Haiim AmsalemIl tempo della crisi: istruzioni per l’uso
Rav Mino Bahbout, in questa intervista a tutto campo, offre la sua lettura del tempo di cambiamento che stiamo vivendo: dalla cura del pianeta alla guerra, da Israele all’ebraismo italiano
Rav Bahbout, vorrei provare a dialogare con lei sul tempo del cambiamento che stiamo attraversando, in varie direzioni. Per cominciare, pochi giorni fa si è celebrata la giornata mondiale della Terra: qual è il rapporto tra pensiero ebraico e natura?
La natura svolge un ruolo fondamentale e quotidiano nella vita di un ebreo, a partire dal cosmo: pensi al nostro rapporto con gli astri e i pianeti. È il tempo legato al cosmo che ci detta i tempi delle preghiere giornaliere, dello shabbat, del capo mese; per non parlare dell’anno sabbatico, in cui non si lavora la terra, ma la si lascia crescere incolta. C’è, poi, a un secondo livello, il rapporto con il cibo, con la terra che ci dà nutrimento: qui il rapporto continuo con la natura non è solo intellettuale, perché il cibo diventa parte integrante di noi. Il cibo, inoltre, ci richiama al rapporto con il prossimo: pensi alla regola di lasciare l’angolo del campo incolto, per dare modo ai più poveri di trovare nutrimento. I precetti legati ai frutti della terra sono talmente tanti che noi siamo quotidianamente “costretti” a relazionarci con la natura: pensi all’obbligo di recitare una berakhà la prima volta che torniamo al mare nella nuova stagione, o all’obbligo di recarsi dove si trovano gli alberi in fiore per benedire la nuova stagione, o le benedizioni che pronunciamo quando vediamo l’arcobaleno, o ascoltiamo il rumore di un tuono. L’uomo è costantemente davanti alla natura. Sappiamo che in Israele quando nasceva un bambino o una bambina si piantava un albero, poi con i rami di quest’albero si costruiva la chuppà del matrimonio del bambino: c’era quindi un rapporto costante con la natura, fin dal momento della nascita. La città non è certamente il luogo più adatto per stabilire un rapporto con la natura, perché l’ambiente che circonda le nostre case il più delle volte è una specie di maschera; per questo, occorre cercare di uscire dalle città. Frequentare la natura vuol dire anche fare esperienze dei boschi, dei fiumi, dei mari. Insomma: sarebbe bene che ciascuno di noi avesse un rapporto costante con la natura. E tuttavia c’è una differenza tra noi e il mondo: sebbene l’uomo sia stato creato e sia immerso nella natura, ha la capacità di manipolarla, quindi noi non siamo sullo stesso piano della natura. In altre parole, abbiamo nei suoi confronti una responsabilità.
Ad esempio?
Oggi quello che manca è sostanzialmente un progetto, cioè la volontà di costruire un rapporto fertile tra noi e la natura, il quale deve iniziare fin dalla nascita. È quando i bambini sono piccoli che si può instaurare un rapporto positivo con l’ambiente. Al contrario, se cominciamo a renderci conto del mondo che ci circonda da adulti, non riusciremo a creare un legame positivo. Tutto questo lo impariamo dalla Torah: Adamo viene messo al centro del Giardino, ne viene nominato custode, ossia responsabile: sta a lui decidere se conservare il Giardino, o se rovinarlo. Oggi, come allora, dobbiamo sapere che se distruggiamo la natura, nessuno potrà ricostituirla, quindi direi che il rapporto con la natura ci chiama a un forte senso di responsabilità; come ci insegna quel midrash, che racconta di un uomo che per dissodare il suo terreno gettava le pietre che trovava per la strada: fino a quando poi, trovandosi nella necessità di percorrere quella stessa strada, inciampa sulle pietre e rompe il suo carro.
Una responsabilità che non sembra però bene esercitata…
L’uomo deve cercare di vivere in un ambente naturale che faccia il suo bene, cioè deve creare le condizioni perché la natura sia accogliente, che non sia matrigna; qui entra in gioco la sfera pubblica, il ruolo dei nostri governanti, perché sono loro che prendono le decisioni che poi incidono sull’ambiente. Al riguardo, l’approccio migliore sarebbe progettare azioni di lungo periodo.
