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La nostra identità vive lacerazioni pericolose

Rav Roberto Della Rocca riflette sul nostro tempo, in cui la crisi politica e sociale che viviamo non risparmia nemmeno l’ebraismo italiano

Roberto, il tuo ultimo libro (“Camminare nel tempo”, Giuntina, 2022) è una sorta di diario, lungo alcuni anni, con cui rifletti ad alta voce su temi di grande attualità che interrogano noi ebrei. Vorrei allora cominciare questo dialogo dalla memoria e dal Giorno della memoria. Cosa dice a noi ebrei e a una società sempre più “distratta”? E perché scrivi che non tutte le memorie si equivalgono?

rav Roberto Della Rocca. Laureato in giurisprudenza, è stato rabbino ad Ancona e rabbino capo a Venezia. Insegna Talmud e Pensiero Ebraico presso il Collegio Rabbinico Italiano. È direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’UCEI

Il Giorno della memoria è riuscito a diffondere nella nostra società una sensibilità e consapevolezza che erano sconosciute alle giovani generazioni, anche grazie al lavoro delle scuole e degli insegnanti; tuttavia continua a essere molto inquietante l’immagine di un ebreo come vittima, che non include quegli aspetti vitali e normali, ovvero relativi ad una vita comune scandita dalla quotidianità e che non aiuta a comprendere la ricchezza e la complessità della storia e dell’identità ebraica. Il problema, e la domanda, diventano allora come questa informazione venga trasmessa e in che modo possa suscitare interesse, sensibilizzare e costruire una coscienza etica attiva e quotidiana. Quale ruolo deve avere la Memoria? Come può essere educativa? Qual è il nostro dovere di fronte a queste constatazioni e domande? Come anche ci insegnano fiumi di letteratura ebraica, per essere educativa una memoria deve svolgersi al presente e deve quindi poter rispondere alle domande del singolo e del gruppo nella sua contingenza. Una politica educativa basata sulla semplice commozione non riesce a sensibilizzare l’altro se non si riesce a porre questa storia in un contesto presente, più ampio e comune. Se il messaggio principale che vogliamo imprimere con il 27 gennaio è quello di non adagiarsi all’INIDIFFERENZA, allora dovremmo valorizzare maggiormente il rispetto della DIFFERENZA.

L’ingresso del memoriale Binario 21

A cosa ti riferisci?

Sono convinto che dobbiamo lavorare sia all’esterno che all’interno del mondo ebraico.

Cominciamo dall’esterno. Dove intervenire?

Il “Giorno della Memoria”, che si ripete ogni anno il 27 gennaio ed è legge dello Stato, dovrebbe incoraggiare momenti di riflessione e prese di posizione della società civile affianco agli ebrei che sono i diretti testimoni dei propri cari crudelmente macellati. Gli ebrei non vogliono implorare pietà, sollecitano piuttosto vigilanza e si battono contro l’oblio e l’indifferenza. Tramandare la specificità della Shoah non significa rifugiarsi nel passato né tantomeno chiudere gli occhi di fronte alle tragedie che si svolgono ogni giorno dinanzi a noi. Saper trarre lezione dal male per volgerlo in bene è uno dei più importanti imperativi ebraici. Il ricordo delle proprie sofferenze – se non si vuole sia sterile – deve aprire l’animo alle sofferenze altrui. Il diritto-dovere della specifica memoria ebraica può e deve convivere accanto al diritto di ogni altro gruppo umano che coltiva la propria storia per sopravvivere come collettività. Possono coesistere nella stessa società memorie distinte, ma è sempre sbagliato forzare simmetrie, condivisioni o intercambiabilità.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del Giorno della Memoria, Roma, 27 gennaio 2023.
(ANSA)

La “par condicio” non può essere applicata alla memoria, come non ci è consentito promuovere una competizione tra diverse sofferenze. Le memorie infatti non si equivalgono, semmai si confrontano. Spesso l’informazione frettolosa tutto assimila e confonde, è invece importante riflettere sulle parole, conoscere nel senso di distinguere, e capire nel senso di separare. Nel dibattito in corso su “l’unicità della Shoah” viene addirittura imputato a molti ebrei di essere testimoni di una cultura nazionale, in contrapposizione ad altre culture “universali”. La contrapposizione tra universalismo e particolarismo è per molti versi una lettura della realtà estranea alla Tradizione ebraica per la quale non esiste una dicotomia tra universale e particolare.

