Sono un’ebrea della diaspora, racconto il nostro mondo
Lia Levi, compiuti da poco 90 anni, racconta a Riflessi (un po’) della sua vita. Dalle leggi razziali alla direzione di Shalom, dall’incontro con Luciano Tas al suo essere scrittrice di successo. E di quella volta che gli chiesero di candidarsi in politica, e lei rispose…
Signora Levi, cominciamo dalla sua famiglia. Lei vive a Roma da tanti anni, ma non è romana, vero?
È vero. Sono nata a Pisa, ma per puro caso; anche se amo molto la Toscana, posso dire che nella mia vita è un po’ come una virgola, perché quasi subito tornammo in Piemonte. La mia famiglia è infatti originaria di lì, mio padre lavorava in assicurazione e per questo cambiava spesso sede. Ci trovavamo a Pisa quando nacqui, ma poi andammo ad Alessandria, dove ho fatto l’asilo, e poi a Torino, che per me resta una città molto importante.
Che famiglia era la sua?
Come molte famiglie ebraiche di quel tempo, anche la mia era poco religiosa, ma molto attaccata alle tradizioni. Mia madre era di Saluzzo, era cresciuta con una forte impronta patriarcale, per cui era più incline a osservare le feste. Posso dire che la mia famiglia era religiosa perché osservava le feste, andava al tempio di sabato, qualche volta; noi sapevamo tutti lo shemà, ma per esempio in casa non si mangiava strettamente kasher.
E poi sono arrivate le leggi razziali, a spezzare il ritmo e la vita di una normale famiglia.
Sì. Mio padre perse il lavoro. Così da Torino ci spostammo in grandi città, dove sperava di trovare un’occupazione clandestina. A Milano non trovò nulla, invece a Roma fummo più fortunati. C’era una piccola azienda privata, la Petrolea, che pur sapendo che eravamo ebrei lo assunse, immagino per impiegarlo in amministrazione. Poi, finita la guerra, mio padre riprese il lavoro da cui era stato cacciato. Ma la carriera persa non gli fu mai restituita, anzi si trovò a lavorare con persone molto più giovani di lui, e così non fu mai più come prima.
E lei?
Io avevo cominciato la prima elementare nella scuola pubblica, poi, con le leggi razziali, feci la seconda e la terza a Torino, iniziai la quarta a Milano, fino a che ci trasferimmo a Roma. Qui ho trovato molta più libertà, quasi una sfida a criticare il regime, mentre nelle altre scuole ebraiche frequentate c’era molta più prudenza. A Roma mi sembrava quasi di vivere un fervore, il gusto dello scherno verso il potere, che era anche un atto di coraggio.
Com’era l’ebraismo romano del dopoguerra?
Nel dopoguerra ho visto fortificare l’identità ebraica un passo alla volta. Accadde che chi era laico, e pensava di poter ignorare le proprie tradizioni, adesso andava riacquistando la sua identità.
Si ricorda come reagì la comunità romana alla nascita di Israele?
Ricordo una grande emozione ed entusiasmo, ad esempio in casa mia fu una cosa che emozionò tutti moltissimo. Quanto a me, invece, lo vissi un po’ defilata. Sa, ero in piena adolescenza, andavo al Virgilio, e vivevo un’età in cui in me era più forte il desiderio di tornare a quella normalità che avevo perso durante la guerra; oggi però mi dispiace di avere avuto un’età in cui si presta meno attenzione ai grandi accadimenti della storia.
E quando andò in Israele, invece, cosa provò?
Naturalmente, come tutti, sono stata in Israele molte volte. Ne vorrei ricordare due: la prima, in cui partii da Civitavecchia, e fu un’emozione fortissima vedere avvicinarsi la terra d’Israele dal mare; e la seconda, dopo la guerra dei Sei giorni, in cui tornammo in un paese che a un certo momento tutti noi ebrei della diaspora avevamo temuto di perdere.
La guerra dei sei giorni segna anche l’avvio ufficiale della sua carriera da giornalista.
La mia attività di giornalista nacque in realtà già mentre studiavo all’università e avevo bisogno di lavorare. A quel tempo c’era il giornale “Israel”, diretto da Carlo Alberto Viterbo, una persona eccezionale, un sionista convinto, un uomo con un grande senso dell’umorismo; per me è stato un grande maestro, alla sua redazione ho imparato il mestiere. Dopo la laurea, in filosofia, collaborai a Paese sera, con Fausto Coen. Fu lui a creare per primo in Italia l’idea di un giornale con all’interno un supplemento letterario, poi imitato da tutti. Infine, approdai alla creazione di Shalom, diventandone direttrice proprio con la Guerra dei sei giorni.
In quell’occasione nacque anche il sodalizio con Luciano Tas, prima professionale, e poi affettivo.
Con Luciano c’eravamo incrociati, sia pure di sfuggita, ai campeggi ebraici. Lui era più grande di me di circa sei anni, per cui mi ricordo solo questo ragazzo, più strutturato di me che aveva appena preso la maturità. Lui lavorava e già sembrava tagliato per fare la politica, con la nomea di essere un comunista; ricordo che aveva già l’aria del leader. Quando spedimmo anche a lui una copia di Shalom si complimentò, commentò che il giornale era professionale, nello stile e nel taglio, e dopo pochi numeri ci inviò un articolo. Poi gli chiedemmo di entrare in redazione. Io dirigevo il giornale, ma credo che un direttore debba essere un regista, e i suoi collaboratori gli attori; cosicché a Luciano lasciai la cura delle pagine di politica. In breve divenne l’autore che scriveva più di tutti, al punto che di fatto alcuni consideravano lui il direttore, perché cosa vuole, i pregiudizi erano ancora tanti e alle donne non si riconosceva un ruolo rappresentativo. Comunque, lavorando in direzione finì che ci frequentammo regolarmente, e alla fine ci sposammo.
La sua attività di scrittrice nasce prima o dopo quella di giornalista?
Molto prima! Deve sapere che da ragazzina leggevo moltissimo. Scrissi anche una lettera a me stessa, che conservo, in cui mi dicevo che dovevo fare la scrittrice. Poi, però, tra lo studio e il lavoro, persi di vista l’obiettivo, ma non lo dimenticai. Credo anzi che quelli furono gli anni in cui dovevo maturare il mio stile, perché non ho mai smesso di scrivere per me stessa. Io credo che per diventare scrittori occorra esercitarsi, oggi invece si ha la smania di pubblicare subito, ma bruciare le tappe non aiuta. Io, per esempio, feci molta gavetta.
Come?
Cominciai a collaborare nella stesura di sceneggiati radiofonici. Erano organizzati in 40 puntate, e in ognuna c’era qualche fatto che doveva accadere. Ne scrissi almeno un paio – ne ricordo uno, “Quei fantastici anni difficili”, del 1980 – che furono accettati dalla RAI, e per me fu un segnale. Poi uscii il mio primo libro, “Una bambina e basta”, e da lì non ho più smesso di scrivere romanzi.
“Una bambina e basta” è stato un grandissimo successo, oggi ancora un long seller. Se l’aspettava?
Una risposta
Lia Levi mostra anche in questa occasione una personalità ricca viva equilibrata e accattivante …
Vanno fatti tutti i complimenti a questa donna che orgogliosamente e sommessamente ha rappresentato sia con il periodico Shalom e sia con i suoi romanzi una voce significativa dell’ebraismo italiano.
Un abbraccio virtuale a Lia Levi