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Da Modena a Roma: il mio impegno nella comunità e per Roma

Franca Eckert Coen ha vissuto molte pagine importanti dell’ebraismo romano, pur provenendo dalla provincia.  A Riflessi racconta il suo impegno nella comunità e nella vita della città, con uno sguardo alla politica di oggi

Franca, alcuni mesi fa è uscito il tuo libro-intervista “Farò e capirò” (Edizioni Efesto, con Francesca Baldini. Prefazione di W. Veltroni). Vorrei partire proprio dal libro. A me ha colpito molto questa storia di una ragazza, ebrea, della provincia italiana (cresciuta a Modena), che poi entra nella grande storia dell’ebraismo italiano. Se dovessi fare la sintesi della vita di quella ragazza, cosa racconteresti?

piazza Mazzini a Modena

Modena era nel primo dopoguerra una piccola città di provincia. Assieme a due amiche, eravamo veramente tre bambine ebree in tutto, ci incontravamo per andare nelle città vicine: Mantova e Bologna soprattutto per socializzare con altri bambini ebrei.

Com’era vivere a Modena?

A quel tempo c’era una comunità ebraica ancora piuttosto viva. Oggi temo che il suo destino sia segnato, ma negli anni Cinquanta c’era un minimo di prospettiva. Anche perché c’è stato un periodo nell’ebraismo italiano in cui si era più favorevoli ad accogliere le persone che lo desideravano: tanto è vero che a Modena oggi nonostante ci siano solo due donne nate ebree, la comunità si è preservata per l’accoglienza data ad altre madri. Ad ogni modo, io a Modena mi sentivo due volte in minoranza: perché ero ebrea, e perché ci chiamavamo Eckert. A scuola ero l’unica ebrea, e con quel cognome straniero ero facilmente identificata; eppure, per il fatto che la mia famiglia era piuttosto tradizionalista – specialmente da parte di mio padre, ashkenazita, meno da mia madre, che proveniva da una famiglia sefardita espulsa quattro secoli prima dalla Spagna – mi ritrovai a diventare amica di alcune ragazze cattoliche a loro volta osservanti, sebbene secondo le loro tradizioni.

la “Piazza”, il cuore storico della comunità ebraica di Roma

Poi, dopo aver incontrato il tuo futuro marito, Giorgio Coen, vi sposaste e venisti a Roma. Com’era la comunità a quel tempo?

Nella comunità di Roma del tempo io rappresentavo lo stesso una minoranza, anche rispetto a mio marito e alla sua famiglia, perché mangiavo kasher e rispettavo lo shabbat. A Roma c’erano alcune migliaia di ebrei, e solo un macellaio kasher, in “Piazza”; solo con l’arrivo degli ebrei tripolini si cominciò a comprare carne kasher anche a piazza Vittorio, dove andavamo pure noi, perché c’era un vecchietto che sapeva come togliere il nervo sciatico e quindi potevamo mangiare la carne il filetto a Roma non permesso.

Ti sentivi estranea rispetto alla vita di “Piazza”?

“Farò e capirò”, scritto da Franca Eckert Coen con Francesca Baldini

Veramente no, perché c’erano elementi che univano la “Piazza” anche con chi proveniva da fuori. Io mi sono presto riconosciuta in quella piazza, perché c’era un afflato umano tipico, quel cercare di aiutare l’uno l’altro, quel capirsi attraverso parole che non comprendevo ma che mi sforzavo di imparare. Certo, c’era poi tutto un altro ambiente, degli ebrei laureati, o di chi s’era fatto una posizione: come il nonno di mio marito, che da ex straccivendolo era diventato uno dei più importanti antiquari di Roma. Era un ebraismo in parte diverso, in cui io, abituata a rispettare le tradizioni, venivo vista un po’ come una beghina: mia suocera, quando commentò la mia scelta di vivere a piazza Cairoli al ritorno dagli Stati Uniti, disse che sentivo l’esigenza di vivere sotto “il Cupolone”, ossia il Tempio maggiore, perché là c’era la sinagoga, la scuola ebraica, insomma: la “Piazza”.

Questa contrapposizione fra la “Piazza” e un ebraismo più “alto” si mantiene ancora oggi?

Se devo dirti quel che penso, io oggi la piazza non la riconosco. Sì, ci sono rimasti alcuni elementi, poche persone o personaggi che sono ancora rappresentanti della piazza di un tempo; ma lo spirito di “Piazza”, senza l’articolo, io non lo sento più. Forse qui a Monteverde, attorno al Tempio Bet Michael, si respira un po’ questa atmosfera. Prima c’era una differenza che però veniva compensata anche dal rispetto reciproco: c’erano “il professore”, il “chirurgo”, “l’avvocato”; però c’era anche fiducia.

Adesso vorrei fare un salto in avanti, alla tua esperienza come direttrice del Pitigliani. Leggendo il libro si comprende quanto sia stato un momento molto importante per la tua vita.