E all’interno del nostro mondo?

Fabio Fazio e Liliana Segre nell ospeciale Rai del 27 gennaio al Binario 21

Da parte ebraica, temo il pericolo che la “religione della shoah” sostituisca i valori fondanti della identità ebraica, come lo shabbat. È un pericolo che contagia molti ebrei, che sentendosi oggetto di attenzione pochi giorni all’anno, fanno confusione e privilegiano un vettore identitario, quello della memoria della Shoah, che seppur drammatico costituisce un impegno meno oneroso rispetto a una militanza ebraica proattiva e autoreggente. In questo senso la celebrazione della Shoah rischia di trasformarsi, anche per gli stessi ebrei, in una sorta di scorciatoia identitaria. Questo anno per esempio in cui la sera del 27 gennaio coincide con il nostro shabbat, è nel pieno diritto della Rai, il servizio nazionale di informazione, mandare in onda durante lo shabbat una trasmissione importante sulla shoah, ma questo non dovrebbe distogliere molti ebrei dall’esercitare il loro dovere di scandire il tempo festivo dello shabbat. Ed è un dovere dei rabbini italiani ricordare alle comunità ebraiche la priorità di questa memoria positiva per la quale lo shabbat resta un valore e un paradigma identitario, non solo religioso e indipendentemente da quanti ebrei rispettano lo shabbat.

Queste tue riflessioni mi portano a sollecitarti ancora sui nostri tempi. Tu scrivi che viviamo in un mondo in cui predomina un “edonismo sfrenato e falsa spiritualità” (p. 139) e che per resistere dobbiamo “imparare a pensare da ebrei”. Che significa?

il presidnete Mattarella in visita al Tempio maggiore di Roma, febbraio 2020

L’ebraismo è essenzialmente un modo di concepire il mondo e la vita attraverso dei comportamenti dettati da norme e regole. Gli eventi della storia ci hanno portato a confrontarci con diverse forme culturali, dando luogo a diversi orientamenti. Ne sono nati costumi e comportamenti, a volte molto diversi, ma tutti accomunati nell’intimo da una stessa radice tradizionale, che caratterizza la nostra specificità e condiziona i nostri comportamenti sociali. Nei Pirkè Avot è scritto che durante l’oppressione romana Rabbì Yochanan dice che occorre pregare per il governo, altrimenti gli uomini si divorerebbero. Questo significa che il nostro approccio al mondo è stato sempre complesso; da un lato abbiamo sempre collaborato con persone appartenenti ad altre fedi e ad altre culture, ma allo stesso tempo abbiamo preservato la nostra identità, che comprende momenti di separazione. Noi siamo dentro la società civile, ma al tempo stesso ci manteniamo diversi. Pensa ad Abramo, che dice ai cananei: “Io sono presso di voi uno straniero residente”. È un ossimoro, che descrive bene la nostra condizione nel mondo. Da sempre noi ebrei dobbiamo conciliare queste due dimensioni opposte: quella di essere stranieri e residenti. E infatti Abramo inoltre scava pozzi d’acqua: ci insegna che dobbiamo collaborare per il bene comune e rispettare l’autorità.

Isacco Pesaro Maurogonato, senatore del Regno d’Italia, fu uno dei primi ebrei impegnati nella vita pubblica a essere accusato di non essere fedele allo Stato per la sua identità ebraica

La nostra partecipazione alla vita pubblica però non deve portare a nessun rinuncia della nostra cultura. I nostri nemici hanno spesso utilizzato questa nostra complessità per costruire uno dei più grandi topos antigiudaici, quello della “doppia lealtà”. Oggi dovremmo acquisire maggior forza e autorevolezza per far conoscere la nostra identità e la nostra cultura – fondata dai tanto deprecati farisei –, e far capire che essa promuove, ad esempio, il principio del risarcimento del danno ingiusto anziché la ritorsione e la vendetta; favorisce la regola della maggioranza, anche laddove ci sia una disputa tra maestri; o, ancora, difende sempre l’opinione della minoranza. Al contrario, se la cultura ebraica resta passiva e non vissuta, e diventa irrilevante, un complemento relegato ai ritagli di tempo, alla fine rischiamo di non reggere la pressione sociale della realtà circostante.

