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Traduco e insegno l’ebraico per combattere il pregiudizio

Anna Linda Callow traduce da anni letteratura ebraica e yiddish. A Riflessi spiega perché ora si è messa anche a insegnarlo

Anna Linda Callow, da anni lei traduce letteratura ebraica e yiddish per i lettori italiani, eppure non è ebrea. Com’è nata questa passione per la lingua ebraica?

Anna Linda Callow, traduttrice e scrittrice

L’ho spiegato nell’incipit del mio libro “La lingua che visse due volte”. Quando ero molto piccola, avrò avuto circa quattro anni, mi ero follemente innamorata dell’amico di mio padre, il signor Rosenthal, un chiaro esempio di ebreo askenazita. Fu il classico complesso di Edipo… trasferito sull’amico di mio padre. Quando di lì a poco il signor Rosenthal divorziò io mi offrii prontamente di sposarlo, ma lui, che aveva trent’anni più di me, rifiutò. Sono sempre rimasta legata a questo amore infantile, e anche crescendo credo sia rimasto in me un filo di ricordo. All’università, in un periodo non facile della mia vita, decisi di seguire un corso di ebraico. Ci andai con un atteggiamento quasi scherzoso, ma rimasi subito catturata dalla potenza linguistica dell’ebraico e della cultura ebraica. Mi misi a studiare l’ebraico come una matta, e poco dopo mi volsi anche all’Yiddish, anche se dopo qualche resistenza iniziale, che poi invece mi afferrò allo stesso modo. Insomma, l’ebraismo e l’ebraico per me è stato soprattutto un fatto emotivo, non solo un interesse filologico, e ha segnato tutta la mia vita.

l’ultimo libro di A. L. Callow

Lo stesso amore prova anche per Israele?

In un certo senso sì. Il percorso che mi ha portato a far conoscere Israele nasce infatti dalla passione per la lingua ebraica. Da ragazzina lessi “Gerusalemme! Gerusalemme!” di Lapierre e Collins. Era un libro di attualità e non di storia, ma tentava di offrire una visione abbastanza equilibrata del conflitto. Io lo lessi come un romanzo di formazione romantico su Israele e di fatto fu anche il mio romanzo di formazione. La prima volta che sono andata in Israele, parecchi anni dopo, già conoscevo l’ebraico, e questo mi ha aiutato moltissimo a sentirmi a casa. Capivo bene le persone più anziane, avevo qualche difficoltà solo con i più giovani. Fu un incontro emotivo, e da allora ogni volta che vado in Israele mi sento a casa. Siccome parlo la lingua sono “riconosciuta”, mi sento in qualche modo parte dell’impresa sionista. Naturalmente, questo non implica alcuna adesione al governo in carica di Israele, perché per Israele, come per ogni altro paese, un conto è il paese e un conto è chi di volta in volta lo guida.

“La Famiglia Karnowsky”, libro molto amato dai lettori italiani

Quali sono gli autori principali da lei tradotti?

Dall’ebraico senz’altro Agnon, tradotto con l’amica Claudia Rosenzweig. Poi Miki Bencnaan, Lizzie Doron. E poi ci sono gli autori yiddish, Sholem Aleykhem, I. J. Singer – in particolare “La famiglia Karnowski”, che ha avuto tanto successo – e Haim Grade.

A quale traduzione sta lavorando ora? 

Sto lavorando proprio su un libro di Chaim Grade, del quale ho già tradotto “La moglie del rabbino” e “Fedeltà e tradimento”.

Che caratteri ha a suo avviso la letteratura israeliana?

Sono sempre un po’ restia a classificare gli autori in base al paese di appartenenza. Potrei dire, con una battuta fino a un certo punto, che fare troppe classificazioni è un po’ come fare… avodà zarah! (idolatria, n.d.r.). La letteratura infatti, tende a essere sempre un po’ trasversale, perché gli autori si leggono e dialogano tra loro. E poi la letteratura ebraica moderna è nata nella seconda metà dell’Ottocento, decenni prima della nascita dello stato, e di fatto è stata scritta in Europa e profondamente influenzata dalla sua cultura. Autori come Agnon hanno scritto sia prima sia dopo la nascita dello stato. Per non parlare del fatto che autori di grande importanza scrivevano contemporaneamente sia in ebraico, sia in yiddish.

Shmuel Agnon (1888-1970)

Quindi, non c’è alcun tratto distintivo?

Una distinzione che può essere utile è tra gli autori che iniziano a scrivere prima della nascita dello Stato di Israele e quelli che cominciano dopo il 1948. Quelli della prima categoria si interrogano soprattutto su se stessi e sul posto degli ebrei nell’Europa moderna. Questo ad esempio si sente moltissimo nella letteratura yiddish. Dopo il 1881, quando in Russia si registrano gravissimi pogrom, a seguito dell’assassinio dello zar, tutta la letteratura scritta in yiddish accelera questo processo di autocoscienza, dando quasi un senso di vertigine. Prima del 1948 gli autori ebrei parlavano della questione ebraica e cercavano la sua “soluzione”, una formula che poi ha con la Shoah assunto un’aura sinistra.

