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E tu, che antisemita sei?

Gennaio è il mese che l’Europa ha dedicato al ricordo della Shoah. Quest’anno però la ricorrenza si intreccia con la guerra a Gaza, e con i tanti pregiudizi antisemiti che questo conflitto ha fatto riemergere. Ne parliamo con Davide Assael

 1. Gli ebrei sono diversi

Davide, vorrei provare a esaminare con te alcuni degli stereotipi d’odio che in modo ricorrente vengono usati contro gli ebrei, per comprenderne il fondamento e l’errore. Uno dei pregiudizi più antichi è quello per cui “l’ebreo è diverso”. È vero che l’ebraismo è un pensiero chiuso, isolato? I rituali, le prescrizioni religiose, il mangiare, fanno degli ebrei degli esiliati volontari, che si pongono volutamente fuori dalla società, e che stanno sempre tra di loro? E magari così facendo complottano alle spalle degli altri?

Davide Assael, filosofo

Mi sembra che questo pregiudizio rappresenti bene la distorsione del percorso culturale ebraico e del contributo che il pensiero ebraico ha dato alla cultura universale. È stato proprio con l’ebraismo che per la prima volta si è schiuso all’uomo un orizzonte opposto a quello disegnato dal paradigma etnico. È con l’ebraismo infatti che si è cominciato a ragionare in termini universalistici, attraverso il riconoscimento della comune radice adamitica di tutti gli individui, a prescindere dal loro colore della pelle e di qualunque altro elemento che li caratterizza. Se guardiamo la creazione dell’uomo, Adam, possiamo renderci conto che l’universalità nella Torah

Ebrei newyorkesi

prescinde anche dal genere sessuale, in quanto è scritto che “maschio e femmina li creò” (Genesi 1, 27); potremmo dire così che anche i generi sessuali hanno un’origine anatomica comune: è nella Torah che si riconosce per la prima volta che tutti proveniamo da una stessa origine e riflettiamo la stessa natura. Per questo dico che l’ebraismo disegna un orizzonte universalistico che si oppone al paradigma tribale. Del resto, la stessa espressione Am Israel, “il popolo di Israele”, esprime questo universalismo.

Perché?

La parola Am, popolo, è quanto di più di opposto al concetto di etnia e di tribù. Chiunque, infatti, può aderire al popolo, naturalmente riconoscendo e impegnandosi a rispettare il patto sociale, espressione dei valori fondativi della comunità ebraica. Nel popolo ebraico non si entra per sangue o per colore della pelle o per etnia, ma per appartenenza agli stessi valori.

Ben Gurion firma la dichiarazione di indipendenza, il 14 maggio 1948

Resta il problema della differenza…

Certo, mi rendo conto che la prospettiva ebraica, legata a valori universali, ma al tempo stesso che si riconosce in un sistema di regole specifiche, si differenzia rispetto a quella occidentale, come elaborata dalla filosofia greca e dalla stagione cristiana, pensieri entrambi che hanno radicalizzato, per così dire, i principi universalistici ebraici.

Cosa intendi?

Napoleone emancipa gli ebrei, stampa del 1806

Per l’ebraismo si può far parte del popolo se ci si riconosce in un patto, se si accettano i valori fondativi della comunità; ciò tende a creare una differenza fra ciò che è esterno alla comunità e ciò che rimane all’interno. L’occidente ha coniato l’immagine di una «comunità umana» di cui si è tutti parte. Lasciamo perdere l’abnorme contraddittorietà e astrattezza di una simile definizione, il problema è che, partendo da qui, l’occidente ha sempre interpretato con pregiudizio questa differenza, accusando gli ebrei di separarsi dal resto della collettività. A mio avviso si tratta di una lettura molto superficiale, che non tiene conto della natura dialettica dei principi universalistici che declina l’ebraismo (che al tempo stesso riconosce pari diritti a tutti, ma rispetta regole specifiche proprie), e che è stata matrice di pregiudizi millenari.

