Uscire da una guerra lunga e dolorosa
Con Giorgio Gomel affrontiamo gli scenari possibili dopo 9 mesi di guerra a Gaza
Giorgio, la guerra dichiarata da Hamas il 7 ottobre e proseguita da Israele a Gaza ha superato i suoi 9 mesi. Qual è il tuo giudizio su questo conflitto?
Questa guerra è lunga e dolorosa come mai era accaduto prima nella storia di Israele: la sua durata ha superato ormai anche quella della guerra di indipendenza tra la metà del 1948 e l’armistizio del 1949, sebbene occorra anche ricordare che l’occupazione del Libano iniziata nel 1982 si prolungò fino al 2000. A Gaza assistiamo da mesi a uno stillicidio quotidiano e dolente di morti, da entrambi i fronti, con conseguenze devastanti sul piano umanitario. Mi chiedi un giudizio, ma naturalmente è difficile giudicare in modo categorico dall’esterno i fatti. Detto questo, a me sembra che al momento non ci siano né vincitori né vinti. Hamas, mossa dall’illusione militarista di sconfiggere di Israele attraverso un atto di barbarie come quello del 7 ottobre, virulento e inatteso, non è riuscita nel suo intento. Al tempo stesso, tuttavia, va detto che alcuni effetti, non sappiamo quanto voluti, siano stati realizzati.
A cosa ti riferisci?
Innanzitutto è stato bloccato quel processo di normalizzazione con i paesi arabi che era stato avviato con i patti di Abramo e che a breve avrebbe visto anche l’adesione cruciale dell’Arabia Saudita. Inoltre si è intaccato il potere di deterrenza di Israele nei confronti dei propri nemici, cosicché oggi si può pensare a Israele come una potenza che può essere vinta. In un certo senso, il trauma del 7 ottobre ha messo in forse due elementi chiave della storia e della coscienza di sé del paese: la fiducia nella forza delle armi e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica del mondo. Ambedue ora gravemente compromesse. Così come l’assioma che la forza di deterrenza di Israele da un lato e la prudenza strategica dell’Iran avrebbero evitato un’estensione del conflitto al Nord di Israele con le milizie Hezbollah in Libano e quelle sciite legate all’Iran in Siria, Iraq e Yemen. Infine, si è determinato un fenomeno sociale, diffuso soprattutto in Occidente, attraverso il quale Hamas ha catalizzato il consenso dell’opinione pubblica contro Israele. È un dato di fatto che la questione palestinese si è di nuovo prepotentemente imposta all’opinione pubblica internazionale.
E per quel che riguarda Israele?
Nelle ultime settimane il vertice dell’esercito israeliano ha espresso dubbi circa la possibilità di realizzare i risultati che il governo di Netanyahu aveva proclamato fin dall’inizio. Guardando con oggettività i fatti, dobbiamo riconoscere che siamo passati dall’obiettivo conclamato di distruggere l’apparato militare di Hamas, rimuoverne il potere politico ed espellerlo da Gaza, nonché ottenere la liberazione degli ostaggi, a una guerra lunga che finora ha fallito entrambi gli obiettivi. Per quel che riguarda gli ostaggi, dei 120 ancora detenuti a Gaza, fonti americane ipotizzano che soltanto 50 o poco più siano ancora in vita.
Come giudichi la reazione della società e della politica occidentale rispetto alla guerra di Gaza?
La risposta è complessa. Non è facile infatti definire in modo netto cosa sia successo all’interno dell’opinione pubblica internazionale, non solo da noi in Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti, nel mondo delle università – un piccolo ricordo personale mi riporta al periodo trascorso con i miei studi ormai cinquant’anni fa proprio alla Columbia University. È un dato di fatto che in alcune situazioni il clima, i modi della protesta sono stomachevoli. In casi estremi si è celebrato il massacro di Hamas del 7 ottobre. L’ideologia che domina queste manifestazioni è apertamente avversa a Israele, come dimostrano i due slogan più diffusi: “free Palestine” o quello della “Palestina libera dal fiume al mare”. Si tratta di slogan che mostrano, nella migliore delle ipotesi, un’enorme ignoranza circa le origini e lo sviluppo di un conflitto che attanaglia due popoli da oltre un secolo su quel minuscolo lembo di terra. Entrambi, ebrei e palestinesi, con un analogo diritto all’autodeterminazione, diritto che questi slogan negano per il popolo ebraico e per lo stato di Israele la cui esistenza è espressione di quel diritto. Uno stato, è bene sempre ricordare, che nasce attraverso un riconoscimento internazionale della società delle Nazioni con il piano di spartizione del 1947. Ma non c’è solo questo: io vedo in queste proteste anche dell’altro.
