Shlomo ci racconta quello che non ha mai visto nessuno
Ruggero Gabbai è il regista del film documentario su Shlomo Venezia, uno dei pochissimi sopravvissuti del SonderKommando
Ruggero Gabbai, come è nato il film su Shlomo Venezia?
Da anni c’era l’idea di spiegare cosa fossero stati il Sonderkommando e la realtà dello sterminio; Shlomo Venezia, da subito, era l’unico che potesse testimoniare l’orrore all’interno delle camere a gas. Lo abbiamo filmato più volte, a cominciare dal 1995; dietro questo film c’è infatti un importante lavoro di restauro di oltre 400 ore di testimonianze dall’archivio della memoria del CDEC, cui sono state aggiunte immagini originali girate in Grecia, Roma, Milano e Austria pochi mesi fa. Nel 1995, filmando Shlomo per la prima volta sui luoghi dello sterminio, ci siamo resi conto che era davvero un testimone eccezionale.
Perché?
Perché Shlomo era lì, dentro alle camere a gas. Il suo lavoro specifico, infatti, era di seguire tutte le operazioni prima e dopo la gassazione degli ebrei, fino alla cremazione dei corpi. Shlomo, insomma, ha visto da dentro lo sterminio e la macchina della morte nazista. È stato indispensabile recuperare la sua testimonianza e ricreare una narrazione precisa rispetto al buco nero della Shoah: lo sterminio degli ebrei. È notevole la differenza tra Shlomo e gli altri testimoni. Nedo Fiano, Liliana Segre, Settimia Spizzichino e tutti gli altri 97 testimoni che abbiamo filmato per il film Memoria, infatti, potevano solo immaginare la realtà delle camere a gas. Loro vedevano il camino che fumava e il fuoco dei forni. Shlomo aveva un punto di vista a un passo dalla morte. Gli altri testimoni raccontano la prigione, lui racconta la Shoah, la gente che non capisce nulla all’arrivo e muore pochi minuti dopo. Per questo, credo che il film faccia definitiva chiarezza su un equivoco che si è trascinato a lungo.
Quale?
Occorreva chiarire che gli ebrei selezionati per far parte del Sonderkommando non partecipavano in alcun modo all’uccisione dei prigionieri appena scesi dai treni. In passato, infatti, si è creato questo equivoco. Primo Levi, ad esempio, ne accenna ne I sommersi e i salvati, definendoli “corvi neri”. Credo che con questo film possiamo finalmente dare un’idea precisa del compito e del ruolo dei Sonderkommando, anche grazie alla grande dignità e precisione del racconto di Shlomo.
Una cosa che colpisce, del racconto di Shlomo, è lo stile asciutto, che non viene mai meno, neanche quando descrive le scene più dure.
È vero. Racconta con una capacità espressiva molto particolare. Il suo italiano è preciso, ma semplice; lo aveva imparato infatti a Salonicco, da dove era stato trasferito dai nazisti prima ad Atene e poi ad Auschwitz. Shlomo era conscio che doveva dire esattamente quello che aveva visto, e in questo ci metteva del pudore, che forse gli serviva per darsi forza e fare un passo indietro rispetto all’orrore che aveva visto. Chi lo conosceva sapeva che Shlomo era anche un uomo di grande dolcezza e gentilezza, riflessivo ma capace di una sorta di umorismo pungente. Credo che il suo più grande dono sia stato farci entrare nel suo animo, regalandoci la sua testimonianza.
Shlomo, come hai detto, non è stato l’unico a raccontare. Tu, in particolare hai filmato molti testimoni. Qual era il rapporto tra loro?
Molti, come Piero Terracina e Sami Modiano, in tarda età sono diventati grandi amici. Alcuni di loro a volte si confrontavano su chi ricordasse di più dei campi, altri invece, come Liliana Segre, non ce l’hanno mai fatta a tornare ad Auschwitz. In ogni caso, testimoniare non è mai stato facile, per nessuno di loro. Erano tutti uniti da una grande solidarietà; purtroppo data anche dal grande senso di colpa di essere sopravvissuti ai loro cari. Credo che nel profondo nessuno di loro sia mai uscito completamente dai cancelli di Auschwitz.
Quello che colpisce, nel tuo film, è l’avvio, con una ripresa dall’alto verso la città di Salonicco, in una giornata d’estate. A me è sembrata la metafora dei rapaci nazisti, che vengono a distruggere un mondo in cui gli ebrei avevano una presenza importante.
Credo che dobbiamo contrapporre la bellezza dei luoghi con l’orrore umano, almeno questa è una mia costante. Gli esseri umani sono capaci di luci e ombre, purtroppo in determinate situazioni chiunque può essere carnefice. I film e la letteratura servono a creare degli anticorpi contro questa possibilità. Rispetto alla sua domanda sulla ripresa dall’alto, credo che sia stato importante iniziare il film con i colori e il mare della Grecia ripresi dall’alto, e gli abitanti ebrei di Salonicco sono i piccioni che volano via, spazzati dai tragici eventi della storia.
Il film su Shlomo non è il primo dedicato alla Shoah. Nella tua filmografia però esistono anche altri lavori.
Sì, ho fatto film su molti altri argomenti. I due film che ho fatto sulla mafia sono forse quelli che si avvicinano di più alle testimonianze della Shoah: c’è qualcosa che unisce la qualità e dignità delle testimonianze delle vittime della Shoah e della mafia, entrambi devono fare i conti con una violenza inumana che di colpo sconvolge le loro vite. Per me è importante anche il tema della memoria dopo l’esilio e il trauma di dover lasciare il proprio paese. Nel mio penultimo film du TGM au TGV, da poco uscito in Francia, torno sul tema dell’esilio parlando della comunità ebraica tunisina emigrata in Francia. I testimoni che hanno vissuto l’esilio negli anni ‘60 nel film si intrecciano con le nuove generazioni che oggi hanno vent’anni e hanno ereditato il trauma dell’esilio pur senza averlo vissuto. In questo senso mi interessa approfondire il legame che c’è fra trauma psicologico e vicissitudini storiche.
Dove si può vedere il film su Shlomo?
È stato comprato da Rai cinema e oggi lo si può vedere su Raiplay. Inoltre il 17 aprile sarà trasmesso a Milano in occasione del Yom HaShoah, il giorno della memoria in Israele. Come gli altri miei film, avrà anche una distribuzione all’estero.
Questo modo di raccontare, attraverso la camera da presa, può essere un altro modo di conservare la memoria?
Si è già aperto il dibattito della trasmissione della memoria dopo che non ci sarà più nessun testimone in vita. Le testimonianze letterarie e cinematografiche saranno sempre più importanti ed essenziali per conoscere la Storia Con Il respiro di Shlomo vogliamo aprire un nuovo stile narrativo della Shoah, dove l’archivio diretto dei sopravvissuti viene montato assieme ai testimoni di oggi – in questo caso per esempio Walter Veltroni e Roberto Olla – creando una sceneggiatura che dal punto di vista narrativo mantiene la testimonianza storica ma la rende contemporanea, con un linguaggio attuale.
Vedi il film “Il respiro di Shlomo”
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Una risposta
Bell’articolo, è bravo Massimiliano Boni ad illustrare figure e prestazioni umane chiamate ad assicurare nei Campi il perfetto svolgimento di quella “macchina infernale” creata dal nazismo. È suggestivo e tragicamente vero che certamente la profonda coscienza di costoro mai è riuscita a superare i cancelli dei Campi, lasciandosi alle spalle orrori e dolori.