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L’etrog: la bellezza che illumina la nostra precarietà

L’etrog, il cedro, è un simbolo di Sukkot. In questo articolo Massimo Giuliani ci accompagna a conoscere alcune particolarità di questo frutto…made in Italy

Dopo aver riflettuto su rimon e shofar, soffermiamoci sull’etrog, il frutto che accompagna i riti religiosi della solennità ebraica di Sukkot, le simboliche capanne in cui si consumano i pasti, qualcuno vi dorme, si accolgono gli ospiti, specie i setti “ushpizin” (i tre Patriarchi insieme a Giuseppe, Mosè, Aronne e il re Davide).

Dopo aver costruito la sukkà, si è soliti abbellirla e decorarla con frutta di stagione: precarietà non significa aspetto sgradevole, men che meno brutto. Al contrario, la bellezza – valore minore rispetto all’integrità morale e all’osservanza halakhica – è un tratto ben presente in questa festa, dove è dovere rallegrarsi, ad esempio proprio nell’uso estetico ossia senza consumo alimentare dell’etrog.

Qualcuno può chiedere: e perché non si mangia (come la melagrana, ad esempio)? Si ragioni sul bello, proprio in senso estetico: come l’arte umana non si consuma ma viene usata solo per elevarsi spiritualmente, così anche il bello naturale, tipico dell’etrog, va usato in questo caso per elevarsi e va apprezzato senza altro scopo (come il luvav e insieme al lulav). Infatti i maestri hanno identificato il perì ‘etz hadar (Wayqrà/Lv 23,40) ossia “il frutto dell’albero bello” con l’etrog, il prodotto del cedro scientificamente noto come cidrus medica.

frutti di cedro

Pochi mesi fa ho visto il film italo-francese dal titolo “Alla vita” (nel senso di le-chayim) dove si racconta una storia di ebrei francesi ortodossi – vanno di moda nelle fiction – in missione a raccogliere cedri per Sukkot nel nostro meridione (avrebbe dovuto essere in Calabria invece la location era in Puglia)… ma non di cedri si parlava, bensì di limoni! Quale errore, che forse al pubblico non ebraico sarà pure passato inosservato.

Un rabbino da me consultato al riguardo ha però commentato che in antico non c’era bisogno di distinguere tra cedri e limoni, per il semplice fatto che i limoni non erano ancora stati introdotti nell’area mediterranea (Plinio il Vecchio parlerebbe di cedri e non di limoni, dicono le fonti, ma l’Encyclopedia Judaica è di parere opposto). Comunque sia, l’etrog inteso come cedro era già coltivato nell’antica terra di Israele proprio e solo a scopi liturgici, ossia per celebrare Sukkot, e ben si spiega la cura nella coltivazione di questo bel frutto che deve rallegrare il cuore attraverso l’occhio.

Dicevo della Calabria, perché oggi è lì che vengono coltivati i migliori etroghim usati dal mondo religioso ebraico. Come ha spiegato un esperto su Pagine Ebraiche (agosto 2022), “in Calabria si coltiva la varietà più pregiata di questo agrume: il cedro liscio, detto anche diamante per la sua bellezza e lucentezza”. Per secoli, prima della Calabria, i migliori cedri erano coltivati sull’isola di Corfù.

Come tutti gli strumenti impiegati per compiere una mitzwà, anche l’etrog è stato oggetto di ampio studio halakhico e soggetto a norme precise (innesti, forma, grandezza, colore…) come si legge nel trattato del Talmud babilonese dedicato a questa festa, il trattato Sukkà (che sarà il prossimo volume ad uscire in traduzione italiana grazie al Progetto Talmud). Alle pagine 35a-36b i maestri discutono su tutte le evenienze nelle quali può trovarsi un cedro: in quali sia kasher per l’uso liturgico e in quali no.

sukkot nel XIX secolo

Curioso che nelle diatribe talmudiche Rabbi ‘Aqiva sia spesso isolato, in quanto più rigoroso e restrittivo in questi giudizi di kashrut rispetto ai suoi colleghi. Io penso che ciò sia dovuto all’inclinazione mistica del grande maestro e martire della prima metà del II secolo e.v., un’inclinazione tesa a cogliere anzitutto il valore simbolico dell’etrog e la sua forza ‘metaforica’ ossia di collegamento con i mondi superiori, specie con quella sfera celeste che più tardi la qabbalà avrebbe chiamato tiferet: bellezza/splendore/armonia. Forse Rabbi ‘Aqivà cercava esattamente questa dimensione nella perfezione dell’etrog, un riflesso nel ‘frutto bello’ della bellezza e dello splendore del Creatore. Ciò spiega e giustifica la meticolosità e la passione con cui molti ‘chassidim del cuore’ cercano il cedro perfetto con cui pregare, senz’altro scopo che celebrare con gioia la gloria – tiferet appunto – del loro Creatore.

Anche questo è lo spirito di Sukkot. Chag sameach.

Leggi anche: Sukkot, natura e oltre

(in alto: immagine tratta dal sito del Meis)

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