E dopo il 1948?

da sinistra: David Grossman, A.B. Yehoshua, Amos Oz

Gli autori israeliani che iniziano a scrivere dopo quella data partono dalla condizione di cittadini di uno Stato che garantisce loro una posizione di parità con i loro colleghi degli altri paesi. Questo crea un cambiamento profondissimo, perché avere alle spalle uno Stato fa da sempre una grande differenza. La fondazione dello Stato di Israele cambia molto la percezione di sé. Ora gli scrittori israeliani si considerano alla pari con gli scrittori degli altri paesi e pienamente inseriti nel flusso della letteratura contemporanea occidentale. Nasce quindi un desiderio di parlare una sorta di “lingua comune” e soprattutto di essere conosciuti dai lettori occidentali.

A cosa pensa?

Uno degli ultimi libri tradotti dalla Callow

Prenda per esempio Agnon. Lui scriveva in un ebraico di grande specificità, volutamente impostato sulla lingua rabbinica, seppur adattata a temi secolarizzati. Questo rende la sua scrittura, se non riservata a degli specialisti, comunque molto difficile da tradurre, soprattutto se il poi letta da un pubblico, come accade regolarmente In Italia, che non solo non conosce nulla del Talmud, ma non ha neanche una cultura biblica. Lo stesso discorso potrebbe farsi per altri autori, come Sholem Aleykhem, Peretz, Mendele. Poi, dopo il 1948, prevale come ho detto il desiderio di farsi leggere e farsi comprendere. Un fenomeno analogo, nel campo della letteratura yiddish, si può vedere nella produzione di Isaac Bashevis Singer, il quale ha curato tutte le sue traduzioni traduzioni in inglese, imponendo agli editori stranieri la clausola che circolassero solo volumi tradotti dall’inglese e non dall’yiddish. Direi, quindi, che gli autori ebrei oggi usano una koinè letteraria che rende facile la traduzione e conseguentemente anche la diffusione delle loro opere. Non so fino a quanto siano consapevoli di questa operazione, però mi sembra abbastanza chiaro che esista questo intento. Si investe più sulla trama, insomma, che sulla lingua.

Secondo lei perché ai lettori italiani ed europei piace così tanto la letteratura ebraica?

Credo dipenda da quello che ho detto. Gli autori israeliani sono parte del canone occidentale e allo stesso tempo cittadini di uno stato del Medio Oriente, un mondo radicalmente diverso.

Secondo lei la guerra in corso produce una modifica anche nella percezione della letteratura ebraica da parte dei lettori?

Il festival di letteratura di Mantova ha ospitato spesso scrittori israeliani

Non saprei. In generale sono un po’ pessimista sulla situazione attuale. Io, come ho detto, non ho origini ebraiche, e negli anni mi è capitato molte volte che delle persone sfogassero con me i loro sentimenti antisemiti. Gli ebrei ricchi. Gli ebrei che si aiutano sempre fra di loro. Una volta mi sono sentita dire che dietro all’11 settembre del 2001 c’erano loro. E’ chiaro che questi miei “brutti incontri” non costituiscono un dato statistico, sono però per me una conferma delle statistiche che si leggono. Ora, con questa guerra, non ci sono più freni. Assisto inoltre a una sorta di dissociazione, perché la stessa persona che ammira gli scrittori israeliani o ebrei, naturalmente meglio se morti, è poi sempre pronta a dire cose orribili su Israele e sugli ebrei vivi. La cosa incredibile è che queste espressioni provengono anche da gente “di cultura”, o peggio da persone che si dichiarano pacifisti. Io mi domando come possa considerarsi pacifista una persona che utilizza hate speech verso Israele e gli ebrei. Il risultato è che con molti di questi ho interrotto i rapporti. Rimango ancora colpita da tante persone pronte a esprimere giudizi indossando i panni di storici, senza in realtà sapere nulla della questione mediorientale.

Per questo ha cominciato a pubblicare sul suo canale YouTube delle lezioni di ebraico? 

Callow durante una delle sue lezioni

Sì, proprio per questo clima generale. Ho sentito cioè sparare tante bestialità su Israele e sul conflitto, ho ascoltato l’uso di parole così selvagge e indecorose, che ho ritenuto necessario a modo mio reagire. Mi sono sentita dire che il sionismo è stato da sempre colonialista, ma il colonialismo presuppone per definizione una madrepatria, e il sionismo è nato perché nella “madrepatria” europea si era scatenata la caccia all’ebreo, prima a Est e poi a Ovest, con i risultati che conosciamo. Allo stesso modo non si può parlare di genocidio, perché gli storici e giuristi ci insegnano che di genocidio si tratta solo a determinate condizioni. Se diciamo che tutto è genocidio, tutto è nazismo, le parole si svuotano completamente di significato. Ero così amareggiata che ho voluto ribadire in primo luogo che ciascuno deve fare il proprio mestiere, e parlare di quello che davvero conosce (nel mio caso la lingua ebraica), e in secondo luogo che le parole, quelle dei versetti biblici come quelle del discorso politico, hanno un loro significato, che non può essere dilatato a dismisura per la comodità di slogan ideologici.

Guarda le lezioni di Anna Linda Callow

E inoltre

Ascolta i podcast di Riflessi

Acquista il libro “Donne del mondo ebraico italiano”

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