Purtroppo non è solo nei confronti della natura che l’uomo sembra incapace di assumersi una responsabilità. Cosa pensa di questi tempi di guerra che, come europei, ci troviamo a rivivere da oltre un anno in Ucraina?
Sto rileggendo in questi giorni un libro di Francesco Remotti, sociologo e antropologo. Remotti sottolinea come alla base dei conflitti armati ci sia sempre una questione di identità. L’identità è una parola avvelenata perché spesso è usata per escludere gli altri. Il concetto di identità è sempre un po’ esclusivo: chi non è uguale a me, tende a essere escluso. Al contrario, Remotti spiega che dovremmo coltivare un’identità non esclusiva.
Come si può fare?
Pensi a quello che accade in questo momento tra Russia e Ucraina, o anche in altri posti del mondo: alla base c’è sempre l’idea che l’uomo sia padrone della terra. Al contrario, dovremmo coltivare l’idea che la terra non è nostra, non ci appartiene, ma ci è stata data per essere utilizzata al meglio. Se non riusciamo a trasmettere questo principio così importante, continueremo a credere che la nostra identità dipende dalla terra che possediamo, e saremo pronti a combattere pur di conquistarla. I conflitti possono essere evitati se fossimo capaci di promuovere un processo educativo che parta dall’infanzia e poi vada avanti nel tempo per spiegare che in realtà solo al Signore appartiene la terra, e che la terra che oggi occupo un giorno apparteneva a chi mi ha preceduto e domani apparterrà a un altro. Invece di difendere un’identità esclusiva, dovremmo essere capaci di aprirci all’alterità: noi stessi non siamo mai essere esclusivi, ma viviamo sempre in relazione a un gruppo, a una comunità.
Anche gli ebrei sono molto legati alla loro identità.
La necessità di coesistere tra gruppi con identità diverse è certo nota al popolo ebraico, che da sempre è stato costretto a vivere in una situazione di continuo confronto con l’altro, quindi a incorporare aspetti che vengono da altre identità, senza rinunciare alla propria. Non c’è dubbio che il grande filosofo ebreo Maimonide era sotto l’influenza di Aristotele, ma allo stesso tempo ha utilizzato il pensiero aristotelico per coniugarlo alla tradizione ebraica: ecco un esempio riuscito di identità e alterità ben coordinati. Così come un altro pensatore ebreo. Rabbi Nachman Kromchal, ha utilizzato il pensiero hegeliano per ricondurlo alla tradizione ebraica. Io penso che l’esperienza ebraica dimostri che quello che accade intorno a noi può sempre essere visto come una opportunità, che sia possibile unire i valori culturali ebraici e vivere il proprio tempo.
Non è sempre facile.
Certo, si tratta di vivere la propria identità in un mondo che propone molti modelli diversi. È una sfida continua, è possibile riuscirci solo se siamo sostenuti da una solida cultura, sia generale che più specificamente ebraica. Gli ebrei italiani, e non solo, hanno una lunga tradizione in questo, perché non hanno mai rinunciato a perseguire gli studi secolari oltre a quelli della Torà.. Solo se continuiamo a studiare saremo capaci di tutelare la nostra identità da un lato, e di relazionarci all’alterità dall’altro. Del resto, i nostri maestri ci insegnano che esiste un unico Dio, ma poi ci spiegano che dobbiamo rispettare le credenze degli altri popoli, fossero pure idolatri: se la nostra identità è forte e radicata, non dobbiamo temere quella degli altri. Tutelare la propria identità non può mai significare imporla a quella altrui; e infatti, gli ebrei nella loro storia non hanno quasi mai forzato gli altri a convertirsi all’Ebraismo.
Eppure, la cronaca ci parla purtroppo di una profonda crisi sociale che Israele sta vivendo da mesi. Come giudica quello che sta avvenendo?
