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Donna, libera, ebrea: questa sono io

Marina Piperno è da oltre 60 anni  produttrice cinematografica di fama internazionale. A Riflessi racconta di sè, della sua famiglia e dei tempi che stiamo vivendo

Marina Piperno, guardando “Diaspora”, ci si trova davanti a una storia-fiume come probabilmente vissuta da molte altre famiglie ebraiche del Novecento; eppure è difficile non rimanere affascinati dall’intreccio di storie familiari e personali che si intersecano. Vogliamo cominciare da qui?

Molte famiglie ebraiche del secolo scorso, che, come la mia, si erano sempre sentite profondamente italiane, improvvisamente, nel 1938, dovettero riflettere a come salvarsi dalla persecuzione delle leggi razziali. La fotografia che figura in copertina di “Diaspora, ogni fine è un inizio”, rappresenta me sbalordita da qualcosa che non capisco mentre tutti sorridono: le famiglie apparentate dei Piperno, i Disegni, i Fornari, i Bises e i Sonnino. Si era no riunite ad Anzio, nella villa di mio padre e di mia madre, per decidere del proprio futuro immediato. Dagli abiti si direbbe che sia settembre, forse i primi di ottobre. Non ci furono scelte comuni. Tre sorelle di mio padre, Valentina, Emma e Costanza, sposate con figli ad Arturo Fornari, Gabriele Sonnino e Arnaldo Bises, decisero di emigrare in America, a New York. Pellegrino Piperno, fratello maggiore di mio padre, decise di convertirsi al cattolicesimo con moglie e figlie.  Mio padre Simone, tentato da New York, partì per capire che attività avrebbe potuto impiantare laggiù, portando mia madre, Alessandra Disegni, me, mio fratello Roberto e Rachele, sua madre. Si rese conto però che le difficoltà economiche sarebbero state grandissime, inoltre le autorità americane non avrebbero accettato mia nonna, ormai anziana, in quanto non più produttiva. Al suo ritorno in Italia aveva già deciso che non avrebbe affidato nonna Rachele alla famiglia del fratello convertito. Restammo così a Roma, correndo tutti i rischi immaginabili e non immaginabili, durante la guerra in cui Mussolini gettò il nostro paese nel 1940, fino a quelli tremendi dei giorni che precedettero e seguirono la razzia del ghetto del 16 ottobre 1943 e le deportazioni.

Qui e sotto: due immagini del documentario “16 ottobre 1943”, che visne un nastro d’argento e ottenne nel 1961 la nomination agli Oscar

Che lavoro faceva suo padre? La persecuzione lo prese alla sprovvista?

Aveva una bottega di tessuti all’ingrosso. Dei pericoli ai quali accettò di andare incontro, riguardanti il nazismo del quale l’Italia mussoliniana era alleata, molto sapeva dagli ebrei tedeschi rifugiati in Italia dopo la presa del potere di Hitler. E sapeva anche da suo cognato Gabriele Sonnino, amico del cuore fin dalla prima guerra mondiale, alla quale avevano partecipato, fascista della prima ora e marciatore su Roma. Prima di fuggire a New York con moglie e figli, aveva saputo che il fascismo avrebbe causato la rovina degli ebrei.

Come vi salvaste dalla razzia tedesca del ghetto?

