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Idea di comunità, profondità e sapienza: questo mi lega al pensiero ebraico

Giulio Busi è uno dei più importanti studiosi del pensiero ebraico di oggi. A Riflessi, nel giorno in cui Israele festeggia Gerusalemme, racconta cosa lo lega alla “città fondata sulla pace”

Giulio Busi, oggi in Israele si festeggia Yom Jerushalaim, e così Riflessi ha pensato di chiederle un’intervista, sulla base della sua lunga esperienza di studio, e non solo, con questa città. Vorrei perciò partire da un suo libro, “Lontano da Gerusalemme” (Einaudi, 2017, prima edizione 2003), che mi sembra ci offra un “pretesto” per una riflessione più ampia sul pensiero e cultura ebraica. Innanzitutto, un po’ a bruciapelo: quanto ha influito l’ebraismo nella storia e nella cultura europee?

Giulio Busi

Se vuole, potremo procedere alla rovescia, per così dire, partendo da oggi, dal nostro tempo, e risalendo all’indietro; un metodo in effetti poco ortodosso, rispetto a quello abituale degli storici.

Benissimo.

Allora bisogna partire dal Novecento. Il secolo scorso è tragicamente il secolo della Shoah, ma questo non deve far dimenticare l’influenza crescente della cultura ebraica sulla visione del mondo dell’intero Occidente, almeno fino al 1933. Questo contributo è evidente qui dove mi trovo, a Berlino, dove l’apporto ebraico è stato enorme. Pensiamo al cinema, alla scrittura, al giornalismo. Questo flusso è stato interrotto tragicamente dalla persecuzione. C’è cioè una dualità drammatica nella storia d’Europa e degli ebrei: poco dopo essere entrati nella modernità, con la fine dei ghetti, e avere fatto ingresso da protagonisti nella società, gli ebrei hanno subito la persecuzione. Eppure, non possiamo dimenticare quel contributo, che tra ’800 e ’900 è stato straordinario. Non potrei immaginare Berlino e la Germania senza questo contributo. Soprattutto, l’idea di contributo prevede quella di una ricezione: gli ebrei hanno potuto così influenzare il modo di pensare dell’occidente, perché l’occidente è stato capace di recepire quella novità. Infine, si può tornare ancora più indietro. Possiamo dire, senza addentrarci in un excursus dettagliato, che oggi noi non potremo immaginare l’Europa stessa senza questo contributo. La vicenda europea è anche una storia ebraica.

All’inizio del suo libro utilizza un’allegoria che trovo molto pertinente: quella che parla di “mobilità del giudaismo”. Che percezione ha lei del pensiero ebraico? E perché ha cominciato a studiarlo?

“Lontano da Gerusalemme” costruisce un percorso tra Italia, Europa, India, USA e Israele, alla scoperta di alcune sinagoghe

Da subito mi ha colpito la percezione dell’identità ebraica. È per me una identità molto affascinante, per il suo contino rimando all’idea di collettività. Voglio dire che c’è sempre una dimensione collettiva nell’ebraismo. Non c’è salvezza individuale – l’ebraismo non usa l’idea di salvezza come fa il cristianesimo – voglio intendere che c’è un dinamismo del pensiero che non è mai circoscritto all’individuo. Pensi solo all’idea di minian. Questo approccio rende il pensiero ebraico diverso da ogni altra forma di inquietudine. L’ebraismo è lontano dall’idea di solitudine autoreferenziale. È invece un pensiero, e una pratica, condivisi. Questa è una delle cose che mi colpisce, soprattutto se la confronto con la lettura postmoderna del nostro mondo, che è al contrario molto individualista. Io sono convinto che questa idea collettiva della storia e della cultura sia una fondamentale forma di ricchezza.

Un altro tema di cui lei scrive è quello dell’asimmetria, che a me sembra particolarmente evocativo, specie oggi che ci troviamo a vivere il rischio continuo dell’uniformità. Al riguardo, come sperimenta l’asimmetria di vivere a Berlino e di interessarsi al pensiero ebraico? Avverte una specie di contraddizione nell’occuparsi di giudaica nella città che è stato l’epicentro della Shoah?