Comincerei col ricordare che Israele è un popolo composto da 12 tribù, ognuna delle quali ha proprie caratteristiche, da sviluppare nell’interesse di tutto il popolo, nessuna delle quali può pensare di sostituirsi all’altra. Detto questo, in Israele oggi la situazione sicuramente è complessa, io credo sia dovuta al fatto che manca una vera relazione tra le persone. Il problema della giustizia nasce dal fatto che, fin dal 1948, in Israele c’è il problema di una costituzione che ancora manca; si disse che c’erano cose più urgenti da fare e in base all’urgenza si è sempre rinviato il problema. Del resto, la questione è molto più antica: se noi studiassimo la conquista del potere da parte dei Maccabei scopriremmo problemi simili a quelli di attuali. Per tornare a oggi, io direi che la riforma del sistema della giustizia è una esigenza che mi pare sia sentita da tutti; la questione semmai riguarda come farlo. Io credo che chi governa ha l’obbligo di informare su quali siano le sue intenzioni e i suoi progetti, quindi occorre ripartire da un sistema trasparente di governare, questa è la priorità assoluta: un’informazione adeguata per comprendere come e cosa bisogna fare. Io confido che si arrivi a questa consapevolezza, e che si comprenda che non si può gestire la giustizia come un fatto personale che riguarda una famiglia o un gruppo di potere. Come è scritto in Devarim: “La giustizia, la giustizia seguirai”. Perché è ripetuto due volte? Perché si deve amministrare la giustizia non solo nell’interesse di uno, non solo facendo gli interessi di un gruppo, ma nell’interesse di molti.
Di crisi in crisi, eccoci arrivati in Italia. Lei come vede il nostro paese oggi?
L’identità è davvero una parola avvelenata, perché rischia di diventare un’ossessione. Al contrario, io penso che l’identità richieda un’attenta opera di ricostruzione e studio. Se vogliamo ricostruire la nostra identità, allora è chiaro che dobbiamo innanzitutto precisare quale sia stato il ruolo e la responsabilità di Mussolini.
Mi sembra un giudizio evidente…
Io partirei da un dato: Mussolini ha mandato a morire oltre 400.000 italiani in una guerra in cui non eravamo affatto preparati, sapendo che non c’erano le risorse, portando così l’Italia a un disastro, che in più ci ha fatto perdere Istria e Dalmazia, obbligando migliaia di italiani a lasciare le loro case, abbandonando Fiume e Pola; se l’Italia fosse rimasta neutrale, non ci sarebbero state neppure le foibe. Se fossimo rimasti neutrali forse avremmo avuto dei problemi con la Germania, ma non avremmo mai perso quello che avevamo. Mussolini ha di fatto massacrato 400.000 persone, una cifra ben maggiore dei 40.000 ebrei perseguitati, su cui non si è mai riflettuto abbastanza. L’effetto di questa decisione, dopo la guerra, è stato di rendere l’Italia un paese povero, salvato solo dal piano Marshall. Certo, dobbiamo essere grati agli americani per il loro aiuto, gli americani hanno salvato indubbiamente l’Europa, ma questo ha obiettivamente significato renderci in qualche modo subalterni e dipendenti.
Mi pare che lei si sia concentrato soprattutto nella parte finale del fascismo: e quello che c’è stato prima?
È evidente che tutti i mali del fascismo partono dall’inizio, da quando si struttura un’idea di identità che non lascia spazio alle differenze: da qui nascono i disastri finali cui è arrivato il fascismo, dalla decisione di escludere e perseguitare chi la pensava diversamente. Senza dimenticare la responsabilità dei Savoia, che non seppero essere coerenti con la loro storia e che per sopravvivere pensarono di allinearsi a Mussolini: hanno sbagliato e hanno pagato. Quindi, per rispondere alla sua domanda, direi: la prima cosa è non mentire sull’identità. Invece Mussolini viene ancora oggi idolatrato, ma non è possibile limitarsi a dire che il fascismo “ha fatto anche cose buone” e tacere tutte le cose gravi di cui è stato responsabile. Il fascismo è stato inoltre un’ideologia razzista, mentre come sappiamo il Talmud ci insegna che l’umanità è stata creata da un solo uomo perché nessuno potesse poi dire di appartenere a una razza migliore delle altre. Mussolini da alcuni oggi è ancora considerato un eroe: ma un eroe non scappa come ha fatto lui, addirittura mascherato. Mussolini non può certo essere né una guida né un modello. Dobbiamo essere consapevoli del disastro di cui è stato responsabile, coadiuvato dai gerarchi che aveva chiamato attorno a sé.
