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“Un giornale rivolto al mondo”. Intervista a Lia Levi

“Mi faccia capire bene chi è lei, e cosa vuole esattamente che le racconti”. La voce di Lia Levi mi arriva accompagnata dal quel lieve tono incuriosito e attento che mi è capitato di cogliere in tante sue interviste. Il grande pubblico la conosce da anni come scrittrice di successo, una delle voci più lette nella nostra editoria (Premio strega giovani nel 2018 con “Questa sera è già domani”; ultimo libro: Ognuno accanto alla sua notte, 2021, entrambi E/O), ma per la comunità ebraica di Roma, la sua comunità di adozione  Lia Levi è infatti nata a Pisa, ma da famiglia piemontese. Il suo nome è legato saldamente alla nascita di Shalom, di cui è stata direttrice dal 1967 al 1996. Chi meglio di lei, dunque, per introdurre il Focus di questo numero di “Riflessi”?

Signora Levi, come è nato Shalom?

Il primo numero è uscito a novembre del 1967; prima, in comunità c’era un semplice bollettino. La Guerra dei sei giorni cambiò tutto. Durante il conflitto, e poi per le settimane e i mesi successivi, la Comunità diventò il centro dell’attenzione non solo per gli ebrei romani, ma anche per l’opinione pubblica. A giugno tutti venivano per conoscere l’andamento della guerra e le ragioni del conflitto; poi, dopo la vittoria di Israele, quell’interesse addirittura aumentò. Insieme ad Alberto Baumann, Enrico Modigliani, decidemmo allora di creare un vero giornale: nacque Shalom. Luciano Tas, mio marito, entrò l’anno successivo.

Che giornale era Shalom?

Aveva due obiettivi: informare gli ebrei della vita comunitaria, ed essere la porta attraverso cui il mondo esterno poteva conoscere per la prima volta l’opinione di noi ebrei. Fu una novità assoluta. Eravamo ascoltati, destavamo simpatia, curiosità e attenzione. Molti intellettuali scrivevano sul giornale per esprimere solidarietà: penso ad Aldo Garosci, alle firme della Voce repubblicana, ma anche ad Alberto Nirestein. Quando Gheddafi entrò nel capitale della Fiat, Gianni Agnelli scelse Shalom per spiegare come l’azienda avrebbe mantenuto l’autonomia.

Come si lavorava al giornale?

Avevamo un’impronta ‘kibbutzistica’, ossia ognuno faceva un po’di tutto. A Shalom fervevano il lavoro e le idee; c’era un grande lavoro artigianale. In redazione abbiamo formato penne importanti, come Maurizio Molinari, che lavorava insieme ad altri giovani, come Dario Coen. Noi della redazione abbiamo sempre cercato di sostenere posizioni non ideologiche, a favore di Israele e confrontandoci con tutti, anche a costo di dolorose lacerazioni, con chi, a sinistra, a un certo punto cambiò e si collocò su posizioni diverse.

Che numeri avevate?

Arrivavamo gratuitamente nelle case di tutti gli ebrei romani. In alcune edicole portavamo il giornale, che veniva regolarmente venduto. Eravamo sui tavoli dei più letti organi di stampa, e delle segreterie politiche dei maggiori partiti, grazie all’esperienza di Luciano. Tiravamo circa 20.000 copie.

E con i vertici comunitari, qual era il rapporto?

C’era dialettica, come si può immaginare. In ogni caso, con i vari presidenti, come ad esempio Sergio Frassineti e Sergio Tagliacozzo, i rapporti erano franchi e improntati al rispetto reciproco. Ho sempre fatto il giornale come volevo. Per concludere, ci racconta un aneddoto di quegli anni’ Il rapporto instaurato con rav Toaff lo ricordo con molto piacere. Era un rabbino aperto all’ascolto delle idee altrui. Inoltre Luciano aveva la mamma livornese, per cui loro due s’intendevano bene. Un anno ci invitò a Pesach, e poi ancora l’anno successivo e quello dopo. A quel punto, ci spiegò, era “obbligato” dalla tradizione ebraica a ripetere l’invito, e diventammo così suoi ospiti fissi a ogni Seder.

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