Incontro con Edith Bruck

Lo scorso gennaio, Edith Bruck ci ha parlato di sé, della Shoah, del perché scrivere. Una confessione a tutto tondo di una dei finalisti del premio Strega

Edith Bruck è una delle ultime e testimoni della Shoah. Deportata con tutta la sua famiglia da un villaggio ungherese nella primavera del 1944, è sopravvissuta ai campi di Auschwitz, Dachau e Bergen Belsen. 

Quest’anno il Giorno della memoria sarà speciale, visto che viviamo in un contesto in cui tutto il mondo è stato colpito dal Covid. Qualcuno, nelle restrizioni necessarie imposte, ha inteso vedere nel primo lockdown qualche forma di parallelismo con i mesi di reclusione forzata del 1943-44 a Rom a ad esempio, con un ardito confronto tra il passato e presente, alla luce di una nuova guerra contro questo nemico virale. Lei cosa ne pensa?

Non esiste alcun parallelismo! – esordisce con voce ferma Edith Bruck – Paragonare la pandemia ad Auschwitz è una follia. Certo, in un certo senso, il nazismo era un virus, ma quello è stato un processo politico mostruoso, che non è possibile paragonare a nulla. Quando ho visto i camion militari portare via le salme da Bergamo, ho pianto, ma non c’è alcun parallelismo possibile. Né con la guerra, né con la segregazione. C’è una tendenza ad appiattire la Shoah, ma neanche i gulag sono comparabili con i lager. La distruzione degli ebrei non è paragonabile a nessun altro episodio della storia. Più si paragona la Shoah a qualcos’altro e più si svilisce la Shoah. A volte mi chiedo se non ci sia dietro una scelta. Ci sono paesi europei, come la Polonia e l’Ungheria, che cercano di scaricare le proprie responsabilità. Non assumersi la responsabilità storica è un crimine, e infatti oggi non mancano gli antisemitismi e i razzismi. Oggi il razzismo si esprime in molte forme. Che tempi stiamo vivendo? Io credo che la causa di razzismo e antisemitismo sia il mancato insegnamento della storia ai giovani. Oggi la II guerra mondiale è praticamente non studiata. Ciò genera ignoranza. È scomodo raccontare la storia e la verità, ma va fatto. Lentamente, aumenta il rischio di dimenticare. Cosa succederà quando noi testimoni non ci saremo più? Temo che aumenterà il rischio di nuove persecuzioni. Il nostro tempo non è consolante, tra razzismi, antisemitismi, odi. E invece nessun sopravvissuto prova odio.

Sono sufficienti le leggi per tutelare i diritti fondamentali oggi in pericolo?

Sembra proprio di no. Guardate quante manifestazioni di odio e di antisemitismo oggi vengono svolte alla luce del sole. Io credo che viviamo un tempo pericoloso. Si è cominciato ad attaccare gli immigrati, e gli ebrei rischiano di essere i prossimi, perché l’antisemitismo è una costante. Si attaccano i poveri, gli immigrati, ma alla fine si arriva agli ebrei.

Nel suo primo libro, “Chi ti ama così”, racconta della sua deportazione, con la fine del mondo dell’infanzia. Scrivere le è servito per superare il trauma? Ed è servito alla comunità dei lettori?

Scrivo di Auschwitz da una vita, perché Auschwitz non passa mai, fa parte del presente, ha segnato la mia vita e la mia scrittura. Quel vissuto non potevo trattenerlo, all’inizio avevo bisogno di tirare fuori quel veleno. All’inizio ero gonfia di parole, anche se pensavo meno di 30 kg. Dovevo scrivere anche perché dovevo essere ascoltata, contro tutti qui che non volevano ascoltare. Noi deportati apparteniamo a una specie che nessuno può comprendere, nessuno potrà mai capire esattamente quello che abbiamo vissuto; anche se è dura, bisogna raccontare, credo che sia molto importante. Perché dopo di noi ci saranno solo i musei, e gli oggetti sono cosa diversa da noi, dalle persone. Ormai siamo pochissimi, e temo che nel futuro, come mi disse Primo Levi, la memoria rischia di essere dimenticata. Per questo, finché avrò un lettore e un ascoltatore, io scriverò e parlerò.

Lei scrive: “finché ci sarò, testimonierò”. Ma che senso ha oggi il Giorno della memoria? Il 27 gennaio rischia di diventare una scatola vuota?

Bisogna riconoscere che in Europa il Giorno della memoria non è ancora ben compreso. Mentre in Israele tutto il paese si ferma, in Italia, ad esempio, molti credono che basti mandare in onda un film, o chiamare un testimone a scuola, per mettersi la coscienza a posto. Il Giorno della memoria non è mai vuoto, meglio che ci sia. Però bisognerebbe calibrare meglio i nostri interventi. Voglio dire che sarebbe utile che l’opinione pubblica sia sensibile tutto l’anno al tema, e non solo il 27 gennaio. A volte questo dovere di testimoniare, se concentrato in pochi giorni, per noi rischia di essere quasi una nuova persecuzione. Io, piuttosto che le fiction, manderei in onda le immagini di repertorio, perché la fiction non riesce a ricostruire la realtà.

La forza e ostinazione della sua testimonianza è descritta nel libro “Lettera da Francoforte”, con cui spiega in che modo la burocrazia tedesca si sia opposta al riconoscimento delle sofferenze dei sopravvissuti. Secondo lei, come vanno le cose in Italia? L’Italia ha fatto i conti con il fascismo, con le delazioni, con la deportazione degli ebrei?

Nessun paese ha fatto i conti col passato, anzi oggi molti negano le proprie responsabilità. Solo la Germania ha in parte avviato un percorso di riconoscimento delle sue responsabilità, sebbene non del tutto.

(continua a pag. 2)

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Daniel Della Seta

Giornalista, conduttore Rai, docente universitario, autore e coautore di numerose pubblicazioni di saggistica e sociologia. Ha diretto Karnenu, il mensile del KKL Italia, magazine legato al mondo no profit e ai temi ambientali.

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