Insomma, per tornare al tema dell’identità: dove ricercare l’identità italiana?
Tornerei più indietro, al nostro Rinascimento, a Michelangelo, alla grande cultura italiana: lì nasce la nostra identità. E poi certamente penserei al Risorgimento. Il fascismo ha sconvolto la ricostruzione del nostro Risorgimento: pensi agli ebrei, che hanno pagato un prezzo enorme nel Risorgimento per costruire l’unità italiana, e cosa ne hanno ricevuto in cambio nel 1938. Ripeto: quando si ricostruisce la storia con lo scopo di affermare un’identità che esclude le altre, non possono che derivarne disastri.
A proposito di ebrei italiani: come vede l’ebraismo italiano nella nostra società oggi?
Quando parliamo dell’ebraismo italiano dobbiamo sempre ricordare i danni provocati dalla persecuzione fascista. A casa ho un calendarietto degli anni Trenta, da cui si può vedere come in Italia ci fossero tantissime comunità ebraiche sparse per buona parte del suo territorio, oggi completamente scomparse, eliminate dalla persecuzione fascista. Inoltre, come sappiamo noi ebrei italiani non siamo mai stati numerosi; del resto, Dio non ha scelto certo gli ebrei perché erano un popolo numeroso. Detto questo, io credo che gli ebrei possano incidere nella società in cui vivono solo se curano la loro educazione e formazione. Dobbiamo cominciare dall’educazione dei bambini per cambiare il mondo e il nostro futuro. Questo richiede una particolare attenzione per l’educazione dei più piccoli, e ancora prima una politica e un modello cultura che tuteli la famiglia e l’infanzia. Non bisognerebbe mai tagliare i fondi per l’educazione, attraverso la scuola e la famiglia. Purtroppo oggi vedo che non c’è molta attenzione verso la necessità di formare famiglie, di mettere al mondo bambini, che sono il nostro futuro. Parlavamo prima di identità italiana: in questa identità ci siamo anche noi, e possiamo sperare in un rapporto equilibrato fra la nostra identità e quella altrui solo se educhiamo i bambini all’idea di alterità. Penso quindi che sia importante rafforzare la famiglia, crescere delle famiglie ebraiche consapevoli della propria identità. Dobbiamo tutelare lo Shabbat, bisogna educare all’idea di convivenza. E dobbiamo tutelare le nostre famiglie, consapevoli che la filiazione è un valore. Se poi parliamo di quale possa essere il nostro contributo nella società, io direi che la storia degli ebrei in Europa mostra che è possibile un percorso in cui si costruisce la convivenza tra identità diverse, senza che una voglia sopraffare le altre. Questo noi possiamo insegnare agli altri: che la difesa della nostra identità non porta veramente alla soppressione dell’altro, al contrario che sia possibile avere un rapporto con gli altri costruttivo. L’ebraismo non fa proselitismo, non sollecita convertirsi perché è consapevole che per la convivenza è sufficiente rispettare le 7 leggi noachidi, cui tutti siamo tenuti. Non è certo necessario diventare ebreo per essere una brava persona, è invece necessario non prevaricare l’altro, quindi dobbiamo insegnare l’equilibrio tra identità diverse.
Lei è un rav di grande esperienza e di studi ampi, che si è cimentato più volte anche nella guida di importanti comunità ebraiche, come Venezia, o Napoli. In passato alcune sue scelte, ad esempio in tema di conversioni, hanno creato polemiche all’interno del mondo ebraico.