Cosa?
Come evidenziato da molti analisti, tra i giovani che manifestano contro Israele c’è anche una componente di forte anti occidentalismo. Israele è identificato con l’occidente, altro esempio di banalizzazione e ignoranza. Trovo fastidiosa questa equiparazione fra Israele e l’occidente, un’equiparazione strumentalizzata ad arte dalla destra, sia negli Stati Uniti che qui in Europa. Israele non può essere identificato con l’occidente, non lo è né dal punto di vista della sua identità socio-culturale, né dal punto di vista della sua composizione demografica. Israele è occidente e oriente insieme. Se vogliamo immaginare un futuro di normalità e di pace per Israele e i suoi vicini arabi, è attraverso la sua integrazione nella regione che ciò può avverarsi; certamente non con un Israele concepito come un avamposto occidentale, un che di artificiale e di estraneo al mondo circostante. Al contrario, questi giovani che manifestano contro Israele in realtà mostrano di voler protestare contro l’occidente. In tal modo Israele diventa per loro una specie di capro espiatorio, descritto come un qualcosa di “metastorico”, senza tener conto dei connotati specifici del paese e della sua realtà storica.
In queste manifestazioni emergono frequentemente espressioni e atti di antisemitismo. A tuo avviso siamo di fronte a un fenomeno ciclico o stavolta c’è qualcosa di nuovo?
Certo la situazione che viviamo non ci può indurre all’ottimismo. Detto questo, mi pare che nella storia successiva al 1945 ricorrano nel tempo ondate periodiche di antisemitismo. Il fenomeno ha raggiunto oggi dimensioni territorialmente molto diffuse e quello che inquieta è anche il dato anagrafico e sociologico, il fatto cioè che si alimenti nelle nuove generazioni, soprattutto in ambienti intellettuali, tra studenti che saranno la classe dirigente del domani. Per il resto, registro anche il fatto che questi slogan prendono di mira nella loro retorica il sionismo, ma in realtà puntano a contestare sia Israele che gli ebrei. Se non vogliamo cadere preda del pessimismo, va però anche precisato che circa quarant’anni fa, durante un’altra ondata di antisemitismo che attraversò l’Europa, esso fu accompagnato anche da fatti di sangue, da attentati terroristici di matrice palestinese che colpirono a Parigi, Vienna, e anche Roma. Oggi, benché il clima sia molto pesante, mi auguro che siamo lontani da una situazione così estrema.
Come giudichi la posizione dell’ebraismo italiano sul conflitto?
Come sai da anni sono impegnato in organizzazioni che si battono per il riconoscimento di due stati per due popoli. Ho cominciato a farlo nel gruppo Martin Buber e oggi faccio parte di JCall, un’associazione di ebrei europei fondata nel 2010 con sezioni in Italia, Francia, Belgio, Svizzera, Spagna e Germania. Io credo che in generale sia fondamentale mantenere nell’ebraismo una pluralità di opinioni, anche rispetto a Israele e ai suoi comportamenti. Naturalmente, come ebreo della diaspora devo considerare il fatto che non vivendo in Israele devo esprimere i miei giudizi con la compostezza e l’equilibrio necessari nel momento in cui valuto l’operato dei governi israeliani. Detto questo, Io credo che l’ebraismo italiano debba avere presente due punti: il primo è il diritto irrinunciabile dello stato ebraico a esistere e difendersi; il secondo è la legittimità di opinioni diverse sull’operato dei suoi governi. In passato a lungo si è osteggiato all’interno del mondo ebraico chi sosteneva il diritto dei palestinesi ad uno stato e l’urgenza di un negoziato che portasse al riconoscimento reciproco dei rispettivi diritti. Ciò precisato, per quel che riguarda gli avvenimenti successivi al 7 ottobre mi sembra che l’ebraismo della diaspora abbia giustamente manifestato una forte solidarietà verso Israele, la sua gente, le vittime del massacro, gli ostaggi nelle mani di Hamas, il dramma dei tanti sfollati a nord e a sud del paese. Detto questo, Io credo che sia anche legittimo esprimere una critica complessiva sulle decisioni del governo di Netanyahu.
