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Israele dopo il voto: che succede ora?

Claudio Vercelli analizza per Riflessi i risultati del voto in Israele, in attesa di vedere nascere il nuovo governo di Netanyahu

la Knesset, il Parlamento israeliano

I risultati elettorali del quinto passaggio alle urne, in poco più di tre anni, sono sufficientemente chiari. Anche per questa ragione, una volta inaugurata la venticinquesima legislatura, si possono ora fare i primi bilanci, fermo restando che il cammino del governo a venire sarà comunque in salita, dovendosi confrontare non solo con l’inevitabile conflittualità tra i suoi partner (che nel passato si è tradotta, in più di un caso, anche in episodi di rissosità) ma anche con l’oggettiva difficoltà di mantenere in vita maggioranze parlamentari che sono comunque il risultato di larghe coalizioni. La larghezza, in questo caso, non sta tanto nel numero di partiti che ne faranno senz’altro parte (la previsione è di quattro), ma nei molteplici interessi contrapposti di cui sono portatori.

le prime proiezioni del voto, poi sostanzialmente confermate dallo scrutinio delle schede.

Il riscontro che sempre vi sia stato, dal 1948 ad oggi, un partito di maggioranza relativa (oggi il Likud, con trentadue seggi; nel passato, oramai trascorso, il Labour), all’interno però di un sistema di rappresentanza rigorosamente proporzionalista, ne riduce l’incisività dell’azione politica, obbligandolo a raccogliere gli assensi degli alleati, anche di quelli minori, essenziali per vedere assicurato il consenso maggioritario alla Knesset. Inutile dire che in un tale sistema elettorale, il potere di condizionamento delle componenti più piccole che a volte si trasforma in capacità di ricatto, ne può risultare amplificato. E di molto. Ma quello che a prima vista può risultare un vizio d’origine, che come tale andrebbe quindi corretto, è in realtà espressione della volontà di mantenere un complesso sistema di equilibri tra l’esecutivo, il legislativo e, in immediato riflesso, con il potere giurisdizionale.

Ben Gvir

La necessità di evitare governi “forti” (ossia troppo autonomi dal resto delle istituzioni) e il baricentramento sulla contrattazione parlamentare, in un Paese dove la presenza partitica (e sindacale) è stata a lungo molto forte, aspirando come tale a rappresentare le diverse istante espresse dalla società, hanno di fatto reso improponibili riforme (ad esempio quella tentata alla fine degli anni Novanta con l’elezione diretta del Premier) volte a trasformare il sistema elettorale. Affaticando inoltre l’intelaiatura istituzionale dei poteri che, ancora oggi, sconta l’assenza di una Costituzione, largamente osteggiata da sempre dai partiti cosiddetti “religiosi”.

Quanto detto serve ad inquadrare quel processo di instabilità permanente che, soprattutto negli ultimi anni, si era tradotto nell’impossibilità di dare vita duratura a solide maggioranze parlamentari, con il ripetuto richiamo degli elettori alle urne.

Smotrich. Lui e Ben Gvir rappresentano gli alleati “più scomodi” nel nuovo governo di Netanyahu

Il voto del 1° novembre sembra avere finalmente interrotto questo costante scivolamento verso il vuoto, decretando la netta vittoria di Benjamin Netanyahu. Il quale ne è uscito confermato – avendo alle spalle già ventisei anni di alternanza tra premierato ed opposizione, fatto che lo consegna ad essere il più longevo capo di governo d’Israele – non tanto per il successo del suo partito, un Likud fortemente schiacciato sul suo carisma personale, che ha raccolto il 23,41% dei voti e trentadue seggi (due in più della precedente legislatura), quanto per l’avere accettato, e quindi vinto, un passaggio elettorale che, ancora una volta si è rivelato essere soprattutto un referendum sulla sua persona. Poiché ancora una volta «Re Bibi», golden boy della politica israeliana, governerà ma, si intende, all’interno di una coalizione che dovrà accordare alleati tra di loro in competizione e con piattaforme per nulla coincidenti.

