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Israele al bivio

Con un nuovo presidente dello Stato appena eletto, Israele attende la giornata di oggi per sapere se, dopo oltre undici anni alla guida del Paese, la stagione di Netanyahu è davvero arrivata al tramonto.

Israele ha un nuovo presidente dello Stato e, al momento in cui scriviamo, una ipotesi per un nuovo governo, che deve tuttavia passare il riscontro del voto parlamentare. Il quadro politico del Paese si è messo in movimento, dopo un lungo stallo durato due anni, con ben quattro elezioni in successione ed una vacanza di premiership dovuta alla forte polarizzazione tra Benjamin Netanyahu e i suoi avversari.

Non è quindi un caso se l’esecutivo che dovrebbe ottenere oggi l’assenso della Knesset, trovi al momento il suo reale collante soprattutto nella volontà di mandare all’opposizione il leader del Likud. Il quale, peraltro, dopo venticinque anni di primazia politica, più della metà dei quali passati al governo, è ben lontano dal lasciarsi emarginare dall’agone pubblico. Alla coalizione di maggioranza, che nasce da un matrimonio di convenienza e necessità tra Yair Lapid, leader del centrista e laico Yesh Atid, e Naftali Bennett, esponente di maggiore rilievo, insieme a Ayelet Shaked, di Yamina, quest’ultimo partito della destra nazionalista, dovrebbero partecipare anche altre sei liste, tra cui quella arabo-islamista di Ra’am. Segnatamente, quest’ultima nasce da una costola dei Fratelli musulmani, anche se si qualifica esclusivamente come un soggetto di deputazione elettorale degli interessi della corposa minoranza araba nazionale. Peraltro, in Israele, dove vige un sistema elettorale proporzionale pressoché puro, la frammentazione della rappresentanza e il ricorso a complessi esecutivi di coalizione è un fatto pressoché abituale. La Knesset, da questo punto di vista, rimane il soggetto “forte” nella contrattazione politica, controbilanciando il ruolo dell’esecutivo. È in parlamento, infatti, che si decidono non pochi dei destini del Paese.

Netanyahu ha comunque gioco facile nel denunciare il carattere provvisorio di un consorzio di gruppi ed interessi al limite del bricolage, comprendendovi in esso anche la sinistra del Meretz e del Labur. Non a caso, infatti, la difficile piattaforma sulla quale poggia l’esile maggioranza (61 voti parlamentari, rispetto ai 120 scranni complessivi della Knesset), è indirizzata soprattutto su due ambiti programmatici, ossia la “ricostruzione” nella stagione del post-covid, ovvero l’insieme di misure necessarie per sostenere la transizione del Paese dinanzi all’attenuazione della pandemia, e il rilancio economico, soprattutto per ciò che riguarda il mercato del lavoro.

Se alla fine del 2019 il tasso di disoccupazione era del 4,3%, nei mesi del Coronavirus si calcola che un quarto della popolazione occupata abbia perso o abbia dovuto cambiare repentinamente la propria attività professionale. Altri dossier non meno urgenti, quanto meno dal punto di vista della comunità internazionale, a partire dai rapporti con i palestinesi, sono invece destinati a rimanere inevasi, posto che su quest’ultimo tema le posizioni dei partiti di governo sono vicendevolmente conflittuali. Se l’ultima fiammata di violenze da parte di Hamas ha contribuito a risollecitare l’attenzione collettiva su Gaza e la Cisgiordania, rompendo temporaneamente i crismi di uno status quo affermatosi da almeno il 2014, quando si esaurì la precedente crisi bellica, l’assenza di un progetto credibile rispetto al futuro dei Territori contesi, la mancanza di una mediazione autorevole da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, la crisi – pressoché irreversibile – della vecchia leadership palestinese, sono tra i fattori che congiurano contro qualsiasi iniziativa a venire. La quale, quand’anche fosse ipotizzata, per tradursi in gesti concreti richiederebbe la convergenza di molteplici consensi, elemento a tutt’oggi più che mai difettante. In Israele come a Ramallah e a Gaza.

Non di meno, una parte non secondaria dello spettro politico israeliano appoggia la politica a favore dell’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, rimandando semmai al futuro qualsiasi soluzione di quadro. In generale, l’elemento politico più significativo in Israele, vuoi per la sua costante evoluzione così come per il suo progressivo rafforzamento, è lo spostamento a destra di una parte dell’elettorato nel corso degli ultimi vent’anni. Sia nella destra nazionalista, maggiormente legata ai temi territorialisti, di cui già l’Herut prima e il Likud poi si erano fatti diretta espressione nel passato, sia verso la destra identitaria, che recupera e rielabora una serie di argomentazioni di natura populista e sovranista, in accordo con un trend che è presente un po’ in tutti i paesi a sviluppo avanzato.

(continua a pag. 2)

2 risposte

  1. Ipotesi nuovo governo in Israele :

    Una scenario molto complesso.
    Credo che così come Israele è diventata una potenza militare …si debba avere fiducia nella intelligenza politica degli israeliani ….

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