2. Gli ebrei sono vendicativi

Il secondo pregiudizio che ti sottopongo è legato all’idea della vendetta. L’espressione emblematica che raccoglie questo pregiudizio è data dalla legge del taglione, “l’occhio per occhio” da cui deriverebbe una visione violenta dei rapporti sociali. A ciò si aggiunge, l’idea che il Dio ebraico sia un Dio violento e geloso.

Anche qui è facile individuare i gravi pregiudizi che sono alla base di tale lettura del pensiero ebraico. Il passo a cui tu ti riferivi si trova nel Levitico, al capitolo 24, 20. Innanzitutto bisogna rigettare la lettura che fa di questo verso un via libera a ogni forma di vendetta, perché si tratta di un errore testuale e grammaticale. Già a prima vista, infatti, nell’interpretazione letterale del verso, emerge chiaramente che qui si pone un limite alla possibile reazione vendicativa. In altre parole, da questo principio si ricava quello generale che ogni torto giustifica una risposta proporzionata. È proprio da questo principio ebraico che deriva il principio universale che pone un limite alla vendetta. Da questo punto di vista, se mi consenti una digressione, anche l’espressione che troviamo nella Torah, quando Dio afferma “Mia è la vendetta” (Deuteronomio, 32, 35), è stata storicamente utilizzata per disegnare l’immagine di una divinità che non corrisponde affatto a quella dell’ebraismo, perché la frase vuole proprio sottrarre agli esseri umani la possibilità di una vendetta illimitata.

Dunque, davvero nessuna vendetta?

una Torah

In una prospettiva ebraica si predica la giustizia, cioè il contrario dell’arbitrio e della vendetta. Aggiungo ancora che del passo del Levitico è possibile dare una lettura ancora più raffinata. Torniamo all’originale ebraico: Occhio per occhio, ‘ain tahat ‘ain, significa letteralmente “occhio sotto occhio”, per cui, secondo una lettura cabalistica, il principio esprime la necessità che ciò che “sta sotto” emerga. In altre parole, qui la Torah descriverebbe un meccanismo di sublimazione dell’aggressività umana, la quale troverebbe soddisfazione non nella reazione cieca contro l’altro, ma ristabilendo l’equilibrio perduto, attraverso un principio di compensazione, tale per cui ciò che è andato sotto possa riemergere e ritornare alla posizione originaria. Infine, non va assolutamente trascurata la lettura talmudica del principio: siccome ci sono dei danni che, una volta inferti, non possono essere pienamente riportati ad equilibrio, il principio del Levitico afferma che in tali casi la compensazione sarà pecuniaria, ossia che andrà risarcito il valore della sofferenza inferta. Il Levitico ci insegna la necessità di ricucire la frattura e questo, ripeto, è un principio che trova oggi pieno accoglimento nel pensiero giuridico occidentale.

3. Il sionismo è razzista

1936: truppe inglesi respingono rivoltosi arabi a Gerusalemme. (AP Photo)

Continuiamo. In età contemporanea il pregiudizio contro gli ebrei si è rivolto al sionismo. Si sente dire spesso che il sionismo è un’ideologia razzista, in quanto volta a estirpare gli abitanti della Palestina per sostituirli con gli ebrei, quasi a voler creare uno Stato etnico.

Anzitutto, vedo una forma di pregiudizio già nell’espressione «sionismo». Mi pare una rappresentazione monolitica e semplificata di un movimento articolatissimo, che ha visto il coinvolgimento di intellettuali di caratura mondiale di ogni ordine e grado. Come ha sottolineato lo storico Arturo Marzano, sarebbe più opportuno parlare di sionismi, tanto ampio è stato lo spettro del dibattito. A volte ci si scorda che il sionismo ha in sé anche un significato filosofico: come i grandi modelli federali, ad esempio, può essere inteso come schema di relazione con l’altro. Se si parte di qui, si capisce di che ampiezza stiamo parlando: quanti modi esistono di pensare il rapporto con l’alterità? Inutile tirare fuori i paradossi di Zenone che abbiamo imparato al liceo per sapere che la distanza fra due punti, come possono essere l’Io e il Tu, per citare un’espressione buberiana, può essere divisa all’infinito. Tante sono le combinazioni possibili. In queste considerazioni già è inclusa la risposta alla tua domanda: equiparare il sionismo ad una forma di razzismo, come stato fatto per motivi geopolitici che riflettevano lo schieramento di blocchi della guerra fredda e l’ostilità islamica nei confronti all’idea stessa di Stati ebraico, è un’aberrazione storica, giuridica e morale.

