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Usciamo dal blocco che attanaglia le speranze di pace

Luigi Manconi  è da sempre schierato per un soluzione pacifica in medio oriente. A Riflessi esamina i pregiudizi a sinistra su Israele e spiega perchè ha firmato il manifesto di “Sinistra per Israele”

Professor Manconi, cosa ci sta mostrando la guerra a Gaza tra Israele e Hamas in questi suoi primi sei mesi?

Luigi Manconi, sociologo, da sempre schierato a sinistra, è stato più volte parlamentare (Foto Roberto Monaldo / LaPresse)

Il conflitto ha evidenziato un doppio meccanismo di blocco, una sorta di rigido disciplinamento dei due campi opposti, il che in qualche misura è fatale, perché il primo effetto di ogni guerra è la semplificazione brutale, l’azzeramento delle contraddizioni, il congelamento delle differenze. Dunque, abbiamo da una parte il patriottismo di Israele, che essendo una democrazia, e nonostante sia una democrazia in guerra, consente l’espressione di dissenso, di contestazione e di critica anche radicale al proprio interno; ma comunque produce un blocco, al punto che i movimenti interni allo Stato ebraico, la mobilitazione dei familiari degli ostaggi e nemmeno l’attivismo di Gal riescono a modificare la politica militare del consiglio di guerra. Nel campo opposto, è mia profonda convinzione che Hamas sia un nemico della causa del popolo palestinese. E tuttavia, proprio il conflitto in corso determina la realizzazione di un altro blocco. In altre parole, la violenza dell’invasione da parte dell’esercito israeliano e la violenza del dispotismo di Hamas non consentono ai palestinesi di esprimere un’alternativa al governo terroristico di Hamas. Questo è ciò che vedo come il precipitato della guerra nella fase attuale.

abitanti di Gaza festeggiano l’attacco del 7 ottobre

Questo blocco mi sembra coinvolga anche l’opinione pubblica occidentale. Cosa le fanno pensare questi slogan che, soprattutto a sinistra, si sentono da parte delle giovani generazioni, per cui la Palestina deve essere libera “dal fiume al mare”? Oppure, ancora, che Israele è uno Stato coloniale in cui si pratica l’apartheid, fino a parlare correntemente di genocidio?

Come ho scritto in alcuni articoli su Repubblica, forse un po’ monotonamente e un po’ ossessivamente, la lacerazione che io avverto con più dolore riguarda l’incapacità di un numero rilevantissimo di persone e della gran parte del mio campo, la sinistra, di schierarsi incondizionatamente dalla parte delle vittime, di tutte le vittime. Ovvero l’incapacità di provare la stessa pietas per entrambe le parti. L’incapacità, cioè, di liberarsi da quel riflesso condizionato che porta a dover sempre scegliere una parte sola e una parte contro l’altra. Questo atteggiamento a mio avviso ha una radice nelle biografie di tanti che si riconoscono nella sinistra; io stesso ho conosciuto questa iniziale attitudine, poi modificata perché per mia fortuna da decenni intrattengo rapporti di amicizia, conoscenza diretta e scambi costanti con appartenenti alla comunità ebraica italiana.

continuano le proteste in Israele per la liberazione degli ostaggi

Ce ne vuole parlare?

Da cinquant’anni ho rapporti di amicizia con ebrei; nella gran parte dei casi ebrei schierati a sinistra, e ho avuto forte amicizia e familiarità con Tullia Zevi. Feci con lei delle iniziative pubbliche e manifestazioni politiche, al tempo in cui iniziavo a interessarmi di immigrazione straniera in Italia. Fui all’epoca molto colpito dalle parole del presidente delle comunità ebraiche della Germania, di cui ora non ricordo il nome. E ho in mente un importante discorso, che affermava cose limpide e definitive sull’atteggiamento che avrebbe dovuto avere l’Europa nei confronti delle migrazioni, sulla base dell’esperienza storica degli ebrei e delle persecuzioni subite. Per me fu quello un ragionamento decisivo per vedere come fosse possibile un’analisi complessiva che tenesse conto, pur nelle gigantesche differenze, di cos’è l’esperienza delle persecuzioni e delle segregazioni. Allo stesso modo, ascoltai sempre da parte delle comunità ebraiche tedesche un ragionamento importante relativamente ai rom e ai sinti: si mostrava cioè una capacità di sguardo universalista che mi colpì molto. Ebbene, Tullia Zevi con le sue parole e con i suoi atti, faceva altrettanto in Italia.

Tullia Zevi (1919-2011)

Come potrebbe definire la sua posizione oggi sul conflitto in corso?

Da allora ho sempre cercato, talvolta strenuamente e disperatamente, di esprimere solidarietà nei confronti dei palestinesi – una solidarietà intensa e persino militante – senza che ciò dovesse mai compromettere l’adesione alla tutela piena dei diritti del popolo ebraico e dello Stato di Israele. Questo tentativo, ripeto strenuo e disperato, era ed è purtroppo un atteggiamento minoritario all’interno della sinistra.

