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Se stiamo insieme ci sarà un perché…

Ogni gruppo sociale sopravvive e si rafforza se riesce a trovare un legame che lo unisce. E per le comunità ebraiche italiane, cosa può servire a rafforzarne la coesione, alla vigilia del rinnovo dell’Ucei?

Yuval Noah Harari, professore di storia all’Università di Gerusalemme, è una delle menti più brillanti ed originali della società israeliana. Alcuni suoi libri, grazie ad una interpretazione non convenzionale dei cambiamenti sociali e antropologici e ad una prosa accattivante e facilmente comprensibile, sono diventati dei bestseller internazionali: penso a “Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità”, “Homo Deus. Breve storia del futuro” e “21 lezioni per il XXI secolo”.

I libri di Harari cercano di fornire risposte alla definizione di cosa sia l’uomo, attraverso lo studio della sua evoluzione storica e sociale, l’analisi dei suoi comportamenti, la selezione naturale che lo ha portato a dominare il creato, i valori che lo spingono a espandere il suo potere, ma anche i disvalori che minano e minacciano l’esistenza della vita sul pianeta.

Se l’uomo è riuscito a salire il più alto gradino dell’evoluzione, lo deve non ad una maggiore capacità della sua massa celebrare o all’acquisizione di una migliore manualità e tecnica. Harari ci ricorda che, ad esempio, l’uomo di Neanderthal o l’Homo Erectus avevano una scatola cranica ben più grande della nostra ed erano in grado di creare manufatti che il cittadino urbanizzato di oggi compra già fatti e che non saprebbe riprodurre.

Il successo evolutivo dell’Homo Sapiens, anche rispetto alle scimmie antropomorfe, sta nella sua straordinaria capacità di collaborare e di interagire con i suoi simili per il raggiungimento di un obiettivo. Già 60.000 anni fa il Sapiens comprese che, ad esempio, nella caccia agli animali la strategia di gruppo era vincente rispetto alle battute di caccia fatte dai singoli. La cosa straordinaria rispetto a tutte le altre specie animali sta, inoltre, nel fatto che l’Homo Sapiens collabora non solo con i simili che lui conosce direttamente (e che secondo gli studi di sociologia non possono essere più di 150 persone), ma collabora anche e soprattutto con individui che non conosce. È questo il caso ad esempio delle grandi aziende, delle strutture gerarchiche come gli eserciti, delle organizzazioni statali e sovranazionali. La cooperazione, la determinazione nel raggiungimento di un obiettivo comune e conseguentemente l’accettazione di regole e comportamenti condivisi, ha consentito al Sapiens di raggiungere traguardi evolutivi impressionanti, scoprendo nuove terre, fino ad imprese straordinarie come superare gli stessi confini del pianeta, alla conquista del sistema solare.

Ma l’evoluzione e la crescita dell’umanità non sono mai state lineari, sono avvenute ed avvengono per strappi, con battute d’arresto e con ripartenze. Insieme agli innegabili successi, vi sono anche innegabili insuccessi e terribili errori, dovuti o alla mancanza di collaborazione o ad una collaborazione volta a contrastare l’evoluzione, a difendere i privilegi, a non modificare condizioni di ingiustizia e di sfruttamento.

La chiave della collaborazione sta o in un interscambio che si instaura tra i soggetti che ottengono un’utilità dallo stare con persone che non si conoscono o dalla comune consapevolezza che si sta insieme sulla base di valori, sentimenti e obiettivi condivisi.

Questo discorso, valido per qualsiasi gruppo sociale (dal più esclusivo Circolo di Golf, al Club della lettura) vale certamente anche per le Comunità ebraiche. Ma qui il discorso si fa difficile, se non addirittura doloroso, perché il ricercare le ragioni dello stare insieme richiede di mettere sul tavolo, di esternare i principi più profondi che sono alla base dell’identità di ciascuno di noi. Non sempre tutti lo vogliono fare e poi si potrebbe correre il rischio di scoprire che forse ci sono più cose che ci dividono da quelle che ci uniscono. Meglio quindi non scavare troppo. Meglio accontentarsi di un ‘minimo comune denominatore’ che a volte è l’antifascismo, a volte è il compattarsi dietro la memoria della Shoah, spesso è contrastare l’antisemitismo e il negazionismo, a volte è il riunirsi dietro la bandiera di Israele, a volte dietro un generico e grossolano affermarsi di essere una comunità giuridicamente ortodossa.

A scanso di equivoci non sto cercando di capire quale sia il collante del popolo ebraico: quello esiste da quattromila anni ed è la Torah (la si voglia o meno rispettare è un dato di fatto incontrovertibile che essa, con i suoi insegnamenti, con il suo altissimo standard etico e morale, ci distingue da tutti gli altri popoli). Quello che vorrei fosse definito è quale sia – sempre che esista – il contratto sociale o se vogliamo chiamarlo il programma politico/sociale/culturale che lega fra loro, e al loro interno, le comunità ebraiche italiane.

Quello che mi chiedo è se l’attuale struttura organizzativa e giuridica sia in linea con le attese dei suoi iscritti e rappresenti la giusta risposta ad una trasformazione dell’ebraismo italiano, soprattutto da un punto di vista demografico, con una polarizzazione della rappresentanza e della visibilità soprattutto su Roma e Milano. Città nelle quali, tra l’altro, il tradizionale centralismo della sinagoga centrale è stata sostituita, ormai da tanti anni, dal crescere di decine di sinagoghe più ‘periferiche’ sempre più autonome ed indipendenti da un punto di vista economico/finanziario, e in alcuni casi anche da un punto di vista ‘giuridico’.

Ogni volta che si è alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del parlamentino dell’Unione delle Comunità, si alzano così le voci che chiedono di modificare l’attuale modello rappresentativo, sulla base dell’evoluzione sociale, demografica e culturale dell’ebraismo italiano. Voci che provengono anche da chi questo modello lo votò una decina di anni fa.

Al di là dei diversi modelli rappresentativi (con i loro pregi e difetti), sarà urgente definire i reali fabbisogni della popolazione ebraica italiana e, sulla base di questi, progettare politiche ed azioni concrete. A partire, a mio parere, da una urgenza/emergenza: i nostri giovani.

Di questo parlerò nel mio prossimo articolo.

La “finestra sul cortile” è la rubrica di Giacomo Kahn per Riflessi: leggi anche l’articolo sul sionismo

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