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Siamo una comunità viva

Riflessi prosegue il suo viaggio nel rabbinato italiano. Oggi primo incontro con Rav Avraham Dayan, rabbino capo di Livorno.

 

Lei è rabbino capo di Livorno da poco, quasi un anno e mezzo. Che Comunità ha trovato?

Ho trovato un’accoglienza molto calorosa, gente gentile, accogliente, penso perché qui a Livorno non c’è mai stato il ghetto, allora sono più aperti verso gli altri, verso chiunque, e poi perché qui ci sono ebrei dall’Egitto, da Tripoli, Bengasi, questo ha dato una visione diversa agli italiani, li ha resi appunto più aperti. Tutti mi hanno chiesto e mi chiedono sempre: “posso darti del tu?” e veramente di questo sono contento. Sempre con rispetto, vogliono far capire che il rabbino fa parte della Comunità. Sono stato qui da solo durante il lockdown perché la mia famiglia non mi poteva raggiungere, e ogni Shabbat e ogni festa ero invitato in una casa diversa; questo vuol dire da  una parte che vogliono bene al loro rabbino e dall’altra che si sentono come una famiglia. Anche quando ero da solo, la gente veniva a portare cibo per me. Mi sento veramente a casa. E’ una comunità molto forte.

In ogni casa ci sono discussioni, tra moglie e marito, e i figli, ma c’è unità ed è questo che tiene unita la famiglia. Anche qui ci sono un po’ di discussioni, ma c’è unità: c’è nel Bet Hakneset, per le elezioni, quando si facevano i kiddushim: io posso essere un ebreo che è arrivato adesso dall’Egitto e un altro è qui a Livorno da 300 anni, ma siamo sempre insieme. I “nuovi”, voglio dire quelli che sono venuti dall’Egitto e dalla Libia, hanno imparato le melodie, le parashot e questo per me vuol dire unità; tutti si adoperano per la vita comunitaria. Ci sono stati malati di Covid, ma la gente non si è limitata a fare il suo dovere con una telefonata: hanno portato cibo, sono andati a fare la spesa, a comprare le medicine. Questo è famiglia!

Vista di Livorno dall’alto

Secondo lei questo dipende dal fatto che è una Comunità molto piccola o dal carattere dei livornesi?

Tutte e due le cose. La maggioranza vive qui vicino alla Sinagoga, ma anche gli altri che vivono più lontano si sono dati da fare. A causa del Covid molti hanno perso il lavoro. Chi aveva più disponibilità si è adoperato, ha assunto correligionari – anche magari pagando di più – per fare una mitzvà. E questo penso che sia il carattere dei livornesi.

Lei è stato l’ultimo rabbino capo della Sinagoga di Alessandria d’Egitto. Livorno e Alessandria sono due città che hanno inciso molto nella vita e nella storia dell’Ebraismo. Cosa può dirci a questo proposito?

La sinagoga di Alessandria d’Egitto

Eh, ci sarebbe davvero tanto, tanto da raccontare. Sia Alessandria che Livorno hanno il porto e questo passaggio di gente nuova ha portato in tutte e due le città una grande apertura di cultura, di Torà, di mitzvà, di qualsiasi cosa, non è gente chiusa nella loro mentalità ebraica. C’era un buon rapporto con gli altri, con i cristiani, almeno fino agli anni ’50; oggi la Comunità di Alessandria è davvero molto piccola, quindici o venti persone (Pisa, che è considerata piccola, ne ha cento). Lì non avevo la possibilità di confrontarmi con le opinioni di altri rabbini, per la halachà, per divorzi, per altre questioni della vita comunitaria: la vita era quasi ferma. C’era una grande passato in tanti manoscritti e documenti, una vera ricchezza; anche qui a Livorno c’è un archivio molto ricco, anche se purtroppo negli anni, con la guerra, abbiamo perso molte cose. Lì c’era un archivio enorme, un collegamento con tutto il mondo ebraico, una comunità sefardita che aveva rapporti non solo con le comunità nei paesi arabi, come ci si potrebbe aspettare, ma anche con Italia, Francia e persino con paesi askenaziti come la Germania. Tanti ebrei all’inizio della Seconda Guerra Mondiale sono scappati in Egitto e si sono trovati bene. La maggior parte dei medici ebrei dell’Ospedale ebraico erano ebrei askenaziti. Anche durante la Prima Guerra Mondiale, tanti ebrei che vivevano in Israele sotto il governo ottomano sono dovuti scappare e sono arrivati ad Alessandria, e rav Della Pergola (di Firenze, sepolto anche a Firenze) insieme a due rabbini askenaziti ha aperto la yeshivà di Erez Israel, che contava duecento studenti. Con l’Università di Haifa stiamo scannerizzando molti documenti che ho potuto far uscire, per fare un convegno, besrat Hashem dopo i Moadim,