È così. Assieme all’intero consiglio abbiamo avviato un grande cambiamento, la trasformazione totale dell’istituto. Io ho amato molto quegli anni. Il Pitigliani era conosciuto semplicemente come “l’orfanotrofio israelitico”, e una delle prime decisioni fu quella di spostare la targa di marmo dove c’era scritto proprio “orfanatrofio israelitico” per sostituirla con quella di “Istituto Pitigliani”, perché non mi piaceva l’idea che i bambini ospiti si sentissero definire a quel modo. Lo sforzo che abbiamo fatto è di far capire che al Pitigliani ci si occupava non solo delle persone bisognose, ma di un progetto che coinvolgesse tutta la comunità, insomma un centro comunitario. In questo lavoro di trasformazione abbiamo preso molti spunti dall’estero. In quegli anni non erano molti a conoscere le lingue, il fatto che con Giorgio avessi vissuto alcuni anni negli Stati Uniti mi ha molto aiutato. Poter dialogare con l’estero, capire quali fossero i programmi, rendersi conto che anche l’Italia prima o poi avrebbe avuto un’evoluzione, ha spinto me e il consiglio a intervenire.

Il Pitigliani, in un’immagine d’epoca

Dopo gli anni del Pitigliani è stata la volta della politica: consigliere comunale a Roma, con la giunta Veltroni, delegata del Sindaco alle Politiche della Multietnicità e Intercultura. Qual era il rapporto fra la sinistra e l’ebraismo in quegli anni?

La mia elezione non fu una novità, perché prima c’era stata quella di Victor Magiar. Quanto a me, nella mia esperienza ebbi modo di tessere buoni rapporti con tutte le forze politiche rappresentate in comune; quanto al rapporto con la sinistra, devo dire che allora non si percepiva né ostilità né distanza fra la sinistra e l’ebraismo di Roma e l’ebraismo italiano; forse anche perché Veltroni è stato molto attento nella sua gestione.

Franca Eckert Coen delegata del sindaco a Porta Pia

I rapporti tra ebrei e sinistra non sono però mai stati semplici. Soprattutto oggi, con questa guerra in corso. Posso chiederti cosa pensi di questo conflitto?

Israele resta comunque il punto fermo per ogni ebreo; anche oggi, ad esempio, molti sono gli ebrei della diaspora che comprano casa in Israele. Lo fanno perché hanno paura del luogo in cui vivono; anche mio padre, appena poté, comprò un piccolo appartamento in Israele, che aiuta a creare un senso di appartenenza molto forte. Però, per venire alla tua domanda, politicamente non sono in grado di dare un giudizio. L’unica cosa che osservo è che di tutti i miei parenti, anche i più contrari a Netanyahu, oggigiorno mi sembrano molto inaspriti nel dire che bisogna eliminare Hamas.

Secondo te un ebreo della diaspora è legittimato a esprimere un giudizio su Israele?

La mia risposta, e so che non è la risposta giusta, però è quella che ho sempre sentito di dare, è: “io non vivo in Israele, per cui non posso giudicare. Non credo cioè di poter dare giudizi se non vivo quotidianamente l’esperienza del paese.

Come ti sembra oggi il modo con cui la sinistra legge il conflitto?

Purtroppo devo dire che la sinistra oggi sembra far riemergere il suo lato peggiore. A confronto, Giorgia Meloni, una politica che non conoscevamo, nella sua apparente modestia appare una persona molto equilibrata in merito alla politica israeliana. A sinistra, invece si prova una grande delusione. Non mi sarei aspettata un comportamento così negativo verso Israele. Eppure considero Elly Schlein una donna intelligente, una politica vera; tuttavia per quanto riguarda la guerra mi sembra voglia portare avanti un certo tipo di politica ostile a Israele, forse anche per questioni di politica interna. Io il Pd l’ho sempre votato, pur se non ho mai preso la tessera; però, ad essere sincera, oggi non so se lo voterei di nuovo. Ma non c’è solo la politica dei partiti a deludermi.

Elly Schlein e Giorgia Meloni

Che altro?

Nel mio impegno politico ho sempre favorito il dialogo tra donne di etnie e religioni diverse. Ancora oggi partecipo alla vita associativa di organismi come OIVD (Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne); ebbene, se prima del 7 ottobre si stava lavorando sul mondo arabo femminile, subito dopo si è smesso di trattare questi argomenti, fino al punto di sminuire le violenze subite dalle donne israeliane e gli stupri compiuti da Hamas. E poi c’è anche la reazione del mondo cattolico che mi colpisce.

A cosa pensi?

Quando ero ragazzina ascoltavo certe accuse di appartenere a una religione che aveva ucciso Gesù, un bambino cristiano; oggi, dopo ottant’anni, quando vedo alcuni sacerdoti che a Natale avvolgono Gesù bambino con una kefiah, mi sento accusare di appartenere a una religione che ha ucciso il Gesù bambino palestinese. Oggi insomma mi sento emarginata come allora, come se fossi parte di un altro popolo che non è quello italiano. Eppure gli ebrei italiani sono appena poche decine di migliaia, contro circa 4 milioni di appartenenti alla religione musulmana, quindi che pericolo possiamo rappresentare?

numerose, dopo il 7 ottobre, le manifestazioni contro Israele con slogan antisemiti

In effetti i casi di antisemitismo sono in forte aumento, eppure, da 24 anni in Italia si celebra il Giorno della memoria, destinato proprio a non dimenticare l’odio contro gli ebrei.

