2 giugno: la bussola della Repubblica
La festa della Repubblica, ci spiega lo storico Maurizio Ridolfi, evidenzia il ruolo del Quirinale, garante della memoria del paese, mentre il governo Meloni segue direzioni diverse
Professor Ridolfi, vorrei cominciare…da Alessandro Manzoni. Come dobbiamo interpretare le parole del presidente Mattarella in occasione dei 150 anni dalla morte dello scrittore: una lode a un patriota nazionalista che difendeva la famiglia patriarcale o un monito contro i nazionalismi e i razzismi?
Nella storia dei presidenti repubblicani – da Lugi Einaudi a Sergio Mattarella – il Capo dello Stato ha sempre svolto anche una funzione di pedagogia civile. È quanto la Costituzione gli assegna e che si esplica in vario modo; in primo luogo, facendo riferimento ad eventi e personaggi storici di cui ricordare le gesta e le eredità morali e culturali. Assumendo di volta in volta il linguaggio della predica e/o della lezione educativa, egli ammonisce gli indolenti e gli ignavi sui valori della Repubblica democratica. Nel caso della commemorazione di Alessandro Manzoni, “padre della patria” nella sua più ampia accezione politico-culturale, Mattarella ricorda in modo chiaro che i valori della nostra Costituzione si oppongono – ha osservato – “a nefaste concezioni di supremazia basate su razza e appartenenza”: “è la persona […] e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti”.
Oggi è la festa della Repubblica, cui lei ha dedicato uno studio in più volumi. Che rapporto hanno gli italiani con il 2 giugno?
Non possiamo negare un processo in atto nel discorso pubblico: l’inverarsi di una sorta di sradicamento nell’identità politica e culturale della Repubblica. Eppure, ancora oggi, dopo oltre settant’anni, il concetto di Repubblica, a differenza di definizioni invece fortemente divisive – come Stato e Nazione -, è largamente percepito in termini positivi. La Repubblica è intesa come un’istituzione partecipativa, la cui legittimazione nel referendum popolare del 2-3 giugno 1946 ne permise la nascita senza fratture e che ha permesso di preservarla di fronte alle crisi drammatiche che il Paese ha attraversato. Occorre però chiederci per quali motivi il momento fondativo della Repubblica non sia divenuto la risorsa di un effettivo sentimento repubblicano. Nel rinnovare la simbologia e le immagini della Repubblica, necessitiamo di un lessico accessibile e capace di ricongiungersi ai diritti soggettivi, al “vissuto” sociale e culturale dei cittadini. Il giorno di festa nazionale va rimotivato in tutto il Paese; alle cerimonie nella capitale vanno accompagnate manifestazioni storico-culturali nei territori. Ripensandone la fondazione, serve rendere vivi i caratteri identitari della Repubblica attraverso storie comunitarie che permettano l’attualizzazione dei valori repubblicani: le libertà individuali, il rapporto tra le generazioni nella tutela dei beni comuni, i diritti e i doveri di una cittadinanza attiva, la giustizia sociale, l’apprendistato e l’educazione democratici, il rifiuto della guerra come fondamento delle relazioni internazionali.
Il Movimento sociale italiano si è subito e sempre riconosciuto nei valori repubblicani del 2 giugno?
La nascita del Movimento sociale italiano, alla fine del 1946, si ebbe sulla base di una continuità morale e politica con l’ultimo fascismo saloino e si mantenne sempre al di fuori dei valori democratici e costituzionali della Repubblica. Il perdurante misconoscimento della Liberazione del 25 aprile come fondamento morale della Repubblica, indusse il Msi (per tutto il periodo in cui fu Giorgio Almirante il suo leader, morto nel 1988) a rimanere estraneo alle liturgie repubblicane. Fu invece con l’avvio di una fase bipolare nella politica italiana, con la legittimazione degli eredi del Msi (con Alleanza Nazionale) come forza di governo nazionale (nel 1994), che fu avviato un processo di revisione e di adesione alle manifestazioni del 2 giugno.
Il 2 giugno è la terza tappa di quel calendario civile che Liliana Segre aveva tracciato a inizio legislatura, assieme al 25 aprile e al 1° maggio. Vorrei chiederle un giudizio su come Giorgia Meloni ha interpretato le prime due date, prima attraverso la lettera al Corriere della Sera, poi con il famoso video a palazzo Chigi. Che tipo di narrazione vuole diffondere, secondo lei?
