Serve una memoria che indichi l’azzurro del cielo
Alberto Cavaglion, ebreo piemontese, racconta a Riflessi la sua formazione, e come difendere oggi la nostra memoria dai tanti pericoli che corre
Caro Alberto, il mondo ebraico italiano ti conosce come uno degli storici più attenti alla salvaguardia della memoria del nostro paese.
In realtà il mio cammino di studioso è stato un po’ avventuroso, incerto tra storia e letteratura. Non ho mai deciso che cosa avrei voluto fare da grande, ma c’è una spiegazione in tutto ciò. Ho frequentato l’università negli anni ‘70, da cui mi è stato difficile riemergere sano e salvo; erano infatti i tempi duri del terrorismo e dello sfascio del mondo degli studi e della ricerca. Sono stati anni in cui non ho imparato quasi nulla, e non ho deciso nulla del mio futuro; mi è sempre rimasta questa incertezza, che deriva dal caos di allora. Non avevo neppure un’identità stabile dal punto di vista religioso, e così subivo le fascinazioni ideologiche di anni turbinosi e affascinanti. Ho poi trovato la stabilità e i rudimenti del mestiere in seguito, vincendo una borsa di studio all’Istituto Croce di Napoli, dove arrivai nell’anno del post terremoto. A Palazzo Filomarino ho trovato l’ordine nel caos; quella è stata per me la vera svolta. Grazie ai maestri – come Piero Treves, Gennaro Sasso e Roberto Vivarelli – ho imparato a fare ricerca. Provo tuttora un senso di forte gratitudine per loro, per quel periodo e anche per la città dove anni più tardi incontrerò l’editore che salvò il mio libretto sulla Resistenza rifiutato da Einaudi. Dopo Napoli, un’altra svolta importante l’ebbi incontrando a Pisa Arnaldo Momigliano, che ha dato inizio al mio interesse per un suo avo, Felice, un mazziniano, ebreo inquieto, autore di saggi importanti, forse l’intelligenza ebraica più vivace dell’Italia d’inizio Novecento. A seguire, si è sviluppato l’interesse per il rapporto tra ebrei e il fascismo. Oggi, per questa mia formazione a zig zag,poco accademica, mi colloco in una posizione anomala rispetto ad altri studiosi. Per un trentennio ho insegnato nelle scuole, a Firenze, all’università sono arrivato tardi e come docente a contratto. Diciamo che non ne ho mai sofferto: questo esilio mi ha donato la libertà dello studioso, l’indipendenza del giudizio.
Da Torino a Napoli e poi a Pisa: è stato un salto complicato per un ebreo di provincia?
Sì, è vero, io vengo dalla provincia del Piemonte. Sono nato nel 1956 a Cuneo, città di mio padre, mentre mia madre era di Vercelli. Entrambi avevano alle spalle due famiglie di piccoli commercianti, di tessuti.
Che ebraismo si praticava in casa?
Era un ebraismo vorrei dire del cuore, sentimentale, poco consapevole della profondità e della complessità della cultura ebraica, ma legato a una solida tradizione morale e a un fitto tessuto di sentimenti di autenticità. Il testo classico di riferimento erano “Le preghiere di un cuore israelita”, di Marco Tedeschi, una serie di massime sapienziali dal tratto moraleggiante. Mia nonna materna, con radici ebraiche più profonde, era più vicina alla ritualità, ma anche per lei quello rimase il livre de chevet.
Che comunità erano quelle del Piemonte?
Nell’800 erano fiorenti comunità, Cuneo vantava circa 200 iscritti, lo stesso Vercelli. Lo svuotamento è legato alla rivoluzione industriale, prima che alla persecuzione. Gli ebrei si trasferirono a Torino per lavorare. Comunque, quelle del Piemonte furono nell’Ottocento comunità vivacissime, trampolini di lancio per illustri personalità: Lelio Della Torre, che poi guidò il Collegio rabbinico di Padova; Marco Tedeschi; Giuseppe Levi, Salvatore De Benedetti, David Levi.
Mi sembra che stai introducendo il tema della modernità e degli effetti sull’ebraismo italiano. Di recente le Edizioni di Storia e Letteratura ha ripubblicato “Quaderno di Israele”, di Giorgio Voghera, sotto la tua curatela. Che rapporto hanno avuto gli ebrei italiani con il sionismo?
La penetrazione del sionismo nella cultura ebraica italiana è stata fin da subito perturbante, ha scosso l’identità ebraica suscitando scandalo e dividendo le comunità. Negli anni degli albori – “il sionismo degli avvocati”, di Ferrara e di Modena – questa nuova idea rimaneva nell’ambito di una élite e lacerava le certezze della società ebraica liberale. Le promesse e le speranze ingenerate vanno in crisi già con la guerra di Libia (1912) e poi con la divisione tra interventisti e neutralisti nella Grande guerra, e con il ritorno al nazionalismo, una malattia che penetra presto dentro l’ebraismo italiani. Tieni conto che lo scompaginamento è generale e coinvolge anche larga parte dell’antifascismo ebraico che sarà antisionista: Emilio Sereni, Leone Ginzburg, Nello e Carlo Rosselli, Vittorio Foa; erano piuttosto crociani, coltivavano l’idea originaria di nazione, quella del Risorgimento e di Mazzini: in questo contesto non vi poteva essere spazio per Sion. Negli anni trenta questo che era un semplice scombussolamento identitario diventerà, di fronte al crescente antisemitismo di Mussolini, una tragedia.
Le cose però oggi appaiono cambiate.
Già col dopoguerra le cose cambiano completamente. Almeno fino al ’67 molti guardano con favore al sionismo e a Israele. Il mondo della sinistra, nato dalla Resistenza, soprattutto in Piemonte, legato al Partito d’azione, a Giustizia e libertà, guarda a Israele come un proprio figlio; sarebbe molto bello studiare al riguardo il percorso dei leader del PdA.