Ricordo l’emozione di quando Veltroni mi mandò in rappresentanza del comune a partecipare alle celebrazioni. Oggi non possiamo non interrogarci sugli errori compiuti.

Che idea ti sei fatta?

Forse abbiamo parlato unicamente dei campi di concentramento, di quello che ci è successo e non di chi siamo noi. Bisognerebbe ricordare la nostra storia. Ad esempio, quanti sanno che, dopo l’Unità, Roma conobbe un periodo di sviluppo proprio grazie a un sindaco ebreo, Ernesto Nathan? Quanto si conosce il contributo degli ebrei di Torino, o di Milano, o di Trieste alla nascita dello Stato italiano? Quanto si è consapevoli del danno che le leggi razziali hanno fatto non solo agli ebrei, ma a tutto il paese?

Ernesto Nathan (1845-1921)

Torniamo in Italia e alla tua storia. Da ultimo, c’è l’esperienza, condivisa con tuo marito Giorgio, della fondazione del primo movimento ebraico riformato qui a Roma, Beth Hillel, un’esperienza che ha suscitato, e uscita tuttora, divisioni e forti polemiche.

Beth Hillel oggi è una realtà che fa parte della FIEP (Federazione Italiana Ebraismo Progressivo) ed è sostenuta dall’Unione mondiale per l’ebraismo progressivo (WUPJ) e dall’Unione europea per l’ebraismo progressivo (EUPJ). A spingerci è stata un’esigenza innanzitutto dettata da un bisogno umano e pedagogico. Credo infatti che un bambino non possa vivere per tanti anni senza sapere se potrà vivere come ebreo oppure no. È ingiusto che un bambino che ha un padre ebreo, ma una madre non ebrea, se entrambi i genitori sono concordi nel farlo crescere come ebreo, debba vivere in una totale incertezza fino all’ultimo momento. Invece si dettano molte regole – andare al tempio, andare a scuola ebraica per tanti anni, a esempio – senza alcuna certezza in cambio. Quando ero presidente della Consulta della Comunità Ebraica di Roma ho discusso varie volte questo aspetto. Noi venivamo da un mondo in cui era più facile ottenere il ghiur, e anche questo non andava bene, perché c’erano regole diverse a seconda del rabbino in carica; però oggi mi sembra che ci siano limiti eccessivi. Di recente sono tornata in Consulta. Sono passati oltre vent’anni da quando discutemmo il tema, e non ho potuto fare a meno di pensare quanti giovani ebrei in più mi sarei potuta trovare davanti se, a quel tempo, si fossero prese altre decisioni. Al Beth Hillel diamo la possibilità a molti di quei ragazzini di essere riconosciuti ebrei e di sentirsi accolti.

la comunità di Beth Hillel

Sentendoti parlare non posso fare a meno di chiederti un tuo giudizio sul rabbinato italiano.

Non so. Insomma, è difficile dire in generale, perché le situazioni non sono tutte uguali. Occorre distinguere. In alcune città secondo me non sempre c’è la figura adatta al ruolo. A me piace ricordare il rabbino che avevamo a Modena ai miei tempi, rav Lattes. Era una figura a portata di mano, per così dire: ad esempio non era difficile incontrarlo, assieme alla moglie, quando faceva la spesa il venerdì mattina al mercato. Questo incuriosiva anche i non ebrei e aiutava a creare un clima di reciproca comprensione. Molto spesso oggi manca questo immedesimarsi, questo riuscire a farsi capire. Ma forse sbaglio.

Per chiudere, mi piace provare a chiudere un cerchio ideale. Oggi tuo figlio Daniel è presidente del Pitigliani. Che impressione ti fa?

il Pitigliani, oggi

Sono molto contenta che siano le nuove generazioni a occuparsi della nostra comunità. Oggi Daniel è impegnato in comunità e gli altri figli partecipano anche alla comunità del Beth Hillel. I miei nipoti sono tutti ebrei, due dei quali vivono all’estero, e molta della mia famiglia vive in Israele. In questo mondo ebraico così internazionale, comunque mi piace l’idea che uno dei miei figli si impegni nella nostra comunità. E spero che il Pitigliani possa finalmente tornare a operare pienamente, dopo gli anni del Covid che ne hanno giocoforza limitato le possibilità. Se potrò, mi piacerà dare un contributo, come volontaria, alle loro iniziative.

Leggi  le altre interviste a donne del mondo ebraico italiano

Ascolta i podcast di Riflessi

 

Vi ricordiamo che:

venerdì 8 marzo esce il primo libro di Riflessi: “Donne del mondo ebraico italiano”.

Un’antologia delle interviste pubblicate da Riflessi in questi anni a donne che, in Italia e all’estero, hanno contribuito in più campi al miglioramento della società e alla diffusione della cultura ebraica.

 

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