Il governo che la destra esprime attraverso la guida di Giorgia Meloni non riesce a far proprio l’orizzonte valoriale del calendario civile repubblicano. Manca una esplicita adesione ai valori morali che sono alla radice della nostra Repubblica. Se comprensibile era quella riluttanza nel momento in cui si era forza d’opposizione o formazione residuale nel polo della destra italiana, oggi che si svolgono precipue funzioni di governo, nel contesto nazionale ed internazionale non sono più ammissibili reticenze e dissimulazioni. Il 25 aprile è festa della Liberazione dal fascismo succube del nazismo e non solo, genericamente, festa della libertà. Il Primo Maggio è la festa internazionale dei lavoratori, che non può divenire l’occasione strumentale e surrogatoria per misure di governo che ben altra cornice dovrebbero avere sul piano istituzionale. Si vogliono marginalizzare le responsabilità del regime fascista, di fatto incorporandolo nella storia d’Italia come accidente o banale elencazione di qualche errore (a partire dalle leggi razziali del 1938). Come tutti noi sappiamo, la violenza e la repressione di ogni libertà e diritto sono intrinseci alla storia del fascismo fin dalle origini, in Italia e nello svolgimento della sanguinaria e razzista politica di conquista coloniale. La memoria pubblica non può alimentarsi dell’oblio della storia ed essa necessita di un confronto critico scevro da ogni opportunismo e falsa coscienza.
Più in generale, come giudica i primi mesi del governo più a destra della Repubblica? Giorgia Meloni è davvero l’underdog che ha voluto descriversi il giorno della fiducia in parlamento?
Giorgia Meloni nacque nel 1977 e il suo apprendistato politico avvenne all’epoca in cui il Movimento sociale e il suo leder Giorgio Almirante si consideravano estranei ai valori antifascisti della Repubblica. Con la trasformazione del Msi in Alleanza Nazionale si aprirono le porte di un pieno coinvolgimento nella vita delle istituzioni anche con funzioni di governo. Dopo aver guidato le formazioni giovanili di AN, Meloni entrò nel 2006 (a 29 anni) alla Camera dei deputati e divenne Ministro della Gioventù nel quarto governo Berlusconi (tra 2008 e 2011). Cofondatrice di Fratelli d’Italia alla fine del 2012, ne divenne presto presidente. Insomma, tutt’altro che la carriera di una underdog è stata quella di Giorgia Meloni. I primi mesi dell’azione del governo di destra da lei guidato riflettono tutte le ambiguità e le contraddizioni di orientamenti che dissimulano in modo spesso maldestro le tradizioni di provenienza, lontani dalla destra repubblicana che tutti auspicheremmo: ovvero pienamente riconducibile alle radici antifasciste della Repubblica e alla tutela dei valori di pluralismo culturale, rispetto dei diritti individuali e libertà di coscienza propri della nostra storia democratica.
Negli ultimi vent’anni la crisi del sistema politico italiano ha proporzionalmente aumentato ruolo e prestigio della figura del Presidente della Repubblica. Può aiutarci a comprendere qual è la bussola che il presidente Mattarella si sta dando per esercitare il suo secondo mandato?
A partire dal settennato di Oscar Luigi Scalfaro, la crisi del sistema politico e il coinvolgimento dell’Italia nel processo di integrazione europea hanno evidenziato un accresciuto ruolo dei presidenti sia nella politica interna sia in quella concernente il ruolo internazionale del Paese. Già Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano dovettero misurare il processo di integrazione europea con il mutamento di sensibilità nell’opinione pubblica italiana, la crisi del sistema dei partiti e la delegittimata influenza della classe politica italiana. Lo ha fatto in più circostanze anche Mattarella: si pensi, per esempio, alla crisi degli anni 2018-’19, ma anche a più recenti occasioni (nel rapporto con la Francia). Mattarella sta contribuendo inoltre a motivare le ragioni ed i sentimenti di una “patriottismo repubblicano” sensibile alle sfide europee e transnazionali, refrattario ad ogni deriva sovranista e nazionalistica. La pedagogia civile promossa dal presidente è intesa a favorire l’espandersi di pratiche di “cittadinanza attiva” e con essa la formazione di una cultura diffusa di “costituzionalismo civico”. Ascoltando e decodificando i discorsi di Mattarella, possiamo osservare quale e quanto rilievo assumano le esortazioni a mettere in pratica una “buona politica”, ad un esercizio dei doveri da parte dei cittadini che accompagni la tutela dei diritti, alla promozione di una idea e di una prassi di “Repubblica solidale”.
