Nel tempo della crisi occorre pensare a un nuovo modello di comunità e di politica
Davide Assael ragiona sulle crisi che stiamo vivendo, e perché la coscienza ebraica può fornire una chiave di lettura del nostro tempo
Davide Assael, nel recente programma realizzato per RadioTre, “Uomini e profeti”, ti sei occupato del tempo della crisi, partendo dalla lettura del Mabul, il c.d. diluvio universale. Se guardiamo i tempi che stiamo vivendo, in effetti, è difficile sfuggire all’idea di una crisi incombente su di noi.
Credo che se si guardano questi primi 20 anni del XXI secolo il termine “crisi” si adatta bene al tempo che stiamo vivendo. Vedo infatti un filo conduttore fra tutti gli avvenimenti che sono accaduti finora, e che possiamo elencare: dallo shock geopolitico dell’11 settembre 2001, alla stagione del terrorismo islamista, per la verità ancora non conclusa, cui si è agganciata una reazione politica e militare segnata da una logica dello scontro di civiltà. Tale radicalizzazione ha portato così a un forte scontro sociale, cui si è aggiunta la crisi economica degli anni 2007-2011, che dagli USA si è propagata in Europa, e da cui ancora non siamo completamente usciti, che ha portato a un impoverimento generale della società occidentale. Come se non bastasse, è arrivata poi la crisi politica, che ha portato a far risuonare in Europa parole che fino a pochi anni fa erano tabù, rivolte contro i più poveri, gli emarginati e le minoranze. Infine, siamo ancora nel pieno di una crisi pandemica e anche la guerra è entrata nel nostro orizzonte. Tutto questo ancora non basta: un po’ in là ecco che si annunciano la crisi climatica e quella demografica. Per questo, sono convinto che la parla “crisi” sia davvero il filo conduttore di questa epoca.
Possiamo provare a descrivere meglio questo filo comune che lega tutti questi avvenimenti?
Il filo conduttore che io scorgo nasce dal crollo di un modello politico che ha guidato l’occidente negli ultimi due secoli. Intendo dire che ormai la dimensione politica legata allo stato nazionale non è più in grado di fronteggiare le crisi in atto, perché non ha un raggio di azione in grado di governare le turbolenze a cui siamo sottoposti. Fino a quando non saremo in grado di elaborare un nuovo modello politico, dunque, il sistema sarà esposto a crisi di vario tipo. Neppure le grandi potenze da sole potranno risolvere queste sfide: non ci riuscì, provando ad intervenire nel campo finanziario, l’amministrazione Obama nel 2008, né oggi può riuscirci L’America di Biden, né l’India di Modi, né la Cina di Xi. La volatilità dei grandi capitali, le ondate continue, i flussi migratori, il terrorismo internazionale, la crisi climatica, sono fenomeni per loro natura globali che i singoli Stati, da soli, non possono affrontare. Io credo che rimanere legati a al sistema degli Stati nazionali mostri l’incapacità di saper fronteggiare il futuro.
Che leadership servirebbe per riuscirci?
Innanzitutto Io credo che ci voglia una leadership coraggiosa che possa incarnare il ruolo di guida. Più o meno tutti i politici, quando arrivano al governo, sono consapevoli della direzione da assumere e capiscono la necessità di avviarla; il problema è che tutto questo richiederebbe una pedagogia sociale da parte della politica, oggi assente. Purtroppo la polarizzazione sociale che ci caratterizza oggi crea leadership che hanno cercato di sfruttare il malcontento solo a fini elettorali, per cui è estremamente difficile elaborare e proporre modelli alternativi in grado di contrastare la continua ricerca del capro espiatorio. Al contrario, una leadership dovrebbe avere il coraggio di indicare un percorso per la formazione di nuovi modelli politici, e sensibilizzare l’opinione pubblica in questo senso. Se guardo all’Italia, ricordo che più o meno vent’anni fa il paese aveva una forte fiducia verso l’Europa, ad esempio, ma poi quel periodo è tramontato, e il processo politico è attualmente bloccato da una forte polarizzazione. Anche qui sarebbe necessaria una leadership consapevole, capace di interpretare le dinamiche che stiamo vivendo.
