In Medio Oriente si aprono nuove speranze, mentre in Europa l’Italia rafforza il suo ruolo fondamentale

Piero Fassino, presidente della commissione esteri della Camera, spiega a Riflessi cosa dobbiamo aspettarci dall’amministrazione USA e dal governo Bennett in Medio oriente, e perché l’Italia è ascoltata oggi con maggiore attenzione

Onorevole Fassino, è trascorso da poche settimane il primo anno dalla firma dei cosiddetti Accordi di Abramo, siglati tra Israele e alcuni paesi arabi, con il sostegno degli Usa. È possibile fare un primo bilancio degli effetti prodotti nell’area del medio oriente?

Piero Fassino (Pd), è attualmente presidente della commissione esteri della Camera

Gli accordi di Abramo sono stati un passaggio politico importante, che ho sempre giudicato positivamente, perché danno una risposta alla domanda posta da sempre da Israele: chi garantisce che la mia sicurezza non sia in pericolo? Il fatto che alcuni paesi arabi importanti abbiamo stretto ora con Israele relazioni diplomatiche ed economiche, dà questa risposta: vuol dire che non si contesta più il diritto di Israele a esistere. A quegli accordi sono seguiti altri atti, come la decisione dell’Arabia Saudita di concedere a EL AL lo spazio aereo per il sorvolo, la ripresa dei rapporti tra Marocco e Israele, i passi in tal senso del Sudan. Naturalmente, c’è da augurarsi che altri paesi seguano lo stesso cammino, fermo restando un punto: gli accordi sono importanti per creare un clima favorevole al negoziato con i palestinesi.

Quegli accordi hanno visti protagonisti, il presidente Trump e il capo del governo israeliano, Netanyahu. Oggi che le due amministrazioni sono cambiate, possiamo provare a esprime un giudizio sui nuovi inquilini? Cominciamo dal presidente Biden: quali sono le linee su cui si sta muovendo la politica estera americana?

Mi pare che la politica estera Usa stia cambiando in molti dossier nei quali Biden sta introducendo elementi di novità: il rilancio di un sistema multilaterale; il rilancio delle relazioni con l’Ue; l’impegno forte sui diritti umani e a favore della democrazia, tutte novità rispetto a Trump. Per altri aspetti c’è invece una continuità: in Medio Oriente si conferma il forte sostegno a Israele e un impegno a una soluzione di pace che corrisponda alle aspirazioni dei due popoli. Nei giorni della crisi di Gaza, la visita di Blinken [segretario di Stato Usa, n.d.r.] è stata importante: ribadendo il pieno sostegno a Israele ha annunciato alcune scelte utili a una ripresa di dialogo, come la decisione di aprire un consolato a Gerusalemme est, per rafforzare il rapporto con ANP, e concorrere alla ricostruzione di Gaza.

l’incontro tra Bennett e Al Sisi, lo scorso settembre

Veniamo al governo Bennett. Il tema principale è quello legato al nodo della questione palestinese. Di recente il premier israeliano ha incontrato Abu Mazen, risollevando le fila del dialogo con la dirigenza palestinese. Che giudizio dà dell’azione del governo israeliano e in particolare di quella del ministro degli esteri, Lapid, verso la Cisgiordania e Gaza?

Noi sappiamo che il governo Bennett è sorretto da una maggioranza molto composita: religiosi, laici, e uno schieramento che va dalla destra alla sinistra, oltre al partito arabo. È una maggioranza che segna una svolta rispetto al Likud e a Netanyahu, e però ha vincoli all’azione di governo. È certo importante che la Knesset abbia approvato il bilancio, mettendo  in sicurezza la maggioranza e evitando nuove elezioni. Però mi pare che al centro dell’agenda del governo ci siano i temi di politica interna: la lotta al Covid, lo sviluppo economico, la riduzione dell’ingerenza dei partiti religiosi. Sul piano dei rapporti con i palestinesi, nella maggioranza di governo ci sono posizioni diverse: la sinistra e gli arabi sono a favore della formula “2 popoli 2 stati”, la destra la contesta, Lapid e Ganz sono disponibili a una soluzione negoziata, ma prudenti. Tuttavia segnalo alcuni fatti importanti: l’incontro tra Ganz e Abu Mazen, il vertice tra Bennett e Al Sisi, la visita di Lapid negli Emirati Arabi Uniti, la proposta di Lapid per la ricostruzione di Gaza, alcune dichiarazioni del Presidente Herzog d’apertura verso il dialogo. Sono passi importanti di dialogo che possono aprire la strada verso il rilancio di negoziati.

Sarà possibile avviare un serio confronto e un dialogo concreto con la dirigenza palestinese, finché Hamas regnerà a Gaza?

Yahya Sinwar, capo di Hamas a Gaza

Hamas è di fronte a un bivio. Se continua a essere un movimento estremista, radicalizzato, che cavalca la lotta armata, che contesta l’esistenza di Israele, mantenendo nello statuto 3 articoli che ne negano il diritto a esistere, allora non potrà essere un interlocutore. Se invece abbandonerà la linea violenta, e sopprimerà quegli articoli, riconoscendo il diritto di Israele a esistere in sicurezza, come fece l’Olp molti anni fa, allora potrà concorrere a una soluzione. Molti spingono, a partire dall’Egitto, in quella direzione, ma fino ad oggi non sono venuti segnali di cambiamento.

Ma secondo lei è ancora praticabile la soluzione “due popoli, due stati”?