Qual è la tua posizione a riguardo?
Come ho detto prima, sono convinto che debba essere riconosciuto ad Israele il diritto-dovere all’autodifesa. Il problema è come tradurre tale diritto in una soluzione che faccia uscire il paese dalla guerra e dopo che la reazione militare di Israele ha prodotto un numero elevatissimo di vittime civili e una sproporzione fra tale numero e gli obiettivi militari raggiunti. Io credo che sia un errore accomunare gli abitanti di Gaza in modo indistinto a complici e fiancheggiatori di Hamas, come se i palestinesi di Gaza fossero nella loro totalità un unico nemico irriducibile contro cui è doveroso combattere. Anzi sarebbe interesse vitale di Israele cercare di dissociare gli abitanti di Gaza da Hamas, dal suo regime dispotico e omicida. Tra l’altro, registro il fatto che alcune dichiarazioni oltranziste di ministri israeliani hanno prestato il fianco alle accuse mosse a Israele presso la Corte internazionale di giustizia per genocidio.
A tuo avviso qual è la via d’uscita da questo conflitto dopo oltre 9 mesi?
Io penso che occorra ripartire dal progetto elaborato dell’amministrazione americana e infine approvato dal consiglio di sicurezza dell’ONU. Certo, di tale piano non possiamo conoscere i dettagli, oggetto di un difficile negoziato tra le parti, ma mi sembra comunque un piano molto ragionevole. Come sappiamo, esso passa attraverso tre momenti: il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e il ritiro di Israele dalla striscia. A seguire verrà la fase più complessa, quella relativa al governo di Gaza dopo la fine della guerra e all’immane opera di ricostruzione della stessa. E’ possibile costituire una forza militare di interposizione di paesi arabi, magari con il sostegno anche di altri paesi e sotto l’egida dell’ONU, che agevoli la nascita di un governo civile sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese. Credo invece che sia errata la soluzione, pure da alcuni avanzata, di immaginare una separazione della Cisgiordania da Gaza e la istituzione di due mini Stati. Credo che la comunità internazionale debba lavorare perché, fermo restando il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele, possa nascere un unico Stato palestinese in rapporto di vicinanza pacifica con esso.
Ritieni che oggi Israele sia più in pericolo rispetto al passato?
E un interrogativo che pone un dilemma che mi coinvolge personalmente. Ho iniziato a occuparmi del conflitto poco dopo la guerra del 1967. Nel 1970 andai a vivere per un certo periodo nel kibbutz di Manara, proprio al confine Il Libano, uno di quei kibbutzim oggi quasi abbandonato perché sotto i colpi sciagurati di Hezbollah. A quel tempo avevo vent’anni e il confine era segnato da un semplice cartello in più lingue appena al di fuori del Kibbutz. Immaginare la situazione in quell’area, e il costo enorme, economico, sociale e psicologico che Israele vive con il rischio di una guerra anche con il Libano è angoscioso. Sono per questo molto preoccupato. Oltre alla guerra in corso, dobbiamo infatti ricordare anche le enormi proteste che la riforma della giustizia di Netanyahu poi abortita aveva provocato l’anno scorso all’interno del paese. Israele vive una situazione di grande incertezza con il rischio di una frattura profonda fra la parte del paese che difende lo stato di diritto e le norme della democrazia e l’altra animata da un’ideologia integralista, reazionaria e teocratica. Il pericolo di una rottura nel vissuto esistenziale del paese è purtroppo forte. Se poi dovesse scoppiare una guerra aperta con il Libano con una possibile estensione al resto della regione allora la preoccupazione aumenterebbe ulteriormente: il solo Hezbollah dispone di un forza militare ben maggiore di quella di Hamas. Per cui sì, sono davvero preoccupato per il futuro di Israele.
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