Il voto europeo è un voto per la libertà (anche italiana)
Ferruccio De Bortoli esamina per Riflessi gli scenari internazionali che si apriranno dopo il voto di giugno: dall’Ucraina a Gaza, dagli Usa a Taiwan
Dottor De Bortoli, oggi 9 maggio è la giornata dell’Europa. A 30 giorni esatti dal prossimo voto europeo, che prospettive ha il nostro continente?
La prima considerazione da fare è che alle elezioni per il Parlamento europeo dell’8 e 9 giugno l’Europa deve riuscire a portare al voto più della metà dei cittadini. Già negli anni ’90 ci fu un crollo della partecipazione, mentre ricordo che alla prima elezione diretta del Parlamento europeo, nel 1979, l’affluenza fu in media del 62% e quella italiana di oltre l’80%. La sfida del prossimo voto è perciò ottenere una partecipazione superiore al 50%. In caso contrario, infatti, non solo il Parlamento europeo, ma anche la Commissione e il Consiglio, che saranno formati nei mesi successivi, avranno un serio problema: quello di dimostrare di essere legittimati a tutelare gli interessi e i valori europei. C’è poi un altro tema importante. Ritengo sempre utile rileggere il discorso pronunciato da Simon Veil, sopravvissuta ad Auschwitz, in occasione della sua nomina a presidente del Parlamento europeo, il primo Parlamento eletto direttamente dai cittadini. In quella occasione disse che l’Europa doveva tutelare la libertà, la pace e il benessere.
Non a caso pose il benessere al terzo posto. Certo, eravamo nel 1979 e Simon Weil era sopravvissuta ad Auschwitz; eppure, se noi ponessimo quelle parole a fianco a quelle pronunciate da Robert Schumann, Alcide De Gasperi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni, scopriremmo che l’Europa nasce soprattutto per dare libertà e pace al nostro continente, dopo una lunga e tragica storia fratricida. Questo credo sia oggi l’aspetto più importante che dovremmo ricordare: assicurare la libertà e la pace. Il benessere viene dopo. Dobbiamo essere consapevoli che noi europei abbiamo deciso di stare insieme non per essere più ricchi, ma più liberi nei diritti.
Uno dei temi più importanti di questa campagna elettorale riguarda l’impegno europeo nel fronteggiare l’attacco russo all’Ucraina. Nelle settimane scorse il presidente Macron ha ventilato la possibilità di inviare soldati francesi al fronte. Più di recente il presidente Monti è sembrato considerare il rischio che i cittadini europei tornino ad imbracciare le armi per difendere l’Europa. Pensa che questo sia un rischio concreto?
Io credo che noi non possiamo delegare soltanto agli Stati Uniti e alla NATO la nostra sicurezza, e che non sia giusto che a pagare la nostra libertà sia solo l’alleato americano. Quanto alla posizione di Emanuel Macron, che certo non è un guerrafondaio, condivido la sua preoccupazione per il nostro futuro. Oggi indubbiamente ci troviamo minacciati ai nostri confini e se finora abbiamo avuto un atteggiamento solidale verso l’Ucraina, allora non possiamo escludere nulla di principio. Sarebbe infatti contraddittorio dichiarare anticipatamente che non utilizzeremo mai le armi, perché questo significherebbe squalificare tremendamente la nostra capacità di deterrenza, ed è ormai evidente che Putin conosce soltanto il discorso della forza. Tuttavia, nel discorso di Macron c’è anche un’aporia. Occorre infatti dire la verità e chiarire come dovrebbe essere finanziato l’esercito europeo. Le strade sono solo due: elevare la spesa pubblica, ad esempio tagliando il welfare o aumentando le tasse; oppure facendo maggiore debito. Inoltre, ritengo che la posizione del presidente francese abbia un’altra contraddizione. Fu infatti la Francia, negli anni ’50, a impedire la nascita di un esercito comune europeo. Se oggi la Francia vuole davvero percorrere questa strada, dovrebbe dire se intende condividere con il resto d’Europa la sua force de frappe nucleare oppure no. È evidente che in questo secondo caso la capacità di deterrenza europea sarebbe molto minore.
