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2009, Rav Gianfranco e suo figlio Rav Jakov Di Segni davanti casa Leibowitz

Qualcuno mi consigliò di rivolgermi a rav Roberto (Reuven) Bonfil, arrivato in Israele da qualche anno che stava facendo il Dottorato in Storia ebraica all’Università di Gerusalemme (per inciso, in Italia – oltre alla laurea rabbinica conseguita nel 1959 – rav Bonfil si era laureato in fisica). Andai da lui nel suo studio nel campus, una stanza stretta e un po’ buia piena di libri, e gli esposi il problema. Rav Bonfil fu molto gentile, si informò di me, e mi disse che potevo tranquillamente adeguarmi al permesso del rabbinato d’Israele e mangiare nelle caffetterie dell’Università. Non mi ricordo se concluse il colloquio con la frase che si dice alla fine di Kippur, tratta dal Qohelet: “Va’ e mangia con gioia il tuo pane e bevi con cuore lieto il tuo vino”, ma il senso comunque era quello e mi invitò ad andarlo a trovare. Fui rincuorato dalle sue parole e ho avuto modo di ricordargli questo episodio non tanto tempo fa quando ci siamo incontrati in qualche convegno.

A proposito dell’anno sabbatico, c’è un’altra questione collegata con la vendita della terra. Nell’anno sabatico la Torà prescrive la remissione dei debiti, per cui chi ha fatto un prestito non ne può chiedere la restituzione. Lo scopo è che la restituzione di un debito non incomba sui bisognosi per tutta la vita. Però, l’effetto collaterale era che all’avvicinarsi dell’anno sabbatico la gente non concedeva più prestiti. Per questo, Hillel (il famoso Maestro, collega di Shammai, vissuto un po’ più di 2000 anni fa), introdusse il cosiddetto prozbul, una procedura legale per cui i crediti che uno deve riscuotere vengono consegnati al Bet Din. È quindi il Tribunale che si farà carico della riscossione, non il singolo cittadino. In questo modo si evita la personalizzazione del rapporto creditore-debitore. Il prozbul è un documento che si firma davanti al Bet Din prima della fine dell’anno sabbatico. È una procedura tuttora seguita, anche nella Golà, e chi è interessato si rivolge al Bet Din della propria Comunità prima di Rosh haShana. In quel lontano 1973, mi recai al Bet Din vicino a dove abitavo, che era il Bet Din della Edà Charedìt a Meà Shearim. Mi ricordo che mi ritrovai al cospetto di tre rabbini dalla lunga barba bianca, vestiti con eleganti caffettani e gran cappelli neri, contorniati da alte pile di carte. Mi sembrava di stare nel “Processo” di Kafka. Al momento di riempire il modulo con le generalità ci fu qualche esitazione da parte del cancelliere mentre scriveva il mio nome e quello di Enzo Neppi (per il quale fungevo da shaliach), nomi non proprio facili da rendere in lettere ebraiche.

Prozbul

A proposito del nome, in quell’occasione diedi quello ebraico, David, ma generalmente all’Università usavo quello italiano, Gianfranco. Anni dopo, in un corso del Master con pochi allievi, in cui si interagiva tutti insieme, il docente – anche lui in difficoltà non solo a scrivere ma anche a pronunciare il mio nome proprio – vedendomi con la kippà mi chiese: “Ma non hai un nome ebraico?” E io: “Sì, certo, è David”. “E allora fatti chiamare David!”. E così, almeno in quel corso, divenni David. Oggi non ci avrei pensato su due volte: sarei stato David fin dall’inizio. Il problema era che il mio documento ufficiale italiano, il passaporto, sulla base del quale mi era stata rilasciata la carta d’identità israeliana, riportava solo “Gianfranco”. E il nome comunicato all’Università era quello della carta d’identità, quindi nei record universitari quello era il mio nome.

Quando iniziarono i corsi all’università?