Cosa può insegnare il pensiero ebraico davanti ai tempi di crisi?
La coscienza ebraica, dal mio punto di vista, nasce a tutela della memoria, perché si forma sulla elaborazione di un trauma.
Molti lettori staranno pensando al trauma della Shoah.
Ma non è questo il trauma su cui si elabora il pensiero ebraico! Occorre in realtà andare molto più indietro nel tempo. È Abramo, momento di nascita dell’identità, che deve elaborare il trauma vissuto in Ur dei Caldei, quando la tradizione ebraica ci racconta che stava per essere sacrificato a Nimrod da bambino e gettato in una fornace ardente. Abramo riesce a fuggire da questa condizione di violenza, e attiva un percorso di elaborazione del trauma che lo porta a immaginare un’identità fondata su ideali universali: uguaglianza, libertà, fraternità. L’identità ebraica nasce dunque da qui e mostra, a vantaggio dell’intera umanità, la capacità di uscire dal trauma; cosa che ad esempio non riesce a Noè. Anche Noè in fondo è reduce da un trauma, quello del diluvio. Solo che Noè, come purtroppo molti reduci, finisce per essere preda delle sue debolezze e del trauma vissuto; azzardando nell’interpretazione, la Torà ce ne dà l’immagine di un alcolizzato. Al contrario, Abramo mostra la capacità di sublimare il trauma nell’elaborazione di un nuovo progetto di civiltà. Non è un caso che la psicanalisi sia nata da un ebreo, Sigmund Freud.
Ma questa identità in che modo può servire di fronte alla crisi attuale?
Il tema della memoria, se ci pensi, accomuna sia la coscienza ebraica che quella europea. Quello che abbiamo visto entrare in crisi nell’ultimo ventennio in Europa è la coscienza democratica, e io credo che ciò dipenda da una crisi della memoria, la memoria costruita all’indomani della seconda guerra mondiale. Era su quella memoria – la memoria degli orrori della guerra e della Shoah – che, infatti, l’Europa ha ricostruito le proprie democrazie. Il problema oggi è come riuscire a conservare la memoria nel passaggio di generazioni. Io credo che in questo l’ebraismo possa insegnare all’occidente come conservare i propri valori. Non mi riferisco soltanto alla memoria della Shoah. Certo, noi ci domandiamo come conservare quella memoria ora che i testimoni scompaiono, ma credo che il percorso ebraico sia qualcosa di molto più ampio e non legato esclusivamente alla Shoah.
Si tratta di una strada in salita, però. Tutti i dati evidenziano infatti un aumento dell’antisemitismo in Occidente.
È vero, e sono molto preoccupato per questo. Segnalo soltanto che, ad esempio, il 2022 è stato l’anno che ha registrato un picco di attacchi antisemiti negli Stati Uniti. Oggi assistiamo a nuove forme di antisemitismo, in cui si sommano quelle di origine islamista, quelle dell’estrema destra, quelle di un antisemitismo mascherato di antisionismo che si manifestano spesso a sinistra. E poi, ecco la novità, c’è una sorta di larvato antisemitismo di Stato che sta riprendendo piede in Occidente.
A cosa ti riferisci?
Penso alla Polonia, che impedisce di accostare i lager nazisti alla storia di quel paese, fino a creare uno scontro diplomatico con Israele. Penso all’Ungheria, che erige statue in memoria dei peggiori collaborazionisti nazisti considerandoli eroi nazionali; penso al partito di estrema destra tedesco, AFD, che accusa esplicitamente il governo tedesco di erigere monumenti contro la Germania, riferendosi al museo della Shoah di Berlino e a tutti i monumenti che in quel paese ricordano la Shoah. Quando vedo questi gesti penso che stia riprendendo piede un antisemitismo di Stato, il che purtroppo non mi stupisce.
Perché?
