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Le testate giornalistiche ebraiche in Italia: troppe, o troppo poche?, di Aviram Levy

Le recenti polemiche che sono seguite all’annuncio di un avvicendamento alla direzione del mensile Shalom offrono lo spunto per qualche riflessione sul tema: in tempi di gravi difficoltà di bilancio per le istituzioni ebraiche, ha senso destinare risorse agli organi di stampa? Ha senso avere una testata romana (CER) e una nazionale (UCEI), con inevitabile duplicazione di costi?

La risposta a entrambe le domande è, a giudizio dello scrivente, affermativa. Se è pur vero che testate giornalistiche come Pagine Ebraiche o Shalom comportano costi, è anche vero che svolgono una funzione essenziale, seconda per importanza solo a poche altre (scuole, culto e kashrut, assistenza ai bisognosi) e questo potrebbe giustificare la spesa di qualche centinaio di migliaia di euro l’anno, su un bilancio di svariati milioni (una dozzina quello della CER, poco più della metà quello dell’UCEI). Perché la funzione di queste due testate è per molti aspetti essenziale e quale ruolo dovrebbero svolgere per assolverla.

Per quanto riguarda l’UCEI, essa ha bisogno di una testata autorevole, con la diffusione più capillare possibile, per assolvere meglio alcuni importanti compiti, che spettano solo a lei e non alle singole Comunità: da un lato l’UCEI rappresenta l’ebraismo italiano nei rapporti con lo Stato, con le altre istituzioni e nei confronti dell’opinione pubblica in generale; dall’altro lato essa “procaccia” e gestisce l’Otto per Mille, una preziosa fonte di finanziamento per l’ebraismo italiano (4,5 milioni di euro nel 2019). Entrambe queste funzioni hanno bisogno di un organo di stampa autorevole e con la più ampia diffusione possibile.

Diverso è il caso di una testata comunitaria come Shalom. Anche questa svolge un ruolo essenziale, che secondo molti può assolvere meglio se arriva nelle case in forma cartacea: informare gli iscritti di quello che succede in Comunità, far sentire la propria presenza e vicinanza a chi non partecipa agli eventi comunitari perché ha problemi di mobilità oppure perché è “disaffezionato” (i cosiddetti “ebrei lontani”). Questo ruolo di contatto e di vicinanza con gli iscritti è divenuto ancora più importante con la pandemia, che da un anno a questa parte impedisce di frequentare di persona le sedi comunitarie e che probabilmente ci condizionerà per qualche tempo, rendendo essenziali i luoghi d’incontro “immateriali” come giornali e web. Ci sono invece alcune cose che una testata locale dovrebbe accuratamente evitare di fare: pretendere di rappresentare l’ebraismo italiano nei confronti delle istituzioni e della politica; incentrare sistematicamente la testata sui temi della Shoà e di Israele, di per sé meritevoli, ma trattandoli in modo ossessivo e con toni apocalittici (il Rabbino Capo di Roma ci ha spesso esortati, molto saggiamente, a non fare della Shoà una “religione”); affidare per decenni gli editoriali della testata a pochi e sempre gli stessi commentatori, che si sono spesso contraddistinti per l’aggressività e le posizioni estremistiche, certamente non rappresentative dell’intero ebraismo romano (e tanto meno quello italiano).

In conclusione, nonostante le gravi ristrettezze economiche in cui versano le istituzioni ebraiche e gli iscritti alle comunità, gli organi di stampa ebraici svolgono funzioni talmente essenziali, come sopra richiamato, che forse vale la pena di riflettere bene prima di tagliare e sopprimere.

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