Mi aspettavo la domanda. Normalmente i corsi iniziano subito dopo le feste. Per Rosh haShana di quell’anno, 1973, andammo 4 o 5 del gruppo degli italiani a Rishon leTzion, vicino Tel Aviv, ospiti di rav Aldo Luzzatto z.l. e sua moglie Giovanna Ajò z.l. Rav Luzzatto, prima di fare la aliyà nel 1970, era stato per una dozzina d’anni rabbino capo di Genova, per cui Michi Racah, anche lui di Genova, lo conosceva bene. Il Rav organizzò la tefillà a casa sua secondo il minhag italiano e io ebbi il merito di leggere il Sefer Torà. Ho un bellissimo ricordo di quel Capodanno, tanto è vero che replicammo l’esperienza a Pesach, dove ci saranno state una ventina di persone al Seder e anche in quel caso facemmo tefillà a casa del Rav. È dai Luzzatto che mangiai per la prima volta la “concia”, grazie a Giovanna che era romana (mia madre z.l. era fiorentina – la concia non era di casa da noi).

A Kippur andai al Tempio italiano di Gerusalemme a rechov Hillel. Lì per la prima volta conobbi le melodie delle preghiere di Kippur. A Roma, nel Tempio grande dove mio padre z.l. aveva il posto, era impossibile sentire alcunché nelle grandi feste, a causa della ressa e del mormorio, oltre che per l’acustica infelice. A Gerusalemme, in un tempio molto più piccolo e con gente che non chiacchierava, sentivo tutto: il ritornello del bel piyùt di Kippur, ‘ad lo makhòn kissakhà nakhòn, l’ho imparato lì, e così tanti altri. Fra i frequentatori abituali del tempio c’erano David Cassuto, Eliyahu Ben Zimra, Baruch Sermoneta z.l. con i cinque figli.

Tempio italiano di Gerusalemme, esterno

C’erano anche non italiani, simpatizzanti del luogo e del minhag. A metà giornata di Kippur, verso le 14, si sentirono delle sirene di allarme. Non capii bene cosa stesse succedendo. Qualcuno disse che c’era stato un attacco degli egiziani sul canale di Suez. Le sirene, ci dissero poi, servivano soprattutto affinché la gente accendesse la radio e sentisse gli annunci di richiamo dei riservisti, all’epoca il sistema di allerta più rapido ed efficace. Non c’è da preoccuparsi, dicevano, vedrete che nel giro di poche ore la cosa si risolve. Intanto però il tempio si svuotava, almeno di quelli in età di servizio militare, di leva o della riserva. Bene o male concludemmo le preghiere e il digiuno. Ma non si risolse in poche ore, ci vollero tre settimane per arrivare al cessate il fuoco, con molti più caduti e feriti che nella Guerra dei Sei giorni. Di iniziare l’università non se ne parlava e nessuno se la sentiva. Non solo perché quasi tutti gli allievi erano al fronte o comunque impegnati nella difesa del Paese, lo erano anche buona parte dei docenti.

Tempio italiano, interno

Durante le settimane del conflitto come si svolgevano le tue giornate?

Quando si capì, già dalla fine di Kippur, la gravità della situazione, tutta la popolazione si attivò. Pure noi studenti stranieri cercavamo di contribuire in qualche modo. A Reznik, la Casa dello studente, facevamo i turni di guardia di notte, a coppie. Uno teneva il fucile (scarico), l’altro la torcia (io tenevo la torcia). Si cercava comunque di tenere su il morale. Per Sukkot costruimmo una sukkà su una struttura già esistente. Il problema era che la struttura era molto grande, ma le frasche per il tetto erano poche. Dall’alto della mia lunga esperienza romana nel fare la sukkà sul terrazzino di casa mia, con canne prese in riva al Tevere, obiettai alla madrikhà che il tetto della sukkà era un po’ sguarnito e perciò non kasher. Mi rispose che era tempo di guerra, era difficile approvvigionarsi di frasche e ci dovevamo accontentare di quello che c’era. Ci accontentammo. Anche dopo il cessate il fuoco, passarono diversi mesi prima che i corsi universitari partissero.

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