E dopo la Guerra dei sei giorni?
C’è stata una chiara lacerazione tra la sinistra e il filone mazziniano, diventato minoritario nei movimenti giovanili. A seguire poi è arrivata la crisi del 1982, con la guerra del Libano, dove quella lacerazione ha raggiunto l’apice. Il ricatto dell’opinione pubblica posto agli ebrei italiani – siete a favore o contro Israele? – è stato molto forte. E fu per me un secondo trauma che s’aggiungeva a quello del 1977 e delle Brigate Rosse.
E oggi? Gli ebrei italiani guardano più a destra o sinistra?
La domanda mi sembra superata dagli eventi. Innanzitutto lasciami dire che tutto quello che è accaduto proprio dal 1982 in avanti aiuta a capire come la cultura italiana strumentalizzi sempre la storia e la memoria degli ebrei. Nelle posizioni assunte a destra come a sinistra è sempre cosa rara scoprire una vena di autenticità. Venendo alla tua domanda, come tutti gli italiani, anche noi ebrei italiani viviamo un totale disorientamento di fronte alla crisi della politica, all’incapacità di trovare una classe politica autentica, colta, competente. A farne le spese è la ricerca storiografica. Oggi si avverte la mancanza di figure politiche serie – penso a La Malfa – che erano figli di una cultura a sua volta intrecciata con l’ebraismo secolarizzato: pensa alla borghesia milanese, erede del socialismo riformista di Claudio Treves. Insomma, manca l’dea di una politica sana, virtuosa, costruttiva. Ci sono invece slogans, bandiere e amicizie di facciata. Lo schierarsi a favore o contro Israele nasce sempre da scarsa conoscenza dei fatti, funzionale alla lotta politica e all’interesse del momento.
Il secondo libro che prendo a prestito è il tuo “La Resistenza spiegata a mia figlia”. A che punto è la tutela della memoria in Italia?
Avevo scritto quel libro nel 2005, vedendo svuotarsi di significato un giorno fondamentale dell’Italia repubblicana e mio familiare. Oggi il libro è arrivato alla quinta edizione, ma deve il suo successo allo scandalo del primo rifiuto. Devi sapere infatti che sia io che mia figlia siamo nati il 24 di aprile. Mi misi allora a scrivere quelle pagine per spiegarle come la festa del nostro compleanno non potesse ridursi a un fatto privato. Avrei con più facilità potuto spiegarle, il 27 gennaio, istituito da pochi anni, la Shoah, ma anche in quel caso preferii imboccare una strada inattesa, obliqua. Mi era già allora chiaro come da noi le politiche della memoria oscillino sempre paurosamente tra gli estremi, tra vuoti e pieni. C’è da avere paura a pensarci. Negli anni Settanta e primi Ottanta non si parlava di leggi razziali, la Shoah era una parola sconosciuta ai più. Poi improvviso il mutamento. Per questo vivo nel terrore di una ennesima imminente, capriola.
Da cosa dipende questa oscillazione?
Naturalmente dalla lotta politica che ha aspetti di tifo calcistico. Con l’ascesa di Berlusconi e Fini al mito del buon italiano si è sostituito l’italiano carnefice, altro mito privo di fondamento: si è fatto e ancora di fa un uso pubblico della storia degli ebrei sotto il fascismo. Se Fini tendeva a rinnegare il suo passato, allora a sinistra si cominciava a ricordare “l’infamia delle leggi razziali”, mentre negli anni 70 l’unica viltà rimproverata a Vittorio Emanuele III era stata la fuga. Poi Fini è andato a Gerusalemme e ha scavalcato la migliore storiografia progressista, insomma il pendolo della memoria da noi non ha mai un giusto equilibrio. A dare il ritmo è la politica, non la lezione dei Maestri. Manca un esercizio della storiografia rigoroso, fine a se stesso, cioè alla ricerca del vero; al contrario, se ne fa un’arma politica. Spesso gli ebrei italiani finiscono in questo scacchiere, diventano pedine di disegni che hanno poco interesse storico, e molto politico. Oggi, per dire, non so quanto la Meloni sosterrebbe la svolta di Fini.
A proposito: come vedi l’ebraismo italiano oggi?
4 risposte
Bravo Alberto, bravo Massimiliano! Riflessioni magnifiche che mi hanno fatto pensare a molti temi del passato. Una cavalcata a ritroso nella nostra storia stimolante e su aspetto che avevo dimenticato!
Sempre “centrato”, e non come uno storico, di mestiere arciere, ma come un intellettuale che si guarda intorno e si chiede come sia possibile non essere riusciti a generare qualcosa di meglio in questa Italia e in questo mondo ebraico italiano.
Bravo Alberto
Da qualche decennio, caro Alberto, le tue riflessioni sono per me riferimento. E non per me solo. Con diverse persone condivido questo pensiero. Ma attraversiamo crisi faticose in cui scegliere il più facile, l’obiettivo costruito intorno alle tesi, è cosa assai frequente. E quanto fatica si fa a tenersi fuori da questa corrente, la stessa fatica del maestro degli aquiloni di Romain Gary, divenuto anche lui un caposaldo dei miei progetti, come dei tuoi. Insistiamo, Alberto, anche se pochi danno segno di ascoltare: chi ascolta, poi, non ama salire sulla scena per dichiararsi, ma agisce sottovoce, o con voce pacata. Ma ti è vicino.
Grazie per la interessante retrospettiva sulla storia della cultura ebraica del Novecento e per le riflessioni utili e necessarie sulle prospettive future della Giornata della Memoria.