È possibile che i messaggi inviati dal Quirinale, volti a correggere alcune affermazioni (o le correzioni richieste su alcuni atti) del governo, possano portare a una vera frizione con Giorgia Meloni?
Sarebbe sbagliato interpretare i discorsi presidenziali come una voluta correzione di affermazioni e provvedimenti governativi. La bussola di ogni intervento del presidente rimane sempre la Costituzione ed egli opera nella ricerca di un equilibrio di poteri che richiede l’interazione tra Parlamento (dove siedono i rappresentanti dei cittadini), Governo (di volta in volta mutevole) e Quirinale. Dopo di che, Mattarella esprime un suo stile presidenziale e riflette una salda cultura politica delle istituzioni, obbligando ogni suo interlocutore a tenere bene in conto la voce della sola autorità che nel Paese continua a godere la fiducia della grande maggioranza degli Italiani.
Populismi e nazionalismi sembrano prendere piede, in modo diverso, in molte democrazie. Negli ultimi due anni abbiamo visto l’assalto a Capitol Hill nel 2021, le proteste in Francia contro il presidente Macron e quelle contro la riforma istituzionale del governo Netanyahu in Israele. In Italia abbiamo conosciuto il populismo della lega e poi quello del movimento 5 stelle. Secondo lei si tratta di fenomeni del tutto autonomi, o ci dicono qualcosa di un malessere che stanno vivendo le democrazie occidentali?
Nell’interrogarci sulle trasformazioni della democrazia e nell’affrontare il mutevole rapporto tra i poteri pubblici e i cittadini, sempre più centrale sono divenuti il ruolo e la figura del presidente della Repubblica (su questo tema il professor Ridolfi ha pubblicato con Giovanni Orsina il volume “La Repubblica del presidente. Istituzioni, pedagogia civile e cittadini nelle trasformazioni delle democrazie”, Viella 2022, n.d.r). Guardando sia alle presidenze “di garanzia” (in Italia come in Israele o in Germania) sia a quelle “governanti” (in Francia come negli Stati Uniti o in paesi sudamericani come il Cile e il Brasile), il Capo dello Stato svolge un ruolo essenziale nella coniugazione di storia e memoria pubblica. Egli può alimentare o contrastare i linguaggi del populismo e dei nazionalismi. Eventi recenti in diversi paesi ne hanno dato riprova; i fenomeni di distacco tra i cittadini e le istituzioni ne sono ovunque un riflesso comune. In Italia, il populismo ha rappresentato una delle conseguenze più eclatanti della crisi di legittimazione delle istituzioni e della classe politica. In entrambi i casi, è stato il Capo dello Stato a tentare di farvi fronte, muovendo sempre dai valori costituzionali e da una loro narrazione attualizzata: come anche il presidente Mattarella sta facendo con senso della misura e sobrietà, ma con grande determinazione.
Leggi anche:
l’Italia rischia nuovi razzismi (Simon Levis Sullam)
una lacrima sul viso (Massimiliano Boni)
sono finiti gli esami? (Alberto Cavaglion)
Mussolini e gli underdog italiani (David Bidussa)
il pendolo della memoria non finisce mai di oscillare (Alberto Cavaglion)
Il partito di Giorgia Meloni non ha ancora fatto i conti con il passato (Simona Colarizi)
Il museo della shoah e la politica (Michele Sarfatti)
Il 25 aprile divide chi è democratico da chi non lo è (Alessandro Portelli)
La cultura politica del governo Meloni (Simon Levis Sullam)
La destra di Giorgia Meloni non si riconosce nell’Europa (Anna Foa)
I silenzi di Giorgia Meloni non possono essere superati da una lettera (Gabriele Ranzato)