A questo proposito: vorrei fare un passo indietro e chiederle cosa pensa dei tanti giovani che manifestano unilateralmente e tenacemente contro Israele, in maniera così radicale.

in molte Università italiane si sono registrate attività ostili a Israele

Intanto va ricordato che essere giovani è un privilegio e una condanna e, per certi versi, un’aggravante. Ma è anche una condizione connotata dal mutamento delle idee e dalla crescita di capacità di riflessione e di maturazione. Io a vent’anni non ero in grado di esprimere ciò che perseguo oggi: equilibrio e maturità. Per il resto, la spiegazione in realtà è molto semplice: lo Stato d’Israele non appare a quei giovani la materializzazione statuale delle conseguenze della Shoah, non appare l’esito utile e giusto di una tragedia di quelle immani dimensioni. Appare, piuttosto, come uno Stato con tutte le caratteristiche degli Stati: quindi l’autorità che può diventare autoritarismo, la capacità di difesa e offesa, la potenziale aggressività. Appare cioè uno Stato potente che si contrappone ai campi profughi dove vivono i palestinesi.

Secondo lei c’è il rischio di un’infiltrazione del radicalismo islamico in queste nuove generazioni?

manifestazione Propal

Da quel poco che so non mi sembra che Hamas sia impegnato a cercare alleanze nel tessuto nazionale di questo o quel paese. Certo, in alcune situazioni radicali, come possono essere i centri sociali, c’è simpatia per la resistenza palestinese anche nelle sue forme più estreme; ma a parte questo, ciò che accade in questi giorni sollecita la mobilitazione a tutela dei diritti umani. Io stesso mi sono interessato di recente della sorte di un palestinese del quale era stata chiesta l’estradizione da parte di Israele e di un algerino licenziato da un istituto scolastico per aver espresso posizioni estremistiche: qui infatti siamo nel campo della tutela dei diritti fondamentali della persona, come la libertà di espressione.

La guerra a Gaza può essere letta anche in uno scenario più ampio. Secondo lei si corre il rischio che da qui a pochi mesi l’Occidente sia in buona parte governato da forze di estrema destra?

Björn Höcke, uno dei nuovi leader del partito di destra AFD

Pochi giorni fa ci sono state le elezioni in Portogallo, con un grande successo del partito di estrema destra, che si chiama “Basta!”; è cioè un partito che fonda interamente la sua identità, la sua cultura, il suo programma sul revanscismo, su quel rancore sociale che ha alimentato le estreme destre di tutti i paesi europei e non solo. Quindi sì, la possibile elezione di Trump rappresenta a mio avviso una minaccia e la rappresenta per due ragioni. Una, di dimensione geopolitica generale: il fatto che, se dovesse vincere, l’isolazionismo che connota il suo programma non comporterà meno guerre e più pace, ma probabilmente l’incremento delle guerre e simmetricamente una maggiore arroganza imperialista della Russia. L’altra è che ciò avrebbe conseguenze molto prossime a noi, a cominciare da un maggiore attivismo di tutte le destre europee: da quella tedesca a quella italiana.

Lei ha firmato il manifesto di sinistra per Israele che si basa su alcuni punti: la riaffermazione che la storia di Israele è una storia che si radica nel sionismo e che ha un legame importante con il socialismo; la necessità della ripresa del dialogo e degli accordi di Oslo e di Washington; e una ferma condanna della gestione del governo Netanyahu. Per salutarci le vorrei chiedere che prospettive ci sono perché a sinistra si possa trovare uno spazio un campo di azione per riavvicinare la sinistra a Israele.

Sinistra per Israele

Ho firmato il manifesto per ragioni elementari. Siccome il mio campo politico è la sinistra, io ritengo che la prospettiva, per quanto faticosa e impervia e proiettata in un futuro non immediato, è ancora quella che prende il nome di “due popoli, due Stati”. Questa prospettiva va perseguita rispettando l’identità dei due popoli e quindi salvando la causa palestinese da quello che sembra oggi il suo destino fatale, ovvero un futuro di campi profughi e di progressivo annientamento, e riconoscendo allo stesso tempo il pieno di diritto all’esistenza e all’autodifesa dello Stato d’Israele. Ora, questo doppio obiettivo, che viaggia sul piano politico e diplomatico, deve anche passare attraverso gli scambi, le relazioni, il riconoscimento reciproco. Per questo sostengo l’importanza di continuare a coltivare le straordinarie ancorché minoritarie esperienze di condivisione e convivenza tra ebrei e palestinesi, che si realizzano all’interno dello Stato d’Israele e ai suoi confini e in Cisgiordania. Insomma, sono convinto che occorra lavorare tenacemente affinché laddove oggi sembra esserci spazio solo per la morte, cioè per la reciproca violenza, si sviluppino iniziative di pace.

Leggi gli altri articoli sul conflitto Israele-Hamas

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