Europa. Nel kibbutz ho respirato uno spirito molto bello, anche se certo non erano tutte rose e fiori. Da allora mi è rimasto l’amore per Israele, anche se poi il paese è molto cambiato; mi è rimasta l’idea di un fatto straordinario: la nascita dello Stato ebraico. Io continuo a pensare con amore allo Stato di Israele.
È per questo che in copertina c’è Ben Gurion?
Sì. Ben Gurion rappresenta l’ebreo che esce dai pogrom, e costruisce nel deserto una nuova società. È l’uomo che mantiene lo spirito socialista con grandissima informalità – appunto, anche a testa in giù – ma che si occupava di cose essenziali: la vita e la sopravvivenza degli ebrei. È stato un leader diverso da tutti gli altri leader del tempo, diverso da tutto ciò che lo circondava. Per merito suo, di Golda Meir, di Moshe Dayan, Simon Peres e altri, gli ebrei sono stati capaci di invertire il corso della storia, di liberarsi di quella promessa di morte che c’era stata nei pogrom e nella Shoah.
Come si sente a essere l’unico ebreo in parlamento assieme alla senatrice Segre? Avverte più responsabilità o più solitudine?
Be’, diciamo che la percentuale non si discosta da quella dell’ebraismo italiano in proporzione alla popolazione totale. Io penso che ciò si spieghi anche con la trasformazione sociale d’ebraismo italiano. Nel parlamento liberale di fine Ottocento e inizio Novecento c’era l’ebraismo borghese, espressione di grandi personalità, che ha subito poi il decadimento economico e sociale delle comunità di appartenenza, oltre naturalmente alla persecuzione fascista.
Nel dopoguerra poi sono arrivati gli ebrei della Persia, Libia e Egitto, con un differente radicamento nella storia della società italiana. Vorrei però ricordare che Ariel Dello Strologo è candidato a sindaco della città di Genova: lo saluto con affetto e gli invio i miei migliori auguri, ricordando il grandissimo esempio di suo padre Piero.
Nel suo libro lei associa l’ebraismo a termini quali: limiti, responsabilità, ostinazione, scelta; sono criteri che applica anche in politica?
Assolutamente sì. Occuparsi della polis fa parte, credo, del messaggio che io ho ricevuto dall’ebraismo, L’ebraismo è comunitario, basti vedere le preghiere che valgono solo col minian. Abbiamo dentro di noi l’idea di dover mantenere una dimensione collettiva del vivere, sempre. Inoltre l’ebraismo trasmette l’insegnamento di mantenere la nostra identità contrastando l’assimilazione, ma lavorando per la fratellanza e rispettando le leggi del paese. Questo è il mio credo politico.
Ho scritto questo libro dopo che nel precedente avevo parlato di mio padre [Nedo Fiano, sopravvissuto alla Shoah, n.d.r.], proprio per indicare la radice antica degli insegnamenti dell’ebraismo, oltre a quelli appresi dalla Shoà e dalla nascita dello Stato d’Israele.
Quali?
Per esempio che “ebreo” è colui che ha passato il fiume Eufrate: l’ebreo è l’altro, colui che viene dall’altrove, ma anche chi percepisce e ha cura di cosa succede agli altri. Mi ha sempre colpito il passaggio della Torà in cui si parla per la prima volta di Abramo ebreo: è quando incontra un forestiero. Significa che abbiamo sempre saputo di essere una minoranza nel mondo.
Per questo penso che noi ebrei abbiamo antenne molto sviluppate per quello che riguarda gli altri, e questo in fondo è il fondamento della politica. E pensi ancora alla Torà, che insegna anche a me, ebreo laico, l’etica della responsabilità. Cosa domanda Dio a Adamo e a Caino, i primi cittadini del mondo? Dove sei? Dov’è tuo fratello? C’è già qui la necessità di farsi responsabili per sé e per gli altri. Noi siamo i custodi dei nostri fratelli e della nostra coscienza. Sempre. Ecco l’idea guida della nostra morale: non fingere di non vedere. La morale guida la mia militanza politica.
Lei ha avuto anche esperienza di leadership comunitaria: è più faticoso mediare tra ebrei o in parlamento?
È difficile da entrambe le parti. Io penso che se parliamo dell’aspetto religioso dell’ebraismo, le fondamenta sono solide, mentre in generale osservo un pericoloso indebolimento delle democrazie liberali, anche se nella politica nazionale sento comunque di avere un terreno comune con i miei colleghi: la appartenenza alla democrazia, per esempio la lotta contro l’estremismo neofascista, o neo comunista, come in passato le BR. Però anche l’ebraismo italiano ha molte difficoltà: il rapporto tra ebrei laici e il rabbinato, il calo demografico. Da ebreo laico credo che ci debba essere un dialogo tra le varie componenti dell’ebraismo, perché ci sono problemi nuovi. Basta pensare al ddl Zan, ai diritti LGBT. Mi rendo conto che ci sono questioni molte complicate, circa il rapporto tra le nostre prescrizioni e le leggi dello Stato, e che nuovi sono in confini dell’etica e della bioetica. Penso però che bisogna salvaguardare la tradizione dell’ebraismo in genere e italiano, ma permettere sempre un confronto libero senza recedere dai fondamenti. Come ha scritto David Bidussa: al centro di una pagina del Talmud non c’è il testo, ma il commento, in cui passa il pensiero libero, cioè il nostro libero arbitrio, anche di fronte ai fondamenti che ci sono stati insegnati.
Per concludere: qual è la sua posizione a testa in giù?
Quella immagine che ho messo in copertina è dedicata soprattutto all’ebraismo, perché da sempre mi interrogo sulla fede, senza essere sicuro della risposta. Credo che l’ebraismo per sopravvivere debba ospitare punti di vista anche completamente diversi, come ci insegna la tradizione talmudica. In questo, penso agli insegnamenti di rav Laras, o di intellettuali come Arturo Schwartz. Ricordo che quando facevo corsi di leadership all’ECJC [European Council of Jewish Communities, n.d.r], una volta si parlava molto di come far convivere diverse visioni nella comunità europee. Un amico di Stoccolma mi disse che là c’era una sola sinagoga per ortodossi e riformati. Risolsero la cosa dividendo la sinagoga in due parti, perché convivessero ortodossi e riformati, seppure con regole diverse. Non è un’indicazione, certo, ma è la metafora della capacità e ingegno che serve anche per risolvere i problemi. Quanto a me, direi che ho sempre lottato per rimanere me stesso, come quando ho fatto anche manifestazioni da solo avvolto nella bandiera di Israele. Vado sempre a schiena dritta, e mi sforzo di far prevalere sempre l’etica della responsabilità. La verità va detta sempre.