Riuscimmo a nasconderci. Qualcuno che aveva notizie di provenienza vaticana avvertì mio padre del pericolo. A salvarci furono Alberto Ragionieri e sua moglie Clelia, che abbiamo fatto riconoscere come Giusti delle Nazioni e una targa con i loro nomi è oggi allo Yad Vashem. Alberto era amministratore di alcune proprietà di Gabriele Sonnino nel frascatano ed aveva gran confidenza con mio padre, al quale mio zio Gabriele ne aveva affidato la sorveglianza e l’uso. Fu Alberto a ospitarci in casa propria, fornendoci i documenti falsi, con nomi fittizi. Il mio era Marina Pistolesi. Inizialmente eravamo in sette persone, da sfamare: tre nonni e noi quattro. Troppi in una sola e piccola casa. Alberto fece in modo che il convento delle Betlemite, che ancora esiste alle spalle del quartiere Coppedé di Roma, ospitasse due nonne, mia madre, io e mio fratellino, di tre anni più piccolo di me, in un sotterraneo che più cupo e angosciante non poteva essere. Mio padre e nonno Angelo Disegni rimasero con Alberto e Clelia Ragionieri. Ci fu chiaro, anni dopo, che Alberto faceva parte di qualche organizzazione resistenziale. Non si spiegavano altrimenti le soluzioni quasi immediate ai problemi di sicurezza che via via si presentarono. Finalmente, il 4 giugno 1944, arrivarono i camion, le autoblinde e i carrarmati americani, con tutti i sorrisi dei soldati neri che lanciavano caramelle: anche noi partecipammo alla festa della libertà ritrovata. Ma prima, che spavento! Madre Rita, una suora grande e simpatica che mi riservava attenzioni e cure speciali sapendo della mia claustrofobia durata nove mesi, quella mattina non mi chiamò Pistolesi, ma Piperno. Che significava? Avevo perso la protezione di quel nome falso? “Vai con la tua mamma in strada e guarda quello che succede”, mi disse. “Poi mi racconterai tutto per filo e per segno”. La ricordo correre via, negli svolazzi del suo copricapo nero.

La famiglia Piperno Disegni. Marina è la bambina più piccola

Tutta la sua famiglia romana si salvò dalla persecuzione?

Sette parenti stretti finirono ad Auschwitz. “Partiamo sereni”, lasciarono scritto una sorella di mia nonna materna e suo marito. E anche un cugino di mia madre, Augusto Efrati, arrestato e rinchiuso a Regina Coeli, scrisse biglietti di assoluta ingenuità, certo che nulla di male gli sarebbe successo. Transitò a Fossoli e da lì ad Auschwitz, dove sopravvisse quasi fino all’arrivo dei soldati sovietici.

Dopo l’arrivo degli americani come riprese la vostra vita?

4 giugno 1944: Roma è libera

Scoprire che la sua bella bottega era stata depredata di tutte le stoffe che conteneva fu un colpo micidiale per mio padre. Andò in prestito di materiali tessili dai colleghi che praticavano lo stesso lavoro. Anche le fabbriche, che conoscevano la sua onestà e bravura, non lesinarono aiuti. La ripresa fu forte veloce. Come accadde al suo corpo che durante la guerra aveva perduto quasi trenta chili. Già nel 1947 andavamo in vacanze sulla Marmolada. Un po’ mi vergognavo per tutta la miseria che in città si vedeva da ogni angolo di strada. Miei due complici erano Ansano Giannarelli e Francesco Degli Espinosa, aspiranti registi, svegli e litigiosi, con cui discutevo di cinema accesamente dopo le proiezioni nel cineclub più importante di quegli anni romani: il Circolo Chaplin. Fu una intensa e divertente formazione.

È così che cominciò la sua carriera di produttrice?

Prima ci fu il mio viaggio a New York. Nel 1955, quando avevo vent’anni…

Me ne parla?