Come rimediare?

Purim in Israele

Occorre non leggere la nostra storia come un cannocchiale rovesciato. Pesach non è la “pasqua” ebraica, e Purim non è il “carnevale” degli ebrei. Dobbiamo riappropriarci dei nostri codici linguistici, visto che oggi, fortunatamente, non siamo più costretti a essere relegati a una condizione subalterna. Non siamo più ebrei per costrizione eteronoma, ma abbiamo l’obbligo della scelta, che comporta più fatica. Il primo dei vettori per difendere la nostra identità è lo studio della nostra Tradizione, che non può essere solo accademico, ma empirico, esperienziale, per vivere meglio e più consapevolmente da ebrei, e per ragionare e parlare da ebrei.

A proposito della relazione con gli altri: tu scrivi che occorre “Occuparsi ebraicamente di mondo e politica” (p. 58); e che “si deve fecondare ebraicamente questo tempo” (p. 72). Dunque agli ebrei non è vietato di occuparsi del bene pubblico, fuori di Israele?

Partiamo dal principio che ogni uomo è stato creato a immagine di Dio; non solo l’ebreo, quindi. Questo comporta la possibilità, e anzi la necessità, di agire per aiutare il prossimo, chi ha più bisogno. La politica allora è un mezzo, non un fine. Dobbiamo essere consapevoli che la politica deve essere un mezzo per migliorare le condizioni di chi sta peggio di noi; quando invece diventa una competizione per fini personali, chiaramente non si coniuga più con i valori ebraici.

a Milano da anni la comunità è impegnata nel volontariato per la città (nella foto, a sinistra, l’ex presidente, Roberto Jarach)

Eppure, metti in guardia dal rischio di compromessi che possono annacquare la nostra identità, e citi Giuseppe e Mordechai, che hanno dovuto affrontare tali rischi. Come si fa a trovare il giusto equilibrio?

Come dicevo, la cultura ebraica prevede una partecipazione sociale e una sensibilità verso le categorie più deboli e sfavorite, quelle che hanno bisogno. Yosef e Mordechai, è vero, hanno corso continui rischi, ma restano esempi virtuosi di questa capacità di unire la tutela della propria identità con l’agire nel mondo. Certo, occorre sapersi mettersi in gioco. E per questo bisogna essere ben equipaggiati e avere le spalle larghe, Quando Mosè dice a Giosuè: “Esci a combattere Amalek”, gli insegna che bisogna uscire dalla nuvola, dalla propria “confort zone”. Più uno è forte è radicato nella propria identità, e più può mettersi in gioco e accettare i rischi.

A questo punto dovremmo parlare dei caratteri della leadership. Tu scrivi che un “Leader deve sapersi relazionare con tutte le varie e diverse posizioni”, (p. 179) e che la “solitudine del leader è sinonimo di crisi profonda, quando non si riesce a dialogare”. (p. 186). A me sembra che il mondo ebraico italiano, nonostante i numeri così piccoli che lo costituiscono, sia estremamente litigioso, e che ogni leader sia oggetto di totale approvazione, o, al contrario, di totale contestazione. Vorrei chiederti allora come giudichi le fratture dentro la nostra comunità.

Renzo Gattegna, per 10 anni presidente Ucei, esempio positivo di leadership ebraica

Io credo che oggi, in generale, non solo nel mondo ebraico, ci sono delle forme di radicalizzazione identitaria molto estreme. C’è una polarizzazione in corso. In passato le nostre comunità erano un po’ come autostrade, che riuscivano a contenere ebrei che andavano “a velocità diverse”, nell’impegno ebraico e nell’identità. Oggi invece è molto difficile garantire questa pluralità che vada bene a tutti.