Venendo invece all’attualità. So che la Comunità di Livorno conta molti anziani, ci sono pochi giovani… Come è possibile tenerli vicini alla vita ebraica e quale sarà il loro futuro?

Non è vero che ci sono solo anziani, ci sono anche coppie più giovani. Quando sono arrivato c’erano solo tre o quattro bambini che venivano al Talmud Torà, quest’anno i bambini sono dodici, con tutti i problemi di Covid, di distanza, di Zoom, il prossimo anno saranno quattordici e abbiamo il potenziale di altri bambini che cerchiamo di avvicinare. Ci sono famiglie lontane, da matrimoni misti, ma i figli sono ebrei. Il vice presidente Giachetti viene da una famiglia povera e da piccolo ha potuto fare vacanze al mare in uno stabilimento di Livorno che metteva a disposizione una cabina per la Comunità. Oggi che quello stabilimento è suo, fa la stessa cosa: per luglio e agosto bambini ebrei staranno insieme ad altri bambini ebrei. Lì si vendono prodotti cascher come patatine e gelato, che in genere non sono in vendita, poi è il pranzo cascher. Così cerchiamo di avvicinarli, con un costo sostenibile da parte delle famiglie.

I ragazzi, dai quattrodici ai venti anni, sono più o meno una ventina, di più quelli fino a trentacinque anni: ho organizzato un paio di incontri,  il Covid ci ha fermato ma ora vogliamo ricominciare per dare un po’ di vita ebraica a questi ragazzi. Fuori c’è di tutto, e noi non possiamo offrire tutto, ma facciamo il possibile e l’impossibile per avvicinarli. C’è una ragazza di una trentina d’anni, stagista in uno studio dentistico, che ha scoperto di essere ebrea perché la nonna è sopravvissuta alla Shoà ma lo ha sempre nascosto, ora questa ragazza ha chiesto di essere iscritta alla Comunità e così anche altri. Cerchiamo non solo di avvicinare questigiovani, ma anche di farli iscrivere e prepararli a portare avanti questa Comunità: se non li prepariamo da oggi, tre venti, trent’anni non ci sarà più niente.

La seconda puntata sarà pubblicata domani.

Per leggere le altre tappe del viaggio: Rav Arbib, rav Della Rocca, rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto

Una risposta

  1. Da queste bellissime interviste si intravede la volontà di far rinascere e rifiorire l’ebraismo che sta affievolendosi nelle comunità italiane. Molto interessante e fortemente sentito l’entusiasmo e la forza carismatica del Rabbino Capo di Livorno Avraham Dayan che rappresenta il collegamento secolare dell’ebraismo tra Alessandria d’Egitto e Livorno.È dovere non solo delle Comunità ebraiche italiane ma addirittura di tutte le comunità ebraiche mondiali di convogliare tutti gli aiuti necessari alla Comunità Ebraica di Livorno per far rinascere anche le scuole talmudiche del passato. Non c’è un solo ebreo nel mondo che in qualche modo non sia stato collegato con Livorno sin dall’inquisizione Spagnola e Portoghese . Abbiamo tutti un dovere verso questa importante Comunità di Livorno.

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