Qui e sotto: New York agli inizi degli anni ’50

Cominciamo dal mio rodaggio giornalistico nelle periferie miserabili di Roma, dove in una notte si costruiva una casupola abusiva finendo rapidamente il tetto per evitare la sua demolizione. La povertà italiana del dopo guerra e le imponenti migrazioni dal sud al nord che stavano avvenendo non erano più lo spettacolo cinematografico dei film neorealisti ma realtà brutale, energia della sopravvivenza e abiezione. Enorme impressione me la fece “Europa 51” di Roberto Rossellini, con quella spaesata ma commossa Ingrid Bergman come signora borghese che tocca con mano il dolore degli altri. Giravo per Roma in tram, mangiando panini, mescolandomi alla gente. Mio padre e mia madre, preoccupatissimi, mi studiavano la sera, quando rifiutavo i pasti abbondanti della nostra tavola. Mio padre mi sorrideva appena, silenzioso, cercando la mia complicità con i suoi occhi celesti, fissi e calmi, che esprimevano comprensione. Scrivevo per un giornale di sinistra e gente della comunità ebraica gli aveva chiesto che ci facessi con “quei comunisti”. Del resto frequentavo poco l’ambiente ebraico e rifuggivo dall’idea di dover sposare un correligionario, fare figli e vivere come l’angelo del focolare. Avevo sempre fatto scelte indipendenti e non intendevo essere l’oggetto di combinazioni altrui. Intanto avevo maturato un forte legame affettivo con Ansano Giannarelli. Non ebreo, naturalmente. Ragazzo intemperante, emotivo e razionale al tempo stesso, diventato la mia sponda quotidiana. L’ipotesi di una relazione che poteva sfociare in un matrimonio inquietò soprattutto mia madre. Fu da lì che nacque l’idea di favorire il mio viaggio a New York, visitando le sorelle di mio padre e le loro famiglie. New York liberò le mie energie creative. Un universo che si spalancava per me ogni giorno. Le serate di musica ad Harlem, dove mi accompagnava un critico cinematografico di origini scozzesi, corrispondente di riviste e giornali italiani, George Fenin, mi spinse a frequentare un corso di regia televisiva alla Columbia University progettando una permanenza più lunga del previsto. Anche se con molte incertezze e nostalgie…

Cosa decise?

Ansano Giannarelli

Tornai a Roma. Italiana ed europea come mi sentivo trovavo insopportabile i concetti di denaro e competitività aggressiva sui quali l’America si reggeva. E poi il razzismo e l’antisemitismo che si toccavano con mano. A quei tempi, ma adesso le cose non sembrano migliorate, c’erano più di sessanta associazioni antisemite e numerosi club in cui gli ebrei non erano ammessi. Come i neri nei locali e nei bagni pubblici. Esclusione e segregazione minarono il mio amore per l’America. Anche se New York mi ha svegliata dal torpore in cui ero cresciuta ed è piantata nel mio cuore irrimediabilmente…Ma tornai in Italia perché Ansano Giannarelli, con una lettera dubbiosa, troppo, mi comunicava che il suo amore svaniva. Come si permetteva! Ci sposammo nel 1959. Lui diventò il regista del primo film documentario che produssi. Avevo venticinque anni. Si trattò di “16 ottobre 1943”, ispirato al testo di Giacomo Debenedetti, con il quale lacerammo il silenzio che aveva coperto l’ignominia della shoah, anche in ambito ebraico. Coinvolto Debenedetti e con soldi in prestito, che resi con i premi guadagnati dal film, inventai quello che divenne il cinema indipendente italiano. Marcello Gatti, grande direttore di fotografia, re del b/n, vinse il Nastro d’argento e nel 1961 il film ottenne la nomination all’Oscar per il documentario.

rav Elio Toaff (1915-2015)

Elio Toaff, con cui ebbi un lungo colloquio preliminare, si dichiarò totalmente d’accordo sulla necessità di fare chiarezza sull’abominio patito. Ci disse che il pensiero doveva fluire nuovamente sulle cause, illuminandole anche a costo del dolore che avrebbe suscitato. La comunità ebraica romana si fece coinvolgere e il film ottenne un successo vivissimo. Ancora oggi, dopo più di sessant’anni, le sue proiezioni scuotono il pubblico, quasi ammutolito alla fine da quel bambino smagrito e dagli occhi disperati con cui ci guarda…

Mi spiega cosa fa di preciso un produttore cinematografico?