Nel mio caso, addirittura, sono tre i punti di asimmetria, o se vuole di conflitto. C’è la Germania, c’è l’ebraismo, e poi ci sono io, un italiano non ebreo che studia l’ebraismo in Germania. La realtà è che faccio fatica, come studioso, a riconoscermi in un’etichetta. Le etichette non è detto che siano sempre negative, non hanno solo svantaggi, perché servono anche a riconoscerci; nel mio caso, invece, faccio continua esperienza dell’idea di spaesamento, posso dire anzi che lo interpreto.

Come è cominciata?

l’ultimo libro di Busi (“Uno”, Laterza 2022)

Ho iniziato a studiare a Ca’ Foscari, a Venezia, e poi ho fatto una scelta di campo: venire a Berlino nel 1998, nel luogo simbolo di quel passato cui accennava. In quegli anni ho visto fiorire la comunità ebraica e il fenomeno sorprendente degli olim le-Berlin, l’immigrazione israeliana, al punto che oggi qui a Berlino c’è una comunità israeliana cospicua. Sì, per un verso Berlino rappresenta il passato, e tuttavia ha anche una dimensione internazionale, oggi fortissima. Pensi che noi residenti non tedeschi siamo quasi il 40% della città. Quanto a me, da anni dirigo un Istituto di studi ebraici, e così vedo sia la capacità attrattiva della città, sia il mutare dei giovani, e il loro atteggiamento verso l’ebraismo. Negli anni si è passati dal senso di colpa, prevalente vent’anni fa, a una diversa sensibilità. Non posso certo dire che ci sia una normalizzazione verso l’ebraismo, però c’è una maggiore continuità. Oggi i tedeschi non sono più i discendenti diretti dei persecutori, e questo nel bene e nel male cambia la prospettiva. Si attenua il senso di colpa, ma si pone il problema di conservare la memoria. Tutti oggi ci sforziamo di capire in che direzione si deve andare. È una necessità, quando capita, come a me, di trovarsi davanti un ragazzo di 17, 18 anni, che si iscrive all’università per studiare la cultura ebraica, molti decenni dopo la Shoah.

Lei ha scritto di Gerusalemme agli inizi degli anni Duemila, nel periodo della seconda Intifada. Alla città fondata sulla pace – questa è una delle radici etimologiche di Gerusalemme –  sembra opporsi, da sempre, una forza simbolica negativa che la serra in una morsa. Come vede Gerusalemme oggi?

Purtroppo non sono ancora tornato a Gerusalemme in questi due anni pandemia. Però ho amici che sento regolarmente, e vorrei tornaci nei prossimi mesi, anzi uno dei miei progetti è passarvi il mio prossimo anno sabbatico. La mia percezione, ad esempio sostenuta dagli ultimi dati statistici, è la crescita percentuale della popolazione araba. Mi sembra che la composizione della città sia molto cambiata dal periodo del mio dottorato. In generale, la composizione sociale della città, ad esempio la presenza di una popolazione ortodossa accanto a quella araba, nonché la sua crescita demografica, sono elementi che da un lato la rendono molto attiva e dinamica, dall’altro anche molto conflittuale; direi che in questi anni il conflitto non si è lenito. Nell’82, quando arrivai la prima volta, era molto diversa da oggi. Ricordo che i miei genitori in Italia temevano per la mia sicurezza, ma è sempre poi un problema di percezione: i miei amici israeliani mi rispondevano che era l’Italia a essere più pericolosa, per via del terrorismo delle BR. Insomma, credo che Gerusalemme non abbia perso il suo fascino e la sua attrattività, ma nemmeno la sua conflittualità.

C’è modo di immaginare una soluzione?

uno dei lavori di Busi dedicato alla mistica ebraica

Tempo fa ho scritto un piccolo testo per la Treccani, in cui ricordavo che la storia della città è introdotta da un ammonimento: “I figli di Beniamino non scacciarono i Gebusei che abitavano Gerusalemme; così i Gebusei hanno abitato con i figli di Beniamino in Gerusalemme fino al giorno d’oggi” (Giud. 1:21). Trovo sia un approccio interessante, perché ci dice che fin dall’inizio della storia della città c’è una convivenza forzata, che non può essere eliminata. Se vuole, può essere letto come un insegnamento per gli uomini di oggi, che viene da lontano.

