L’8 settembre 1943 per ognuno di noi
L’8 settembre 1943 l’Italia si arrendeva agli Alleati. Invece della pace, affrontava i mesi dell’occupazione nazifascista, della persecuzione agli ebrei e delle stragi di civili, della lotta partigiana. Come segnò il paese quella lunga transizione?
Una svolta fondamentale nel corso degli eventi che portarono una parte della popolazione italiana, in tempi molto rapidi, alla scelta di lottare per la liberazione del nostro Paese dalla presenza tedesca e fascista, furono i fatti che si susseguirono e si accavallarono convulsamente l’8 settembre del 1943. L’Italia era in guerra oramai da quattro anni, essendoci entrata in alleanza con la Germania e il Giappone. Le sorti belliche si erano rivelate, fino all’estate del 1942, favorevoli alle potenze dell’Asse, il nome che tale alleanza aveva assunto. Dopo di che, l’andamento del conflitto aveva preso una molto piega diversa.
Gli angloamericani e l’Unione Sovietica avevano recuperato l’iniziativa sui diversi teatri di combattimento. L’Italia, peraltro, fin dalle sue prime mosse, nell’estate del 1940, si era rivelata incapace di fare fronte da sola ai suoi impegni di combattimento, relegandosi semmai ad un ruolo rigidamente subalterno ai tedeschi e, quindi, subendone le decisioni. Di fatto, tuttavia, tale situazione implicava comunque il condividere tutte le responsabilità operative, politiche e morali che derivavano dal rapporto di collusione con Berlino, in una guerra non solo di sopraffazione ma anche di deliberato sterminio nei confronti di una parte delle popolazioni civili dell’Europa occupata.
Il sopravvenire di una fase militare declinante aveva incentivato nel Paese quegli atteggiamenti di disincanto che si erano poi trasformati in aperta sfiducia verso il regime mussoliniano. Non solo non si vedeva una via di uscita dalla guerra, pertanto iniziando a temere un possibile rovescio politico e militare, ma i sacrifici che la popolazione civile doveva sopportare, insieme all’incertezza diffusa, ai bombardamenti delle città, ai molti giovani sotto le armi, ai morti e ai feriti nei combattimenti, stavano creando un disagio sempre meno tollerabile.
Lo sbarco delle truppe angloamericane in Sicilia, tra il 9 e il 10 luglio 1943, aveva quindi segnato l’inizio della fine per il regime fascista. Quindici giorni dopo, infatti, Mussolini veniva sbrigativamente dimesso dalla carica di «Capo del governo» e posto agli arresti dal re Vittorio Emanuele III. Il Partito nazionale fascista, a seguito di questa repentina ma non inattesa decisione, sembrò eclissarsi nel volgere di poche ore, mentre ciò che residuava del regime medesimo si scioglieva come neve al sole. Al riscontro dei fatti, vent’anni di dittatura sembravano crollare in un solo colpo, sotto la pressione degli eventi. Da quel momento l’antifascismo aveva ripreso fiato e vigore. I partiti, peraltro già ricostituitisi in clandestinità, erano quindi venuti alla luce, avviando le prime, embrionali forme di attività pubblica, sia pure con tutti i limiti che le circostanze imponevano.
Anche una parte degli italiani che erano rimasti a lungo in silenzio, senza necessariamente riconoscersi in forme più o meno organizzate di opposizione, esprimeva adesso la sua distanza dal regime che identificava pienamente con la guerra. Molti affermavano ora di volere terminare un conflitto nel quale si consideravano trascinati loro malgrado. Era una preoccupazione, quest’ultima, tenuta in grande conto dalla Casa regnante, poiché il timore fondato era che una sconfitta militare avrebbe comportato anche la fine della monarchia in Italia. Ma rimaneva la scomoda alleanza con la Germania, che la caduta del fascismo non aveva comunque fatto venire meno. I tedeschi da tempo dubitavano della lealtà della Corona.
L’arresto di Mussolini e la fine della dittatura, sostituita da un governo presieduto da Pietro Badoglio, un militare strettamente legato ai Savoia, non avevano fatto altro che confermare i loro timori. La già corposa presenza militare germanica in Italia, a fianco delle truppe italiane, si era pertanto ulteriormente irrobustita. La motivazione ufficiale – combattere contro l’invasione angloamericana – nascondeva le reali intenzioni, ossia l’occupazione della Penisola, ritenuta di rilevanza strategica, sul piano militare, per la tenuta del fianco meridionale della Germania (i cui confini, allora, arrivavano al Brennero), il controllo dei Balcani e del Mediterraneo, tanto più dopo la perdita dell’Africa settentrionale.
Durante il mese di agosto la Corona aveva preso contatti con gli angloamericani, per negoziare la cessazione delle ostilità. Peraltro, per questi ultimi non era stata una sorpresa: si attendevano gesti di acquiescenza e di compromissione. Conoscevano l’opportunismo della monarchia. Dopo alterne vicende, legate ai calcoli politici e diplomatici degli uni come degli altri, si pervenne infine alla redazione di un armistizio, che venne firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile, nei pressi di Siracusa, dove gli Alleati erano già stabilmente insediati. La sottoscrizione dell’atto, che nei fatti implicava la cessazione dell’alleanza militare con la Germania di Hitler, venne resa di pubblico dominio l’8 settembre, dopo molte reticenze da parte italiana. Il maresciallo d’Italia Badoglio, alle 18,45, lesse ai microfoni della radio italiana un proclama nel quale si annunciava testualmente che: «Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Nei fatti l’esercito italiano fu abbandonato a se stesso, senza indicazioni di sorta sul da farsi, dinanzi alla prevedibile risposta tedesca, da subito molto violenta, aggressiva e determinata a impedire qualsiasi reazione occupando i nodi strategici della Penisola. A ciò si aggiunse la fuga da Roma dei vertici militari e politici del Paese. Badoglio, Vittorio Emanuele III, suo figlio Umberto, insieme alle maggiori cariche dello Stato, dopo avere raggiunto Pescara ripararono velocemente a Brindisi, già sotto il controllo angloamericano. Lo stato di confusione generatosi tanto repentinamente fu poi aggravato dall’incomprensione, da parte dei più, del significato e delle effettive conseguenze delle clausole armistiziali. Come già era avvenuto il 25 luglio, con la caduta del regime fascista, non pochi italiani crederono che la guerra fosse finalmente terminata. Così anche una parte dei militari che pure temeva, conoscendone il potenziale aggressivo, l’atteggiamento di rivalsa tedesco.