È un lavoro durante il quale bisognava buttare il cuore oltre gli ostacoli, soprattutto perché non ho mai smesso di occuparmi di esperienze ebraiche, come “Il pane della memoria”, sulla comunità ebraica di Pitigliano, raccontata da Elena Servi, ultima rappresentante di una vicenda plurisecolare di coesistenza felice tra cristiani ed ebrei. Sono stata ad Auschwitz, da sola, con il mio compagno Luigi Faccini, dove non avevo mai voluto andare per paura che l’orrore mi devastasse, e diventò un capitolo fondamentale del film “Storia di una donna amata e di un assassino gentile” e sono andata in giro per il mondo, dagli Stati Uniti a Israele, in cerca dei miei parenti dispersi dalle leggi razziali, realizzando un film di quattro ore, sempre con Luigi, che si intitola “Diaspora, ogni fine è un inizio” …

Lei, ebrea laica, come declina la sua identità?

La mia identità, umana ed etica, è radicata su alcuni principi basilari dell’ebraismo: apertura mentale, relazione viva con gli altri, tutti, la giustizia sociale. Tenga conto che la mia famiglia, come molte altre uscite dal ghetto e assimilate per gratitudine profonda con la casa Savoia che ci aveva emancipati, era caratterizzata da un ebraismo “debole”. Nessuno di noi conosceva la lingua ebraica. Le preghiere, nel tempio, per noi erano incomprensibili e delle ritualità conoscevamo vagamente origini e senso. Le donne, nel matroneo, separate dagli uomini, mi sembrarono sempre una condizione inaccettabile. Oggi, nel mondo ebraico riformato, soprattutto americano, quella situazione è stata abolita. La mia identità ebraica nasce dal rifiuto della persecuzione razziale, quando, ancora bambina, ho rifiutato di non aver paura della paura. E la pratica del cinema, come arma espressiva, è stata la mia salvezza. Grande aiuto mi è venuto dall’aver studiato inglese e russo fino a diventare traduttrice istantanea e tantissimo dalla lettura dei libri scritti dagli scrittori americani di origine ebraica provenienti dai paesi dell’est. Da Singer ad Henry Roth. “Chiamalo sonno” mi fulminò. Anche gli israeliani dell’est, Amos Oz e Abraham Yehoshua, sono tappe dei miei approfondimenti. “Il signor Mani” e “Viaggio alla fine del millennio” sono pietre miliari del mio viaggio nel tempo ebraico.

A proposito di identità: che impressione le fa il governo in carica? La Meloni ha più volte affermato che le leggi razziali furono una ignominia.

La premier Giorgia Meloni in visita alla Comunità ebraica di Roma, lo scorso 19 dicembre 2022.

E le pare che basti? Troppo facile! Non è sufficiente quell’affermazione ad effetto. Fini, quando andò in Israele e allo Yad Vashem disse che il fascismo era il male assoluto, non era infinitamente più avanti di lei? Eppure ci sono ebrei, purtroppo tanti, che si accontentano di quella affermazione direi facile e perfino offensiva, pensando a tutto quello che successe con la razzia del ghetto il 16 ottobre 1943, la deportazione e lo sterminio ad Auschwitz della nostra gente. Già allora a dirigere la comunità ebraica di Roma c’erano ebrei compromessi con il fascismo, che non nascosero gli elenchi degli iscritti e rassicurarono la gente di ghetto nei confronti dei tedeschi nei quali riponevano fiducia. Ma il fascismo non fu solo quello. La sua violenza sistematica dal 1921 e la presa del potere nel 1922, passando per l’omicidio di Matteotti, l’istituzione del tribunale speciale, carcerazioni e confino degli oppositori politici, i gas asfissianti usati contro gli abissini, l’uccisione dei fratelli Rosselli per mano di fascisti francesi, la repubblica spagnola aggredita insieme alla Germania nazista e l’entrata in guerra nel 1940 fino al capitolo tragico di Salò, non sono tappe sufficienti ma taciute sistematicamente, per giudicare definitivamente la storia vergognosa del fascismo? La Costituzione italiana non fu elaborata sulla base dei valori della Resistenza? Quand’è che anche noi ebrei faremo i conti con quello che è successo non solo a noi ma anche ad una infinità di cittadini di questo Paese?

