L’ultimo testimone di Roma
Donato Di Veroli (1924-2022) ci ha lasciato ieri. Era l’ultimo ebreo romano sopravvissuto alla Shoah ancora in vita.
Con lui scompare un’altra parte della nostra “memoria vivente”, e si avvicina il momento in cui dovremo continuare a raccontare e ricordare senza più l’aiuto dei testimoni. Per ricordarne la figura, Riflessi riporta alcune sue dichiarazioni raccolte da Marcello Pezzetti, contenute in “Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto”. (Einaudi, 2009)
Durante le leggi razziali: I lavori forzati a Roma
Me costrinsero affare sotto fiume 22 carrelli de rena al giorno, io non j’aa facevo e me sentivo male. c’è stato un giorno che non ce so andato più, perché nun c’avevo nemmeno i soldi pe’ prende el tramve per anda giu a San Paolo. Una sera tardi viene un poliziotto, me manda giù in camera di sicurezza. La mattina appresso c’era il carrozzone che ci porta a Regina Coeli. Li ho fatto tredici giorni. A me non m’hanno mai pagato per quel lavoro.
L’arresto
Quando hanno preso me, i fascisti sono andati subito a casa per prende tutti quanti, fortuna erano già scappati. Io c’avevo in Trastevere la stalla der cavallo; lo portavamo la sera, ‘na volta io e ‘na volta mi’ fratello. Il giorno che è toccato a me, me presero questi fascisti. Siccome c’avevo 500 lire in sacoccia, gli dissi:” Prendetele e lasciatemi libero”. Mi portarono a via Tasso, e quelle 500 lire le diedero ar botticella.
Fossoli
C’era un amico di mio padre che c’aveva dei gemelli d’oro alla camicia, che si levò questi gemelli e l’ha venduti, tramite all’esterno d’aa rete, per comprà della roba pe’ mangià. Me dava qualcosa anche a me.
L’arrivo ad Auschwitz
Ogni soldato delle SS teneva un bastone de’ radica in mano, quelli da vecchio. A forza de bastonate ce fecero scenne come bestie. A me me presero qui dietro, credevano che ero malato, perché ero pallido, poi ero secco secco, nun sapevano dove mandarmi. Fece: “Bist du Krank? Wie viele Jhare?”, quanti anni avevo, se ero malato, insomma. All’ultimo mi dettero un carcio e me mandarono da ‘a parte del lavoro.
Mi dettero ‘na maglietta, ma era piccoletta, tutta zozza, mezza bruciacchiata. Poi me dettero i vestiti da galeotto, il numero sui carzoni e il triangolo giallo.
Il lager
Ce portarono ne ‘e paludi, ci fecero spojà, tutti nudi come Dio c’ha creato, ce dettero delle falci per tajà l’erba. Tutto ‘l giorno lì dentro l’acqua. Quest’erba veniva a galla, ce daveno de barellette co i manici de legno, la caricavamo e la portevamo a riva. Dentro a sti laghi c’ereno tutte bestie: ranocchie, pesci co’e zampette e c’erano mignatte (sanguisughe) che te s’attaccaveno pure addosso a ‘e gambe le raschiavi coll’unghie.
Io un giorno me trovavo ‘n prima fila, stavo fermo, però seguivo l’SS coll’occhi. Me se ferma davanti e me fa fa’ ‘n passo avanti. Avevi i guanti, mi voleva da’ ‘no schiaffo forte. Io mi spostai di poco e così mi sfiorò solamente. Me so’ detto: “Adesso questo m’ammazza”, perché sapevo che quando uno è ‘ndisciplinato…’A seconda volta mi diede ‘no schiaffo che me mandò quattro, cinque fila dietro. Me trovai an braccio a un altro deportato. Tutti cominciareno a ride, perché m’aveva fatto volà. Allora mi sò rimesso lì e per fortuna m’ha lasciato perde.
Qualche sera dopo fatto l’appello su ‘a piazza c’era el teatrino…el teatrino de’ banchetti co ‘e forche. Passaveno davanti a noi legati con le mani dietro. Noi dovevamo da vedè lo spettacolo. Me ricordo ‘n russo, alto, legato, cascava per terra, i denti rotti, sangue da ‘a bocca. Nun se voleva mette il cappio, all’ultimo je l’hanno messo. Un calcio ar tavolino… e staveno lì fino a la matina successiva.
In infermeria non ce se poteva anna’, perché come che stavi un pò male te mandavano al crematorio. Dovevi sta’ sempre bene, sempre bene.
Il ritorno a casa
Arrivai a ‘a stazione Tiburtina. C’avevo ‘n vestito metallizzato, come quando vanno in prima linea, come i tendoni, co ‘na bustina in testa. Presi el tramve e arrivai a Monte Savello. Però m’ero abbottato(gonfiato), perché me facevano endovenose de vitamine. Nun me pareva vero che ero ritornato a casa. Facevo coi piedi così, pe tera: “Ma so’ vivo o so’ morto… sarà l’anima mia che torna a casa?”. Si vede che Dio Benedetto m’ha sarvato. Feci il fischio de casa… tutti quanti incontro.
Donato Di Veroli era nato a Roma il 9 aprile 1924, da padre ambulante. Arrestato a Roma il 29 marzo 1944, era passato per via Tasso, Regina Coeli, Fossoli. Il 23 maggio 1944, dopo una settimana di viaggio, era arrivato ad Auschwitz. Aveva ricevuto la matricola A-5372. Era stato liberato a Dachau il 29 aprile 1945.
L’ultimo saluto avverà stamani, al cimitero di Prima Porta, alle 11,30.
Che il suo ricordo sia di benedizione
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