Il problema delle conversioni richiede una precisazione preliminare: il più delle volte si parla senza avere alcuna competenza, in una materia in cui invece è fondamentale conoscere le regole halakiche. Detto questo, il tema delle conversioni riguarda, più in generale, l’autonomia di una comunità, il che significa la sua forza e la sua autorevolezza. Io credo che se una comunità ha forza e autorevolezza, deve poi essere anche indipendente nelle scelte che prende, e che poi queste debbano essere rispettate; così almeno accade in altre parti d’Europa. Perché dico questo? Perché effettivamente sono state prese decisioni, penso ad esempio in Israele negli anni passati rispetto a immigrazioni di massa, che forse io non avrei condiviso; però mi rendo conto che non posso giudicare dall’esterno quello che fu fatto allora. Allo stesso modo, non si dovrebbe giudicare quello che fanno i rabbini italiani, né la scelta di un rav nella sua comunità dovrebbe essere giudicata da altri. Solo chi sta sul posto può veramente giudicare e capire la realtà locale; chi vive altrove difficilmente può capire quando e come prendere una qualsiasi decisione.
Secondo lei il rabbinato italiano è troppo dipendente da quello israeliano?
In alcune cose forse è così. È vero che oggi il livello dell’ebraismo italiano non è quello del passato, in cui vivevano maestri come Elia Benamozegh, Shadal, Ariè da Modena, Izchak Lampronti eccetera. Come ho detto, spesso l’autonomia dipende dalla autorevolezza; ma allora il nostro impegno dovrebbe essere quello di creare e rafforzare i centri di studio, alzare il livello minimo di cultura. Così come nell’istruzione pubblica è richiesto a tutti almeno un diploma liceale, dovremmo sforzarci per elevare l’educazione minima ebraica di ogni ebreo. L’obiettivo fondamentale è trasmettere il più possibile l’amore per lo studio. Il problema della nostra “indipendenza” devia in gran parte dal livello dell’ebraismo italiano. Accontentarci di quello che abbiamo non è sufficiente, occorre creare nuove scuole, coinvolgere non solo i figli ma anche i genitori, e magari pensare a un gruppo di rabbini – cinque, o dieci – che girino per le comunità e insegnino continuamente. Questa sarebbe la cosa più importante per tutte le nostre comunità.
Quando dice che è importante lo studio, cosa intende più esattamente?
L’Ideale sarebbe dedicare metà del proprio tempo allo studio della Torah, e l’altra metà al resto delle proprie attività. Il tempo dello studio serve a garantire la propria identità, proprio come svolgere un lavoro serve alla sopravvivenza. Naturalmente, occorre trovare una professione, questo è il motivo che mi ha portato a studiare fisica, ma non dovremmo mai abbandonare lo studio della Torah. Se il livello dell’educazione ebraica è basso mettiamo a rischio il nostro futuro, così come non basta avere degli esperti in altri campi che però non abbiamo solide basi ebraiche.
Da ultimo, ha fatto discutere la sua decisione di essere a Catania per l’inaugurazione di una comunità ebraica che, a dire il vero, né l’ARI né l’UCEI riconoscono.
Io ho sempre aderito a tutte le iniziative che hanno lo scopo di avvicinare chi è lontano e si vuole riavvicinare all’ebraismo. Quindi direi che la prima cosa è questa: cercare di aiutare qualsiasi persona che desideri tornare a vivere in modo ebraico. Ovviamente bisogna andare alla ricerca di ulteriori elementi, ad esempio provare le loro origini ebraiche; e comunque è necessario che studino, perché devono essere consapevoli di cosa significa vivere in modo ebraico. In Calabria e in Sicilia in particolare ci sono molte persone discendenti di ebrei, che chiedono di essere aiutate a tornare alle loro origini. Dovremmo essere più aperti e disponibili verso tutti coloro che desiderano tornare all’ebraismo, perché se qualche discendente di una famiglia ebraica esprime il desiderio di intraprendere questo percorso, io credo che stia una mitzvà aiutarlo a recuper are un rapporto con la famiglia originaria, soprattutto se era stata costretta a convertirsi.