Yaer Lapid, premier uscente

Infatti più che di una netta vittoria delle destre, che pur sussiste sul piano della ripartizione dei seggi, sarebbe meglio parlare di sconfitta del variegato fronte di oppositori, che si sono presentati alle urne in maniera sparsa, incapaci di formare, almeno tra una parte di essi, un cartello elettorale che potesse risultare premiante sul versante della traduzione dei voti ottenuti dalle urne in scranni alla Knesset. Così nel caso delle sinistre, dove i laburisti di Merav Michaeli (3,69%) e il Meretz di Zehava Gal-On (che ha mancato la soglia di sbarramento del 3,25% per 3.800 voti) hanno perso complessivamente nove dei tredici seggi ottenuti nel 2021. Oppure del voto arabo, che se ha premiato il partito islamista Ra’am (4,07%, con cinque seggi), ha sancito la distanza dall’altra formazione d’area, Hadash-Ta’al (3,75%, anche in questo caso con cinque seggi) e la definitiva conclusione della loro esperienza di confluenza nel cartello elettorale arabo che, in altre tornate elettorali, aveva invece premiato le liste “etniche”, permettendole di garantirsi almeno una quindicina di seggi.

Michaeli, leader del Labur

Peraltro, la presenza araba alle urne è stata molto più contenuta di quella ebraica. Nel complesso, gli elettori che hanno votato sono stati il 70,63%, ossia il 3,19% in più delle passate elezioni. Non di meno, il buon risultato di Yesh Atid (11,78%, con ventiquattro seggi, sette in più della tornata precedente), se conferma il trend di una parte dell’elettorato non conservatore, orientato a premiare un partito di centro laico e secolarizzante, viene tuttavia ottenuto svuotando una parte del serbatoio di consensi della sinistra riformista, confluiti ora nella formazione di Yair Lapid. In altre parole, Yesh Atid non pare ottenere nuovi voti da un perimetro a sé esterno ma ne travasa nel suo contenitore politico, di fatto cannibalizzandoli, quelli dei suoi potenziali alleati. Potrà agire quindi in Parlamento come una forza di opposizione robusta ma concretamente isolata.

Israele lo scorso Yom Hazmaut

Tuttavia, il vero successo è quello del futuro alleato “pesante” di Netanyahu, il cartello elettorale di Sionismo religioso (che nasce dalla confluenza di partiti preesistenti), che sotto l’egida di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir si è garantito il 10,83% e quattordici seggi (di fatto otto di più della legislatura precedente). Il radicalismo di questa formazione è conclamato ed esplicitato su tutta una serie di questioni aperte: il futuro dei territori contesi, il rapporto con la componente araba del Paese, il tema dei diritti civili, dell’autonomia della magistratura, il ruolo della religione nell’identità nazionale, la stessa questione dei confini del Paese. Sono dossier strategici, peraltro non da adesso, che si coniugano sia al complesso sistema di relazioni politico-diplomatiche costruito in questi anni con diversi paesi arabo-musulmani (e che hanno portato agli «accordi di Abramo») sia con la controparte palestinese. Tuttavia, la loro declinazione assumerà nuovi connotati, e comunque un rinnovato vigore, nel momento in cui la maggioranza che dovrebbe costituirsi (Likud, Sionismo religioso, Shas e United Torah Judaism, per sessantaquattro seggi complessivi), voterà il nuovo esecutivo.

il presidente di Israele, Herzog

A tale riguardo, trattandosi di un governo di destre (prima ancora che «di destra») ovvero che unisce in sé il nazionalismo, il populismo, l’identitarismo e il calco della religiosità conservatrice, decisivo risulterà vedere da subito quale sarà la distribuzione dei dicasteri e delle relative deleghe nonché a quali persone saranno assegnati gli incarichi ministeriali.

 

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