Theodor Herzl (1860-1904)

Perché?

Anzitutto perché la Dichiarazione d’Indipendenza di Israele fa esplicito riferimento ai principi universali, che poi sono ribaditi da leggi fondamentali dello Stato. È evidente a chiunque che un’ideologia razzista non può avere queste forme di riferimento culturale e giuridico.

4. Il sionismo è imperialista

Legato all’idea del razzismo c’è quella per cui i sionisti sarebbero animati da un desiderio di conquista, dunque né più né meno che colpevoli come gli Stati coloniali.

Altrettanto fuorviante è paragonare il sionismo a forma di imperialismo, o, nelle visioni più pregiudiziali e distorte, a progetto di sostituzione etnica. Un’aberrazione che fa male solo a nominarla per quanto è in contrasto con l’intera etica ebraica. Come autorevolmente mostrato da un’intera generazione di storici (in Italia Claudio Vercelli, ad esempio), il movimento sionista risponde al sentimento di autodeterminazione del popolo ebraico. In questo senso è gravemente sbagliato considerare lo Stato di Israele moderno come un risarcimento europeo per la Shoà.

Anche negli USA si sono registrate dopo il 7 ottobre molte manifestazioni antisraeliane

E stupisce che esistano ancora giornalisti autorevoli, penso ad esempio a Ugo Tramballi, che ripetano la litania storicamente infondata appena ricordata. L’aspirazione ebraica all’autodeterminazione poteva essere soddisfatta solo nel territorio dove si è svolta la sua storia e dove la presenza ebraica è stata costante. Naturalmente, problema del resto atavico e presente già nella Torah (Numeri Cap. 13), si era coscienti che lì ci fossero altre popolazioni, ma non esisteva una sovranità politica, dal momento che si liberava uno spazio prima occupato dai britannici. Ora, se si vuole dire che i padri fondatori del sionismo abbiano estremamente sottovalutato la questione araba, credendo che si sarebbe risolta esportando benessere, sarei il primo ad essere d’accordo. Se, invece, si vuole parlare di «terra rubata», è un altro gigantesco falso storico fondato sulla ricezione acritica della propaganda, e sottolineo propaganda, araba. Che parte dell’intellettualità occidentale accetti questa retorica è solo il segno del disvalore a cui essa è giunta.

5. In Israele si pratica l’apartheid

Ancora oggi però si afferma che con la nascita dello Stato ebraico nel 1948 comincia ad affermarsi l’idea di una disparità fra ebrei ed arabi, fino a sostenere che Israele sia uno Stato in cui si pratica l’apartheid.

La Corte internazionale di giustizia

Il tema ci consente anche una chiave di lettura del deferimento di Israele alla Corte Internazionale di Giustizia da parte del Sud Africa. In questa equiparazione incidono elementi culturali e storici. Cominciamo dai primi. È chiara l’eco di un pensiero terzomondista che ancora interpreta Israele come strumento dell’imperialismo occidentale volto a soggiogare le popolazioni autoctone. Una lettura oggi amplificata da una lettura decoloniale che sta prendendo piede nelle università occidentali, come ben abbiamo visto in queste settimane. A questo quadro ideologico si sommano dei precedenti storici che hanno visto i vertici più estremisti dell’apartheid utilizzare il sionismo per legittimare nei consessi internazionali la propria visione separatista. Questo, nonostante Israele abbia condannato l’apartheid già nel 1961, ha creato un immaginario popolare, per cui gli ebrei venivano assimilati alla minoranza bianca vessatrice, favorendo una lettura imperialista di Israele stesso. Ovvio che il riferimento ai principi di uguaglianza rompa ogni legame fra sionismo e ogni forma di organizzazione sociale fondata su principi razziali.

fondazione di Tel Aviv

6. Gli ebrei hanno tolto uno Stato ai palestinesi

Si obietta ancora che gli Stati arabi sono stati vittime incolpevoli di questo stato di cose che hanno subito la decisione dei paesi occidentali di creare uno Stato ebraico moderno.