È per questo che ha aderito a questo progetto?
Io a Catania sono stato semplicemente invitato, non ho alcun ruolo attivo nell’organizzazione della comunità. Quando posso vado ovunque vengo invitato: a Venezia, a Padova, e anche a Catania. Lì sono stato invitato per l’inaugurazione del Sefer, donato da una famiglia americana. Penso che sia importante appoggiare le persone e far loro sentire che consideriamo positivamente il fatto che dopo 5 secoli ci sia un ritorno di ebrei in un luogo da dove furono cacciati o costretti a convertirsi. A Catania c’è questo impegno: c’è un rabbino e una comunità che si sta formando; mi dicono che a breve ci sarà anche un miqvè. È fondamentale che si rendano conto che ci sono delle cose prioritarie per essere davvero una comunità, e mi pare che ci sia questo impegno. Al momento il loro numero non è ancora sufficiente per una vera comunità, ma io credo che si debba essere ottimisti e pensare che in futuro riusciranno a farlo, non si deve negare questa possibilità, soprattutto se c’è la buona volontà; d’altra parte, mi risulta che all’inizio si sia cercato un contatto con l’Ucei, ma che questo non abbia portato a risultati positivi, e non capisco perché. Inoltre, quando ero rabbino capo a Napoli mi sono reso spesso conto quanto sia difficile, da Napoli, poter rappresentare i bisogni degli ebrei che vivono molto lontano, in Sicilia e in Calabria.
L’ultima domanda riguarda la comunità di Roma. Come sa il 18 giugno si rinnova il consiglio della più antica comunità della diaspora, almeno in Europa. Posso chiederle un auspicio per il prossimo futuro?
A Roma la comunità ha una caratteristica: quella dell’unità. Io credo che non si debba perdere questo elemento. E poi sviluppare e promuovere lo studio. Dobbiamo rafforzare le scuole e la nostra educazione, se vogliamo continuare a tutelare la nostra identità.
Leggi anche:
le tappe precedenti del viaggio nel rabbinato italiano
2 risposte
Pregevole intervista, dai contenuti illuminanti e convincenti derivanti da riflessioni ed argomentazioni di grande qualità.
È vero che Massimiliano Boni è persona eccellente, in grado di costruire al meglio i propri dialoghi con soggetti sempre molto interessanti per le loro esperienze e le loro capacità, con i quali tesse trame discorsive idonee ad illustrare, ad approfondire, a comunicare, sempre consentendo al lettore di formarsi opinioni e di giungere a conclusioni senza forzature, obliquità od opacità.
Nel caso odierno, ha consentito a Rav Shalom Bahbout – tra l’altro – di affermare e ribadire la assoluta importanza per ogni Ebreo dello Studio, della Cultura e della Educazione e di chiarire il proprio pensiero sulla opportunità di non osteggiare, ma anzi di agevolare, la nascita di nuove Comunità ebraiche, intese quali occasioni uniche e preziose per offrire sostegno e conforto ad Ebrei appropriatamente presenti in luoghi lontani da Comunità già esistenti e strutturate.
Nella intervista si fa infine, ancora una volta, riferimento alla data del prossimo 18 Giugno per il rinnovo del Consiglio della Comunità di Roma: come ci si sta arrivando? Con quali iniziative di incontro, di dibattito, di approfondimento, di confronto tra chi è in grado di redigere ed esporre programmi a tal’uopo e chi ha capacità e voglia di sapere, di conoscere.
Confronto di opinioni, che fa crescere e rafforza il profilo identitario di ciascun appartenente alla Comunità romana: mancano quarantasette giorni alle elezioni, si utilizzi ciascuno di essi per incontrare Persone nobili, esperte, importanti, che illuminino coloro che cercano la luce in un contesto di ottundimento e di superficialità sempre più difficile da combattere con Sapienza e Fede.
Un caro saluto al Rav Mino Bahbout e un grazie per tutto quello che ha detto in questa intervista, e grazie per il suo percorso in tanti anni di presenza significativa come autorevole esponente della cultura ebraica .