Un’altra guerra che l’Europa osserva con sentimenti diversi è quella in corso a Gaza da oltre 7 mesi. Come giudica la posizione di Israele?
Purtroppo in questi mesi abbiamo assistito a una sostanziale derubricazione di un pogrom, quello realizzato da Hamas a danno di cittadini israeliani lo scorso 7 ottobre, che non ha sollevato grandi proteste internazionali, tantomeno nelle università, che certo non si sono fermate in segno di solidarietà dopo quell’orribile massacro. Detto questo, io considero Netanyahu responsabile di un massacro in corso, quello a Gaza, dove molti civili hanno perso la vita, tra cui moltissimi bambini. Da grande amico di Israele, osservo con sofferenza il fatto che nell’opinione pubblica internazionale ormai si confonda Netanyahu con lo Stato di Israele e con il popolo ebraico.
È un approccio sbagliato, che se applicato in generale vedrebbe noi italiani di oggi responsabili della dittatura fascista, così come il popolo tedesco responsabile dei crimini nazisti, o tutti i cittadini russi responsabili delle scelte criminali di Putin. Per questo mi stupisco che nelle università americane e nella pubblica opinione sia possibile attaccare così a fondo Israele, che in realtà è custode di valori occidentali, e che è una democrazia, per quanto imperfetta e da ultimo radicalizzata e confessionale. Infine, davvero non mi spiego come sia stato possibile che uno Stato democratico come Israele abbia nettamente perso la guerra di comunicazione a vantaggio di Hamas. Netanyahu è responsabile di aver disperso il credito di Israele verso le opinioni pubbliche internazionali, ossia presso le democrazie rappresentative.
In questa guerra della comunicazione è di nuovo emerso l’odio antisemita.
Il nuovo antisemitismo che emerge da queste proteste contro Israele deve porci un serio interrogativo. Dovremmo cioè tutti domandarci se abbiamo fatto il possibile per combattere l’antisemitismo o se invece abbiamo commesso degli errori. Io propendo per questa seconda ipotesi. Mi sembra evidente che non siamo stati capaci di costruire un discorso corretto sulla tutela della memoria, e che evidentemente nella cultura europea e cattolica esistono ancora scorie antisemite che abbiamo sottovalutato.
In occasione della festa della Liberazione, lei tracciò in un suo editoriale sul Corriere della Sera un percorso che passa per il 25 Aprile, attraversa il 1° maggio, arriva al 2 giugno: tre date su cui si poggia la Repubblica italiana. Oggi come giudica lo stato di salute della nostra democrazia?
Ancora oggi la nostra democrazia è considerata dagli osservatori internazionali sostanzialmente una democrazia non del tutto compiuta. Nell’ultima classifica stilata dall’Economist, ad esempio, l’Italia è ancora considerata una democrazia in progress: pensi ad esempio alla libertà di stampa, che rischia di non essere garantita appieno. Naturalmente non credo nel rischio di un ritorno del fascismo, tantomeno in una svolta autoritaria. E tuttavia penso che vadano combattuti quei germi, sempre più evidenti, di insofferenza per le procedure democratiche, quel disprezzo per le istituzioni terze di garanzia. Occorre ricordare che il consenso elettorale non fornisce una legittimazione a fare tutto quel che si vuole, perché se l’articolo 1 della Costituzione afferma che la sovranità appartiene al popolo, è anche vero poi che lo stesso articolo precisa che essa viene esercitata nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione. Ripeto, non temo una torsione autoritaria della nostra democrazia, quanto piuttosto un progressivo diluirsi e annacquarsi dei valori democratici. Temo una situazione in cui gli italiani si convincano che la libertà si possa barattare in cambio di maggiore sicurezza, di una maggiore tutela corporativa, o anche solo di un maggiore benessere.
