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militari italiani a Cefalonia

Di fatto l’esercito sbandò da subito. I reparti, disseminati tra il territorio italiano e l’ampia area in cui stazionavano come truppe d’occupazione, tra le Alpi marittime, i Balcani, l’Egeo, ed oltre ancora, si dissolsero. Più della metà dei soldati in servizio abbandonò le armi. I tedeschi, nel mentre, applicarono le misure di ritorsione che già da tempo avevano predisposto, a partire all’«operazione Asse» che implicava non solo il controllo militare del territorio nostrano ma anche il disarmo e la cattura dei militari italiani. Circa un milione di essi fu quindi rastrellato dalle truppe naziste e, per buona parte, inviato nei Lager in Germania e Polonia nel giro di pochissimo tempo. Si trattava degli Internati militari italiani, che costituiscono una storia a sé nel più ampio quadro delle deportazioni e della Resistenza europee.

il bombardamento di Roma nel luglio del 1943 visto dall’alto

Nelle stesse ore, una piccola parte delle forse armate che, rimasta fedele al re, non intendeva deporre le armi, cercò di contrastare la reazione tedesca. Fu il caso, tra gli altri, della Divisione «Acqui», di presidio sull’isola di Cefalonia, dove venne annientata dopo avere combattuto contro gli ex alleati. Oppure di quanti, dandosi alla macchia, costituirono in quelle giornate le primissime formazioni partigiane, come la Brigata Maiella, che operò da subito in Abruzzo. Infine di quei soldati, che singolarmente o in gruppo, contrastarono l’arrivo delle truppe di Hitler con i pochi mezzi a disposizione, come presso le mura di Porta San Paolo, a Roma, laddove il 10 settembre i superstiti della divisione «Granatieri di Sardegna», i lancieri del battaglione «Genova Cavalleria», alcuni reparti della divisione «Sassari» e moltissimi civili, tantissimi, armati alla meno peggio, ingaggiarono una furiosa battaglia. Fu questo, per la sua ampiezza e per il grande numero di caduti, uno dei più importanti episodi dell’esordio della Resistenza italiana. Ne seguirono molti altri, anche grazie alla presenza di almeno un migliaio di ebrei, italiani e non.

la firma dell’armistizio

Raccontatane infine la storia (e le tante memorie), rimane il senso che da tali fatti possiamo ricavare per il nostro tempo. Risparmiandoci amenità, ritualismi, banalità e cos’altro. Al netto di polemisti, pubblicisti e storici di diversa vaglia, che in parte – solo in parte, beninteso – hanno celebrato nell’8 settembre la cosiddetta «morte della patria» (peraltro quale? Forse quella fascista? Ovvero quella monarchica, traditrice della stessa nazione, sulla quale affermava di esercitate la sua legittima sovranità?), ciò che residua, a tutt’oggi, è semmai la rinascita di una nazione vitale, tale proprio perché in grado di tirarsi in piedi da sé, nel momento stesso in cui era invece stata precipitata, da élite irresponsabili e gruppi di interesse compromessi, nell’abisso della Seconda guerra mondiale e delle politiche di occupazione.

La vicenda ebraica in Italia si inscrive in questa complessa traiettoria. Ripetiamo il concetto: nessun ritualismo di circostanza. Solo una cognizione di antica memoria, ossia che siamo tutti figli e nipoti  di quella frattura. In sé dolorosa. Ma – in tutta probabilità – necessaria. La coscienza, peraltro, non è mai acquiescenza ma fertile inquietudine. Allora come oggi.

 

 

 

 

 

 

 

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