La prima pagina dell’Avanti sull’assassinio di Giacomo Matteotti

La sento parlare da un po’ e mi dico che lei è un esempio evidente dell’ebraismo liberal assai diffuso in America.  Eppure è tornata in Italia. Non è stata una scelta contraddittoria?

Avevo vent’anni e i miei parenti, in casa dei quali ci si riuniva, magari attorno ad un quartetto per archi che suonavano Schumann o Bela Bartok, non mi rassicuravano contro il razzismo e la violenza che circondava la vita quotidiana di New York. E peggio altrove, negli stati del sud e in quelli agricoli del centro, che il cinema americano racconta dall’invenzione di Hollywood. Diciamo che non ho avuto il coraggio di fare quello che i cineasti americani di origine ebraica hanno saputo fare. Sa quale è il mio regista preferito, ebreo naturalmente? Sydney Pollack. Ha visto “Come eravamo”? Un film dal quale non mi separerò mai!

Si è mai pentita di essere tornata?

Marina Piperno e Luigi Faccini

Assolutamente no! Sono italiana e amo Roma, città dove siamo dai tempi di Cesare. Sa che nel 1989 la grande mostra di New York “Gardens & Ghettos”, sui duemila anni di storia e cultura ebraica in Italia, venne aperta con la proiezione del film “Donna d’ombra” che avevo prodotto, con la regia di Luigi Faccini?

Leggi anche:

donne nel mondo ebraico italiano

Per saperne di più sulla produzione di Marina Piperno:

guarda il sito

4 risposte

  1. Bellissima intervista ,mi ha riportato ai racconti di mia madre Elvira Piperno .
    Anzio ,i nomi citati ,facevano parte della sua vita , l’incredulità della sua famiglia verso la futura venuta delle leggi razziali.
    Lei fu l’unica superstite ,tutta la sua famiglia di origine non tornò più da Auschwitz,16 perone .
    Quel ramo di Piperno non ebbe più chi portasse avanti quel cognome .

  2. Che vergogna, quanta ingiustizia e quanto dolore ,e nonostante tutto dobbiamo ancora sentire chi dice che non è stato così come ce lo raccontano o peggio che ormai sono cose vecchie passate che non esistono più; MAGARI FOSSE VERO!! MI SEMBRA DI NO INVECE. CHE INGIUSTIZIA ! Io credo nelle persone, non esistono le razze,le patrie,le religioni, esistono solo persone che devono scegliere in cosa credere . Mio nonno nato nel 1895,diceva: la patria è il mondo; e l’altro nonno del 1899 diceva che nella vita non devi fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te. E quindi dj cosa stiamo parlando!!! Grazie a Marina e Luigi

  3. A tutti quelli che mi hanno scritto
    Cari amici questo indiavolato congegno mi ha nascosto molti commenti da voi fatti
    Per cui cercherò di recuperare i nomi e rispondervi con grande piacere.
    Mi dispiace ,ma oltre un certo limite non posso combattere con facebook grazie a tutti

  4. Bella intervista,bisognerebbe dare la parola molto più spesso a chi ha vissuto in prima persona fatti e fattacci di quel bruttissimo periodo,a chi ha ancora il coraggio e la lucidità per parlarne in modo schietto e diretto…e con probabile dispiacere si trova ancora a fare i conti con una certa ottusità dei suoi conterranei,quelli che osannano l’attuale governo parente stretto del partito fascista dell’epoca. Invitate la Sig.ra Piperno ed il marito Luigi Faccini nelle università o fate conoscere il loro lungo e paziente lavoro.

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