Questo mi preoccupa. Le istituzioni democratiche, infatti, sono destinate a deperire se non coltivano in continuazione il culto della memoria nelle proprie radici e la consapevolezza che i diritti non sono acquisiti in via naturale, ma sono il frutto di una conquista a caro prezzo delle generazioni che ci hanno preceduto. Oggi temo il rischio di un appassimento progressivo di tale consapevolezza, come dimostrato da una sempre minore partecipazione al voto. È per questo che giudico la riforma istituzionale proposta dal governo Meloni pericolosa, perché accelera questo processo di appassimento di cui le parlavo.
Che giudizio dà di Giorgia Meloni e di Elly Schlein?
Credo che in entrambi i casi assistiamo a una sorta di sdoppiamento. Per quanto riguarda Giorgia Meloni, se in Europa si è dimostrata più europeista di quanto potessimo pensare, aderendo in modo sorprendente alle posizioni che lei stessa in campagna elettorale aveva rigettato, esiste poi una Meloni italiana, per così dire, che compensa la prima con la mimica della donna di borgata, esponente di una politica populista e radicale che sollecita e si riconosce nelle radici di una destra spesso nostalgica, e che soprattutto è a capo di una classe dirigente che finora si è dimostrata del tutto inappropriata.
E per quanto riguarda Elly Schlein?
Anche lei sembra interpretare due ruoli. Da un lato è la segretaria del Partito democratico, che in tale veste deve tenere insieme diverse correnti, cosa che riesce a fare a fatica, obbligata a sostenere posizioni, come quelle sull’Ucraina, che chiaramente dimostra di non condividere. Dall’altro lato, c’è la Elly Schlein più sensibile alle battaglie radicali, in questo più in sintonia con un movimento politico come quello dei 5 stelle, tentata da un ecologismo radicale, da una totale adesione alle posizioni della Cgil, molto meno riformista di quanto si possa pensare. Insomma, da un lato c’è la Schlein segretaria di un partito, dall’altro la Schlein movimentista.
Entrambe saranno candidate alle prossime elezioni europee, insieme a centinaia di altri candidati. Che classe dirigente porteremo in Europa?
Probabilmente porteremo in Europa candidati non competenti, né disposti a, o capaci di, svolgere un lavoro complesso come quello richiesto nel prossimo Parlamento europeo su molti dossier spinosi: pensi alla Politica agricola comune, all’Intelligenza artificiale, alla transizione energetica. Inoltre porteremo candidati eletti in quanto bandiere di battaglie identitarie, una caratteristica questa molto italiana. Quello che mi colpisce, piuttosto, e che probabilmente saranno eletti al Parlamento europeo figure che, seppur su fronti opposti, esprimono posizioni molto simili, ad esempio in tema di immigrazione, o sulla guerra in Ucraina. Trovo questa convergenza fra destra e sinistra piuttosto curiosa.
Un’ultima domanda. Le grandi turbolenze in corso, in Ucraina, Gaza, e sullo sfondo a Taiwan, attendono di capire se prevarrà la politica o la guerra. A novembre si vota inoltre per il nuovo presidente americano. Da qui a 5 mesi, come valuta lo sviluppo della scena internazionale?
È chiaro che gli Stati Uniti sono interessati esclusivamente a confrontarsi con la Cina, e che dall’esito di tale confronto dipenderà anche l’andamento dei conflitti oggi aperti. In tale scenario, l’Europa rischia oggettivamente di diventare irrilevante. Non è ancora chiaro se ci troviamo alla vigilia di una fase ulteriormente conflittuale, o se sarà possibile passare ad un’altra forma di guerra fredda, magari che passi non più per l’Europa, ma nel Pacifico, che oggi mi sembra essere il vero baricentro planetario. In ogni caso, noi europei rischiamo di essere spettatori di questo scontro per l’egemonia fra Cina e Stati Uniti, il cui esito dipenderà anche dalla scelta degli elettori americani il prossimo novembre.
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