Quella della nascita dello Stato ebraico è stata un’operazione politica che gli Stati arabi non hanno subito, ma che hanno rifiutato. Ricordo infatti che nella dichiarazione del 29 novembre 1947 delle Nazioni unite era stata prevista la nascita di due Stati, ma furono proprio i paesi arabi a rifiutarla. Come detto, in questi territori non era presenta alcuna entità statuale araba; c’erano delle popolazioni arabe, a cui è stato riconosciuto il diritto all’autodeterminazione controfirmato dai vertici sionisti. Par di capire che il problema sia l’autodeterminazione ebraica non quella, mancata, dei palestinesi.

Per quale motivo tale rifiuto?

In questa stampa, atto di sottomissione di un ebreo a un signore musulmano

A mio giudizio il mondo arabo deve ancora compiere una piena elaborazione culturale dei propri rapporti con l’ebraismo e con gli ebrei. A differenza del mondo cristiano, e cattolico in particolare, che dopo la Shoah ha avuto, sia pure ancora non pienamente, la forza di rielaborare i rapporti con l’ebraismo mediante il Concilio Vaticano secondo. Per il mondo islamico questo non è ancora avvenuto, e quindi prevale ancora l’idea di una subordinazione degli ebrei agli arabi. L’Islam è chiamato a liberarsi della concezione dell’ebreo come “Dhimmi”, un’espressione che significa che l’ebreo è tutelato ma anche sottomesso. Il mondo cristiano ha elaborato i suoi rapporti con l’ebraismo grazie anche alla necessità di confrontarsi con i principi dell’egualitarismo moderni che si sono affermati in Europa nel ventesimo secolo. Nel mondo islamico, al contrario, la modernità in questo senso non si è fatta strada. Finché ciò non avverrà rimarrà forte la tensione fra mondo arabo ed ebraismo.

7. Israele è uno Stato genocida

Infine non possiamo non rivolgerci a quel che sta accadendo da tre mesi a questa parte. La guerra in corso a Gaza, con le sue migliaia di morti, è utilizzata dagli oppositori di Israele per accusarlo di essere uno stato criminale. Risuona così il triste slogan per cui le vittime si sarebbero ormai trasformate in carnefici.

soldati israeliani

Qui distinguerei fra due piani. Il primo, legato a quel che avviene sul campo, richiede necessariamente una serie di conoscenze di cui non disponiamo completamente. Quando noi osserviamo le scene drammatiche della reazione militare di Israele, potremmo certo trovarci di fronte ad un crimine, un eccesso di risposta, o nei peggiori dei casi a una scelta premeditata; ma, al tempo stesso, potremmo star vedendo un’operazione che si è resa necessaria per rispondere a un attacco. Purtroppo più volte, ad esempio, si è visto come moschee, scuole ed ospedali siano stati utilizzati come base per attaccare Israele o come la popolazione civile venga utilizzata per farsi scudo da parte di Hamas. Non potendo conoscere gli elementi fattuali, risulta oggettivamente molto difficile potersi esprimere in maniera definitiva, perché l’accertamento di quel che sta avvenendo richiederà tempo e attenzione. Su un secondo piano, più generale, in questa accusa mossa agli ebrei di essersi trasformati in carnefici io vedo ancora una volta il permanere atavico di quell’antico pregiudizio che avevamo indicato all’inizio. Il pregiudizio per cui gli ebrei, chiusi e rinserrati nella propria comunità, sarebbero indifferenti alla sofferenza degli altri, e che agiscano per vendetta. Si tratta di argomenti che rinnegano quei principi universalistici di uguaglianza e di rispetto della dignità della persona che invece sono alla base del pensiero e dell’identità ebraica.

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