Nella storia dell’occidente, in cui non va dimenticato nemmeno il contributo islamico – non solo per motivi geografici, ma anche culturali: nasce dal monoteismo ed è imbevuto di cultura occidentale. Pensa solo a tutti i traduttori arabi di Aristotele. Ecco, in questo quadro l’antisemitismo ha una sua specificità, che si esprime per due vie: da un lato, solo l’Occidente si è fatto portatore di una certa idea di universalismo tradotta in un’accusa agli ebrei. Fin dall’antica Grecia, infatti, passando per la storia della Chiesa, l’illuminismo, e infine il bolscevismo, questa aspirazione all’universalità si è tradotta in un rimprovero agli ebrei, accusati di essere chiusi in sé stessi, in contrasto col messaggio di fratellanza universale che si voleva esportare.
E la seconda causa di antisemitismo?
La seconda via è esattamente il contrario, confermando l’immagine dell’ebraismo come identità «di mezzo», non solo geograficamente. Tutto il filone conservatore, che nella più recente modernità è confluito nelle forme più radicali di nazionalismo e cha ha raggiunto persino forme regressive, ha rimproverato all’ebraismo di aver dischiuso quell’orizzonte universalistico poi radicalizzato dalle grandi tradizione di pensiero prima ricordate. L’ebreo diviene qui l’infiltrato che erode le tradizioni dall’interno, la quinta colonna che serve un fantomatico potere internazionale, che, assume, a seconda delle epoche connotati diversi. L’immagine ebreo come insetto infestante, come usuraio, come ingannatore, nasce da qui. Inutile sottolineare come questo armamentario di propaganda sia stato assunto nella forma più estrema dal nazionalsocialismo, che si è prefisso di estirpare questo «virus» dall’umanità in nome della sua ideologia «sangue e suolo». Il famoso «radicamento» di cui parla il filosofo Martin Heidegger.
Anche il nostro paese non è immune da un aumento di antisemitismo. Il problema diventa innanzitutto politico, dal momento che alla guida del governo c’è la leader del partito più a destra di quelli presenti in Parlamento. Giorgia Meloni ha più volte condannato le leggi razziali e si è schierata dalla parte di Israele. Come giudichi dunque la sua leadership al tempo della crisi attuale?
Se si prende atto che, come dicevo all’inizio, non per scelte ideologiche, ma per una necessità storica, si deve elaborare un modello politico che superi i confini dello Stato nazione, questo seleziona già il tipo di leadership che sarebbe necessaria anche al nostro paese. Al contrario, non credo che la leadership politica espressa da Giorgia Meloni, come in precedenza da altri leader del centrodestra, offra un modello adeguato ai tempi di crisi che stiamo vivendo, in quanto tutta incentrata su modelli identitari che si rifanno alla tradizione nazionale. Detto questo, se mi sforzo di effettuare un esame più analitico, credo che Giorgia Meloni non voglia ripetere gli errori compiuti da altri. Penso alla caduta di Matteo Salvini, che si accodò ad un progetto di cambio di sistema.
Quale?
Quello elaborato da Viktor Orban. Già alle elezioni europee del 2019 il leader ungherese cercò di attrarre i partiti di centro verso una sfera di influenza della destra, ma l’operazione fallì qui per la netta opposizione di Angela Merkel. Rispetto ad allora non mi pare che oggi ci siano le condizioni per ripetere quell’operazione. Principalmente per due motivi: nel frattempo Orban ha subito un’emarginazione a livello europeo con l’espulsione dal Partito Popolare; secondo, la guerra in Ucraina ha rotto il fronte di Visegrad da lui sapientemente creato. Orban, oggi, è percepito come cavallo di Troia della Russia in Europa, posizione che i polacchi non potranno mai accettare. In ogni caso, si tratta di percorsi di lungo periodo, la partita delle elezioni europee del 2024 si giocherà ancora su questa sfida: un fronte identitario contrapposto ad uno legato ai valori della democrazia liberale.
E se invece centro e destra dovessero unirsi, che prospettive avrebbe l’Europa, e in particolare l’Italia?