Come mai?

La nostra comunità è strattonata tra identità e seduzioni assimilazioniste, tra dentro e fuori. In questa condizione, creare un nesso di unità tra le varie anime dell’ebraismo italiano, e creare un senso collettivo, è molto difficile. Così proliferano progetti centrifughi rispetto al modello istituzionale centralizzato. Registro al riguardo due elementi.

Quali?

Piazza Roma
La “Piazza”, da sempre ombelico della comuntà romana. Oggi i punti aggregativi sono però in molte altre parti della città

Il primo è che forse è venuto il tempo di pensare nuovi modelli di comunità. Quello in essere appare obsoleto. Se penso a Milano, ma anche a Roma, vedo che già è in corso un tentativo di pensare un nuovo modello, una confederazione di comunità che hanno priorità diverse.

E il secondo?

I problemi oggi vengono affrontati da un’angolatura sempre più ideologica tale da generare polemiche improduttive e distruttive, spesso figlie di logiche di schieramento e di etichette preconfezionate. C’è una moltiplicazione di ghetti e una resistenza a confrontarsi con chi è diverso da me. Eppure l’ebraismo italiano è stato a lungo unico nel suo genere, perché plurale, ma unitario nella sua pluralità, dove si riusciva a parlare tutti dentro lo stesso contenitore. Oggi invece molto spesso i progetti alternativi rischiano di generare personalismi, con cortigiani annessi. A volte nascono gruppi di rivalsa verso la leadership istituzionale, oppure all’opposto, prevale una perniciosa ricerca di una cultura del consenso. Credo che tutto ciò sia il sintomo di identità fragile che non riesce a reggere il confronto con l’altro.

Ricordiamoci dei fratelli che buttano Giuseppe nel pozzo vuoto. Nel pozzo ci sono serpenti e scorpioni: quando un contenitore si svuota, si trasforma in uno spazio insidioso e pericoloso; quando mancano i contenuti, diventiamo noi stessi serpenti e scorpioni e ci facciamo del male. M piacerebbe, senza nostalgia, di vedere ancora un laboratorio di confronto e di studio, come fu il circolo Weizmann degli anni ‘60, dove interlocutori di spessore e di diversa provenienza sociale e culturale si confrontavano su tutto anche in modo serrato e animato.

Vorrei chiudere questo dialogo parlando di Israele. Tu scrivi che spesso per noi ebrei della diaspora Israele è un parco giochi. Come dovremmo invece confrontarci con lo stato ebraico?

Proclamazione Stato Israele
Ben Gurion proclama la costituzione dello Stato di Israele (17 maggio 1948)

Oggi lo Stato di Israele costituisce il punto nodale dell’insofferenza mostrata dagli antisemiti, che ci mette quindi sempre sulla difensiva. Ci troviamo continuamente costretti a ribadire al mondo occidentale che il popolo ebraico e lo Stato di Israele rappresentano una risposta all’antisemitismo e all’assimilazionismo, che poi è l’altra faccia dell’antisemitismo. Non è vero che Israele sia nato come risarcimento della shoah. Israele nasce malgrado la shoah, perché la shoah non è risarcibile. Israele, nonostante tutti i suoi problemi, continua a essere una realtà che racchiude una complessità di tutte le differenze del mondo, rappresentando l’unità di storie e culture diverse, accomunate da un ebraismo plurale. Non esiste un mitico Stato d’Israele ideale. Esiste Israele con le sue potenzialità e con i suoi limiti, alle prese con problemi tra i quali primeggia quello della sua legittimazione internazionale. Oggi dovremmo allargare i nostri orizzonti mentali; dovremo uscire da una certa retorica e cogliere la fertilità feconda di questo piccolo grande paese: scientifica, culturale, sociologica, religiosa. Per riuscirci, non possiamo più trascurare la lingua ebraica. La lingua resta il vero ponte tra un ebraismo passato, presente e futuro; il ponte tra sacro e quotidiano. Oggi bisogna fare esperienza di questa realtà, e capire che Israele non può essere solo un luogo di vacanza.

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