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La nuova Presidenza Biden: quali propsettive per Israele?, di Enrico Campelli

Che le elezioni statunitensi siano legate a doppio filo con la politica israeliana non è una novità.

La strada necessaria per ottenere la candidatura presidenziale, sia nelle file repubblicane che in quelle democratiche, passa infatti anche attraverso il complesso “israeli test”, in cui il/la candidato/a dimostri di essere sufficientemente vicino alle posizioni israeliane e non inviso al numeroso elettorato ebraico statunitense. Le ragioni di un simile collegamento vanno appunto ricercate in una doppia motivazione.

La prima, di natura endogena e numerica, è legata alla forza dell’elettorato ebraico negli Stati Uniti, capace di muovere molti finanziamenti per le campagne presidenziali e di mobilitare un numero non indifferente di elettori.

La seconda, più legata alla contingenza politica mediorientale, vede in Israele un alleato fondamentale per gli Usa nella turbolenta regione mediorientale, ed è dunque legata al mantenimento degli interessi economici e politici statunitensi in una area politicamente ed istituzionalmente complessa, contraddittoria e generalmente calda.

Nel caso della sfida Trump/Biden si è spesso parlato di una elezione dall’esito win-win per l’ebraismo americano ed Israele, con il Presidente uscente che molto si è speso per l’alleato israeliano negli anni della sua presidenza e con un Biden storico amico di Netanyahu e dichiaratamente vicino alle posizioni israeliane e alle istanze ebraiche americane.

Analizzando il contesto mediorientale e statunitense, e senza la pretesa di avanzare previsioni certe, è possibile immaginare alcune direttrici della prossima presidenza statunitense relativamente ad Israele e, più in generale, al contesto regionale. Innanzitutto, va sottolineato come, soprattutto nel caso statunitense, la politica non possa essere separata dalla personalità del nuovo inquilino della White House, ed è dunque lecito immaginarsi una presidenza statunitense più cauta e politicamente centrista della precedente, attenta allo status quo e non desiderosa di sconvolgere il quadrante geopolitico regionale.

La questione palestinese rappresenta per gli Usa una rischiosa polveriera da maneggiare accuratamente ed è prevedibile che Biden non abbia intenzione di mettere la questione israelo-palestinese al centro delle sue politiche estere, almeno nella fase iniziale del suo mandato. È quindi assai probabile che la nuova presidenza si muova in un solco di ideale continuità con l’amministrazione precedente, ma con modi e toni marcatamente diversi. A questo proposito, l’ambasciata Usa, spostata da Tel Aviv a Gerusalemme da Trump, rimarrà presumibilmente nella sua nuova sede ed è scontato che il neoeletto Presidente continui la scia di successi diplomatici degli Accordi di Abramo siglati da Israele e EAU, Bahrein e Sudan, con la mediazione americana.

Sul fronte opposto, Biden riaprirà quasi certamente l’ambasciata palestinese a Washington, chiusa dal suo predecessore, ripristinerà i fondi all’UNRWA, da sempre al centro di grandi polemiche, e proverà a limitare la costruzione di nuovi insediamenti che superino i confini del 1967. Per quel che riguarda la leadership palestinese, è prevedibile che Biden provi anche a supportare l’ennesimo tentativo di riconciliazione palestinese tra Hamas (a Gaza) e Fatah (in West Bank). A questo proposito è interessante notare come a seguito dell’elezione di Biden (o della sconfitta di Trump), l’Autorità Palestinese abbia deciso di ripristinare la cooperazione con le forze di sicurezza israeliane in West Bank, inaugurata dagli accordi di Oslo del 1993 e interrotta a causa dell’ipotesi di annessione di ampie porzioni della West Bank, paventata recentemente dall’Esecutivo israeliano e poi congelata nell’ambito degli Accordi di Abramo.

Per quel che riguarda il piano di Pace Trump, rigettato unanimemente dalla Lega Araba e dalla divisa leadership palestinese, è probabile che Biden non spinga troppo sull’acceleratore, giocando le sue carte con nuovi accordi diplomatici (quello con l’Arabia Saudita sembra infatti essere dietro l’angolo) e in un generale basso profilo, legato anche all’incerto futuro del Governo Netanyahu-Gantz.

Se dunque le politiche di breve e medio periodo di Biden saranno probabilmente caratterizzate dalla ricerca di un agire politico centrista e moderato, correndo però il rischio di rincorrere eccessivamente la situazione de facto, la vera incognita rimane, più in generale, la posizione che il nuovo Presidente vorrà invece mantenere nei confronti dell’Iran e, più nello specifico, nei confronti dell’accordo sul nucleare firmato dal suo predecessore democratico Obama e poi bloccato dalla presidenza Trump.

Se da un lato è infatti vero che Biden aveva giocato un ruolo importante nell’architettura del precedente accordo firmato da Obama, è evidente anche al nuovo Presidente come la situazione regionale sia nel tempo cambiata e che qualsiasi nuovo accordo debba essere riformulato alla luce dei nuovi equilibri di forza mediorientali, complicati ulteriormente dalla recente morte di Fakhrizadeh-Mahabadi, scienziato a capo del programma nucleare iraniano e Brigadiere generale dei Guardiani della Rivoluzione islamica. Va detto tuttavia che lo scacchiere medio-orientale, con la molteplicità di variabili che lo caratterizza, possiede la singolare capacità  molte volte emersa in passato di repentini cambiamenti locali, che come in un rischioso gioco del domino possono ridefinire improvvisamente il quadro complessivo e magari ribaltare previsioni attendibili. Mai come in questo caso sarà necessario, quindi, il monitoraggio più continuo ed attento dei processi reali e della storia concreta.

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