Non credo sia una questione di destra e sinistra. A meno che qualcuno non voglia riproporre un’idea di cambio disistima con argomenti come uscita dall’Euro e, oggi, vicinanza alla Russia, il percorso è obbligato per chiunque governi, che, però, sarà sempre condannato a fare i conti con repulsioni interne alla propria nazione. I dati sono più strutturali. Vorrei ricordare un filosofo milanese scomparso da poco, Fulvio Papi. Era l’ultimo erede di una scuola filosofica milanese, bene ancorata nel contesto europeo, allievo di Antonio Banfi, seppure mai stato comunista. Data l’incapacità di dar vita al progetto europeo, unico in grado di avere le risorse economico-politiche per fronteggiare i problemi del nostro tempo (le crisi di cui parlavamo prima) secondo Papi, siamo destinati ad un più o meno rapido declino, con uno scenario sud-americano nel Vecchio Continente, ossia una serie di Stati falliti, che si affidano al Fondo Monetario Internazionale perdendo l’ultimo residuo di sovranità. Io credo che questo sia il pericolo che dobbiamo evitare.
Torniamo allora a Giorgia Meloni. Pensi che la sua leadership sia in grado di contrastare questi rischi?
Come ti dicevo, non credo che la Meloni cadrà negli stessi errori compiuti da Salvini. Al contrario, mi sembra che sia orientata ad un progetto che prevede la costruzione di una grande forza politica conservatrice e presentabile all’opinione pubblica. Vedo in lei però anche due grandi limiti.
Quali?
Il primo è che il suo zoccolo duro, la sua base elettorale, fortemente radicata a un passato incompatibile con quanto serve per affrontare i tempi di crisi attuali. Mi riferisco chiaramente alla nostalgia per il movimento sociale, e ancora prima per le radici fasciste in cui esso è nato. In fondo, se ricordi, anche Gianfranco Fini tentò di avviare Alleanza nazionale verso un orizzonte più moderato, e si è visto che fine ha fatto.
E il secondo limite?
La stessa Meloni, in un passato piuttosto recente, ha seminato nell’opinione pubblica idee molto radicali, tutte orientate alla ricerca del capro espiatorio e venate di un sottile antisemitismo e razzismo. Mi riferisco ai suoi legami con Orban, e agli attacchi a George Soros, alla sua politica di fatto contro gli immigrati. Per questo Io credo che alla fine il suo progetto fallirà, anche se non me lo auguro, perché davvero al nostro paese servirebbe una destra moderata e liberale. Tuttavia, se guardo la storia d’Italia, vedo che una destra del genere negli ultimi 100 anni non è mai esistita. Inoltre credo che Giorgia Meloni non possieda quegli strumenti culturali necessari per poter interpretare i tempi di crisi attuali. Per questo non mi stupirei se anche lei, come Salvini, Conte, Renzi, subirà a breve una crisi di consenso.
L’ultima domanda che vorrei farti riguardo alle prospettive di Israele, che ha visto il ritorno al governo di Netanyahu.
Sono molto preoccupato anche per il futuro di Israele. Per molti versi il paese subisce la stessa dinamica polarizzata che abbiamo visto in corso in Europa, qui incarnata dalla figura di Netanyahu. C’è però un elemento in più: i processi che lo vedono imputato. La sua vicenda giudiziaria, infatti, l’ha costretto ad accettare l’alleanza con partiti sempre più estremi, che non appartengono neppure alla sua identità politica, lui che proviene da una destra laica. Ma la necessità di tornare al governo, l’unico modo per sospendere i processi che lo riguardano, e che seriamente rischiano di portarlo in carcere, l’ha costretto a venire a patti con queste forme estreme di destra. In questo momento Netanyahu sta subendo un ricatto di forze dai caratteri suprematisti e razzisti, con sentimenti di odio verso la popolazione araba. Tutto questo inevitabilmente porterà Israele a delle forti tensioni non soltanto al proprio interno, ma anche sul piano internazionale: mi riferisco agli accordi di Abramo, per esempio. Come potranno, gli Stati arabi firmatari, accettare di mantenere in piedi quegli accordi se Israele dovesse avviare una politica fortemente ostile verso la propria popolazione araba? E come potrebbe l’amministrazione americana accettare una simile politica, che renderebbe ancora più instabile la regione, quando ha da tempo espresso la volontà di alleggerire la propria presenza nell’area, per orientarsi in un’altra zona del mondo, quella dell’indo pacifico? Anche Israele, oggi, esprime una leadership a mio avviso incapace di affrontare e governare i tempi di crisi che abbiamo davanti.
*nell’immagine di copertina: Shimon Peres e Yitzhak Rabin
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