Dopo vent’anni dagli accordi del ’93 senza che si sia giunti a soluzioni, l’interrogativo è legittimo. Temo però che mettere in discussione la soluzione due popoli/due Stati non ci dia alcuna garanzia di trovare una soluzione una più sicura. Una integrazione della Cisgiordania nello Stato di Israele non ridurrebbe i conflitti e nel tempo le dinamiche demografiche potrebbero alterare l’identità di Israele, che nasce come stato laico, ma per dare una patria al popolo ebraico, tant’è che nella bandiera ha la stella di Davide.

C’è poi il problema legato all’Iran, che viene affrontato in modo diverso dai paesi arabi, dagli Usa, dall’Europa e ovviamente da Israele. Secondo lei l’attuale presidenza iraniana è un interlocutore affidabile per l’occidente?

Ebrahim Raisi, presidente dell’Iran

L’Iran costituisce una evidente criticità e un fattore di destabilizzazione, non solo verso Israele, ma per tutta la regione. Penso che occorre agire per far uscire l’Iran dalle sue attuali posizioni. Non si tratta di avere un atteggiamento concessivo o di ignorare tal criticità. Occorre mantenere una forte pressione, anche con misure sanzionatorie, con l’obiettivo di ottenere che la loro posizione cambi, che l’Iran interrompa i programmi di arricchimento dell’uranio e torni agli accordi sottoscritti. Del resto la politica deve favorire processi evolutivi, soprattutto là dove si manifestano criticità che mettono a rischio la sicurezza di tutti. Le autorità iraniane devono decidere se continuare a essere un problema o vogliono essere parte di soluzioni. E l’atteggiamento della comunità internazionale dipenderà da come le autorità iraniane scioglieranno quel dilemma.

L’Italia certo è interessata strategicamente a tutto quel che avviene nell’area del Mediterraneo, ma non solo. Può indicarci quali sono le priorità che, a suo avviso, il nostro paese dovrebbe seguire in politica estera?

L’Italia è tra i grandi paesi dell’UE, è membro di G7, G20 e NATO, è proiettata nel Mediterraneo e nei Balcani. E sul piano economico l’Italia è proiettata sui mercati di ogni continente. Come ha detto Draghi, la politica estera dell’Italia e fondata su tre pilastri: europeismo, atlantismo, multilateralismo. Oggi poi beneficiamo dell’autorevolezza del presidente Draghi in ogni contesto internazionale, come si è visto in occasione della Presidenza italiana del G20, dove accanto ai temi economici e alla lotta al Covid, si è per la prima volta affrontato in quella sede un dossier eminentemente politico come l’Afghanistan.

Il presidente Macron, il presidente Mattarella e il premier Draghi alla firma el “Trattato del Quirinale”, lo scorso 25 novembre

Così come Draghi gode di grande di grande autorevolezza in Europa, che nei prossimi mesi sarà chiamata a fare scelte impegnative sul patto di stabilità, sul Next Generation UE, sulla revisione del regolamento di Dublino. L’Italia è posizionata in modo chiaro, e in condizione di svolgere un ruolo importante: con il Trattato del Quirinale si è varata un’intesa strategica con la Francia, cui spero segua analogo partenariato strategico con la Germania, ricostruendo così una cabina di regia europea.

Inoltre l’Italia si batte con determinazione per l’integrazione dei Balcani nell’Unione europea e operiamo per sedare le crisi che percorrono il Mediterraneo, a partire da Libia, Tunisia, Libano. Così come siamo impegnati a favorire una ripresa di dialogo tra Israele e palestinesi per una soluzione di pace e incoraggiamo tutti i Paesi arabi a intraprendere la strada aperta dagli Accordi di Abramo. Naturalmente coltiviamo relazioni con i grandi player: dagli Stati Uniti, a cui ci lega un’alleanza strategica, alla Russia, al Giappone. E anche con la Cina, dopo qualche sbandamento passato, abbiamo ora un posizionamento chiaro: non neghiamo il suo ruolo, ma vogliamo relazioni improntate su base chiara, chiedendo rispetto delle regole di mercato e rispetto dei diritti umani.

A breve dovrà essere nominato il nuovo segretario generale della Nato; alcuni osservatori hanno notato che potrebbe spettare a un paese del mediterraneo: secondo lei l’Italia ha buone chance?

l’ultimo G20, a Roma

Ci sono molte personalità internazionali per quel ruolo. Certo, le ragioni a nostro favore ci sono: da sessant’anni non c’è un Segretario italiano e da tempo non c’è un segretario che provenga dal sud Europa, oggi area strategica per l’Europa intera. E inoltre l’Italia è il primo contributore europeo dell’Alleanza. E non mancano personalità italiane in grado di ricoprire quel ruolo.

A proposito di nomine: che identikit dovrà avere per lei il prossimo presidente della Repubblica?

L’identikit di sempre: una personalità di alto profilo, di autorevolezza riconosciuta, che possa essere eletto da uno schieramento parlamentare ampio. È sempre stato così, tanto più nello scenario di oggi, in cui né il centro sinistra, né il centro destra sono autosufficienti. Serve una personalità in cui gli italiani possano riconoscersi con fiducia e sia un punto di riferimento sicuro per il Paese. E tra le possibili candidature non mancano personalità femminili.

Un’ultima domanda di politica estera: come usciamo dalla crisi con l’Egitto sul caso Regeni?

Giulio Regeni

È una soluzione molto difficile e complicata. Noi continueremo a batterci per avere verità e giustizia. È un punto per noi irrinunciabile. Allo stesso modo, si deve trovare una soluzione sul caso Zaki. L’Egitto è un grande paese, abbiamo importanti relazioni che non vogliamo interrompere o compromettere, ma non possiamo rinunciare a quello che è successo alle ragioni del diritto e della vita.

 

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