Primo Levi e Elie Wiesel, due modi diversi di “fare memoria”
Riceviamo un contributo utile a fare chiarezza su come la memoria della Shoah non possa essere utilizzata nè per attacchi interni, né per provocazioni antisemite. Onorare quella memoria significa anche accettare testimonianze diverse, unite nel descrivere la specificità di quello che è stato.
In questi giorni sono state sollevate alcune questioni serie sul tema del “fare memoria della Shoah”. Sono temi dibattuti da decenni tra gli storici israeliani e non, dentro e fuori Yad va-shem, e in generale tra gli studiosi e i pensatori di quegli eventi.
L’unicità della Shoah e la sua comparabilità con altri eventi storici sono state oggetto di grandi approfondimenti sia in Israele sia negli States (protagonisti, tra gli altri, Yehuda Bauer e Steven T. Katz). Sono temi su cui si può discutere, e di fatto si discute, da decenni, senza che essi debbano assurgere a ‘dogmi’ in un senso o nell’altro, e senza trasformare la memoria delle vittime della Shoah in un clava nel dibattito sulle “memorie”. Resta un fatto che anche i testimoni, i sopravvissuti, hanno reso testimonianza e hanno elaborato le loro esperienze e i loro ricordi in modi e con registri diversi. Onorare le vittime e stigmatizzare le ideologie antisemite che le hanno rese tali non può esser fatto usando la memoria come una clava contro chi ha approcci diversi dai nostri.
Infatti, sebbene tutti concordiamo sull’urgenza pedagogica e sociale di “fare memoria” della Shoah, dobbiamo al contempo accettare i modi diversi e, a volte, le strategie divergenti nell’insegnare a non-dimenticare. Primo Levi ed Elie Wiesel, se comparati, rappresentano due modalità diverse di testimoniare la Shoah e persino di interpretarla.
Certo, vi sono anche sostanziali somiglianze: entrambi sono state voci scomode, che hanno parlato subito dopo il loro ritorno dai Lager nazisti, contro la rimozione generalizzata di quella tragedia; entrambi non hanno voluto essere racchiusi nel ‘solo’ ruolo di testimoni e hanno sviluppato un indubbio talento di scrittori a tutto campo, non disdegnando di scendere nell’agone politico quando necessario; entrambi sono diventati icone di una resistanza al male incarnatosi nei totalitarismi del XX secolo. Tuttavia la loro testimonianza e il loro stile rappresentano due interpretazioni diverse della Shoah.
In Primo Levi la preoccupazione è quella di trasmettere una memoria ‘non fallace’, in cui prevale un approccio razionale teso a capire cosa sia successo, a comprendere, pur chiarendo che comprendere non significa giustificare, ma risalire alle cause e alle complesse concause (ideologiche ma anche economiche, politiche, sociali) che hanno determinato la catena degli eventi storici. Raccontare la propria tragedia personale per Levi doveva servire a far meglio comprendere la natura umana e le sue potenzialità, nel male e nel bene, perché l’irrazionalità degli istinti, sobillitati dall’ideologia, non prevalesse sulla ragione. Da qui il bisogno di quella sobria lucidità che privilegia il capire per sconfiggere i pregiudizi. È una prospettiva molto antropocentrica, se così si può dire, non incline a uscire dal solco dei fatti e del verificabile. La stessa memoria deve pertanto vigilare su se stessa e sul proprio linguaggio (anche sull’inevitabile retorica che l’accompagna), proprio perché il “messaggio” nasce da eventi particolari, che hanno ferito nel profondo il popolo ebraico, ma vuole essere universale, deve esserlo, se vogliamo che quegli eventi non si ripetano.
Elie Wiesel, rivolgendosi anzitutto alla società nordamericana che poco conosce la storia e inclina verso il lato più emotivo dell’esperienza, ha privilegiato un approccio più religioso (quasi chassidico) alla tragedia del popolo ebraico, teso a sottolinearne lo specifico ebraico e a preservarlo da interpretazioni che rischiano di perdere di vista l’ebraicità delle vittime o di oscurarla in un generico umanesimo. Wiesel ha fatto propria la missione di custode universale di quella specifica memoria, anche in virtù del riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1986, premio che lo ha consacrato “voce dei sommersi” e “icona dei sopravvissuti” ma che lo ha anche esposto a critiche nello stesso mondo ebraico. La sua visione teologico-emotiva degli eventi corre infatti il rischio di sacralizzarli; non di meno, è servita a inserirli nella civil religion che, da noi, è ben espressa dal Giorno della memoria. In questa memoria, lo specifico non è – né può essere – in guerra con il comune o il condiviso; il particolare non va difeso negando l’universale. Lo sguardo ebraico-centrico di Wiesel, infatti, non gli ha impedito di mettere la sua Fondazione al servizio di battaglie globali contro le discriminazioni etniche e a favore di molte minoranze perseguitate.
Non credo saggio, per noi, giudicare il valore di queste diverse testiminianze, entrambe autentiche. Dobbiamo piuttosto cercare di capirle e storicizzarle. Nella loro diversità sono state e sono complementari, e rispecchiano le esistenze dei loro autori, assai diversi per tratti caratteriali, per formazione e per orientamenti politici.
Nel momento in cui si pongono domande legittime su quali strategie siano più utili quando andiamo a educare le nuove generazioni, i due approcci, quello primoleviano e di wieseliano, ci illuminano sulla necessità di non essere dogmatici ma sempre attenti alle ragioni altrui e alle altrui sensibilità.
2 risposte
Sono assolutamente d’ accordo, poiché ogni essere umano vive ed elabora a modo proprio la stessa situazione
Grazie Massimo per questa analisi molto precisa, che identifica la diversità dei due approcci e che evidenzia la diversa origine culturale dei due testimoni. Mi sembra che l’approccio di Wiesel sia più ebraico, mentre quello di Levi più universale e laico: il primo rende più conto della particolarità e unicità della Shoah da cui perviene ad una considerazione degli altri genocidi. L’altro parte dall universale al cui interno la Shoah diventa un episodio molto importante, forse preponderante ma privato della sua unicità e assolutezza.
Mi sembra che la posizione di Wiesel sia più capace di dialogare anche con la posizione assunta dal Cristianesimo e in particolare dal Cattolicesmo di Giovanni Paolo e Ratzinger
Ma naturalmente è una mia posizione