Di recente, lei ha dichiarato che «Quando ho messo piede a Gerusalemme ho capito che quella lingua e quella cultura avrebbero segnato per sempre, e profondamente, la mia vita». Da dove nasce questa attrazione?

La mia è stata innanzitutto un’attrazione culturale. Il colpo di fulmine scattato prima a Venezia e poi a Gerusalemme stessa. Naturalmente, poi si è rafforzato grazie ai rapporti di amicizia. All’inizio ebbi questa sensazione: studiavo i manoscritti alla Biblioteca di Givat Ram, ed erano mondi che mi si aprivano davanti, del tutto nuovi. Io provenivo da Bologna, certo una città di cultura, ma appartenente a un mondo completamente diverso. Ricordo che mi affascinava moltissimo questo mosaico diasporico che mi si componeva davanti, questa continua molteplicità. Credo che in una sala di consultazione a Gerusalemme si possa percorrere un intero mappamondo senza lasciare la propria postazione, cosa che non avviene di solito in Italia, che ha un taglio più locale. L’impressione che mi dava la città era quella di un antico centro imperiale – come, per esempio, Londra – naturalmente senza veri domini, e senza il peso, e la colpa di un impero. Insomma, l’ebraismo e la sua cultura è ciò che mi ha influenzato, perché è chiaro che l’ebraismo non è solo la storia della Shoah. E poi ci sono tanti altri elementi: c’è la fascinazione della Gerusalemme araba, ad esempio. C’è la figura di Gershom Scholem, che purtroppo ho mancato per pochissimo, perché venni a Gerusalemme poche settimane dopo la sua morte. In compenso, ho poi conosciuto il successore alla sua cattedra.

Scholem fece in tempo a lasciare Berlino prima del nazismo.

il Kotel

Vede, siamo tornati a Berlino. Walter Benjamin invece non riuscì a sfuggire ai nazisti. Considero Benjamin uno dei più grandi intellettuali europei del Novecento. La villa della sua famiglia non è molto lontana da qui, da dove vivo oggi.

Un’ultima domanda. Lei scrive che dopo la Shoah la memoria è diventata più precaria e incerta. Questo è uno dei temi che l’ebraismo deve affrontare oggi: come conservare la memoria.

Sappiamo che siamo nella fase che ci porterà a perdere i testimoni diretti della Shoah. Il loro ruolo nella conservazione della memoria è stato fondamentale. Io ho scritto parte di quelle pagine prima che fosse istituito il Giorno della memoria, che pure ha dato un contributo importante in questo senso. Tuttavia, ora che per ragioni biografiche i testimoni si stanno spegnendo, non sarà facile. I testimoni erano capaci di portare la loro esperienze, una realtà sempre molto diversa dai numeri e dalle statistiche. I testimoni ci fanno calare nella realtà, per così dire, ci fanno capire i destini individuali, i loro sentimenti. Il testimone racconta con la propria voce. Quello che ci chiediamo è: cosa fare dopo? Certo, i riti della memoria sono importanti, ma alla lunga, se restano tali, temo che non tengano. Quando la memoria diventa istituzione, c’è un momento in cui il rito se non viene “agito” non funziona più. Lo vediamo dalle nuove generazioni, che in parte si sottraggono al semplice studio della shoah come fenomeno storico, perché sono già convinti di saperne abbastanza.

Gershom Scholem (1897-1982)

E allora, cosa fare?

La sfida è questa: riuscire a far rivivere in qualche modo quello che è stato. Se ascoltiamo Liliana Segre che racconta la sua vita è come se anche noi, mediante lei, la rivivessimo, e questo fa la differenza. In un testimone c’è l’autenticità che, credo, nessun altro potrà restituirci.

 

 

Per saperne di più su Giulio Busi: leggi qui

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