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L’Italia invecchia, ma la sostituzione etnica è un pregiudizio senza senso

Massimo Livi Bacci descrive per Riflessi il nostro paese da un punto di vista demografico, tra calo delle nascite e allungamento della vita, mentre il governo vede nei flussi immigratori solo una minaccia

Professor Livi Bacci, lei è uno dei più autorevoli demografi a livello internazionale. Comincerei questa intervista, dunque, da una fotografia del nostro paese: come valuta, in termini demografici, lo stato di salute dell’Italia?

Massimo Livi Bacci, statistico e demografo, è uno dei massimi esperti internazionali in demografia. Senatore nel 2008

Che nel nostro Paese esista una “questione demografica” è oramai convinzione comune e diffusa. In Italia, le nascite non compensano le morti da 30 anni, e nonostante un’immigrazione relativamente numerosa, la popolazione è in calo, anno dopo anno, dal 2015. Il “rimpiccolimento” demografico del paese continuerà a lungo, a meno di una vigorosa ripresa della natalità, della quale non ci sono segnali e forse nemmeno le premesse, o di flussi di immigrazione talmente numerosi da risultare socialmente e politicamente insostenibili. Recentissime previsioni, pur ipotizzando un miglioramento della sopravvivenza, una lieve ripresa della riproduttività, e un sostenuto apporto migratorio (un flusso netto di circa 150 mila all’anno), stimano la popolazione italiana nel 2050 in 54 milioni di abitanti, rispetto ai 59 attuali, 5 milioni in meno.

Dobbiamo preoccuparci di questo calo?

L’Italia è uno dei paesi al mondo dove la vita è più longeva, ma anche uno in cui si fanno meno figli

È una diminuzione che non creerebbe troppo allarme se non fosse la somma algebrica tra un aumento di 6 milioni di ultrasessantacinquenni e una diminuzione di 9 milioni della popolazione in età attiva, con un ulteriore forte invecchiamento della compagine demografica. Nel 2022 c’erano 2,7 giovani-adulti (dai 15 ai 65 anni) per ogni anziano (oltre i 65); nel 2050 ce ne saranno appena 1,5. Sono evidenti gli effetti di questi mutamenti sul bilancio pubblico, sui trasferimenti sociali, sulla travagliata questione della ripartizione di questi tra pensioni, assistenza e sanità. Una riproduttività esangue, pochi bambini e pochi giovani, molti anziani, pochi immigrati, un rapido deterioramento del rapporto tra inattivi e attivi: su questi elementi di fatto vanno fondate le politiche per contrastare, attenuare, gli effetti negativi della “questione demografica”.

Ci aiuti a guardare un po’ oltre il presente. Da qui al 2050, se questo trend non dovesse cambiare, che paese saremo diventati?

La popolazione italiana oggi è di circa 59 milioni; senza cambiamenti delle politiche demografiche, si attende nei prossimi anni un calo di circa 5 milioni, con effetti sulla crescita economica negativi

Articolando meglio quanto sopra accennato, senza una ripresa delle nascite, con una immigrazione relativamente modesta, saremo un paese assai più invecchiato, per la rapida crescita degli anziani, e in particolar modo dei molto anziani, e della componente della popolazione con fragilità, disabilità, invalidità, che necessita assistenza. Tra oggi e il 2050 le persone con più di 85 anni quasi raddoppieranno (da 2,2 a 4,1 milioni) e con analoga rapidità aumenteranno le persone in difficoltà, cui la società dovrà provvedere con costi molto alti, privati e pubblici. Basti pensare alle previsioni d’incremento degli ammalati per demenza senile e Alzheimer. Nel 2050, le generazioni di bambini e adolescenti saranno meno numerose di quelle dei loro padri, e quelle dei loro padri meno numerose di quelle dei loro nonni, e i bambini che compiono il primo compleanno saranno numerosi quanto i loro potenziali bisnonni che ne compiono novanta. …

Esistono politiche demografiche efficaci per riportare un paese in equilibrio?

qui e sotto: due delle ultime pubblicazioni del prof. Livi Bacci

Supponiamo che esista un consenso trasversale sulla necessità di affrontare la “questione demografica”, e che sia condiviso il principio che le politiche debbano essere durature nel loro impianto e non condizionabili dai mutamenti di orientamento dei governi. Supponiamo che un obbiettivo prioritario sia quello di invertire la curva declinante delle nascite. Ebbene una prima condizione è che vi siano più donne al lavoro: nel mondo sviluppato, la natalità più elevata (o meno debole) si riscontra dove l’occupazione femminile è più alta; più nel nord Europa che nell’Europa mediterranea; più nell’Italia centrosettentrionale che in quella meridionale. Per fare un figlio una coppia deve contare su una relativa stabilità economica, e questa si raggiunge più facilmente quando le fonti di reddito familiare sono due anziché una soltanto.

Concretamente, cosa bisognerebbe fare?

Vanno rafforzate le politiche di “conciliazione” tra lavoro domestico e lavoro di mercato, migliorando norme e regole, tempi e orari, trasporti e sicurezza delle strade, asili nido e scuole, parchi e biblioteche, impianti sportivi e attività ricreative. Ovvero un “fascio” di servizi, strutture e regole che rendano meno costosa e più facile la gestione dei figli. Occorre ridurre le asimmetrie di genere nella gestione della famiglia, che pesano sproporzionatamente sulle spalle delle donne. Occorre poi ridurre il ritardo dei giovani nel conseguimento dell’autonomia economica che in Italia si raggiunge a età patologicamente più tardive di qualche decennio addietro, e assai più tardive rispetto ai coetanei europei. Non si fanno figli, se non si consegue l’autonomia economica, e se ne fanno meno, se questa è raggiunta tardivamente. Inoltre la lunga dipendenza economica dai genitori rientra nel calcolo dei costi di chi ha intenzione di avere figli, e che certamente è più “prudente” se vive in una società nella quale l’autonomia si consegue a 35 anni invece che a 20. Infine occorre ridurre, nei limiti del possibile, il costo diretto dei figli, completando e rafforzando quella piccola rivoluzione iniziata, nel 2020, con l’introduzione dell’assegno unico per i figli. In conclusione, intervenire sulla natalità è possibile e qualche risultato positivo può essere conseguito, ma occorre che gli interventi siano ad ampio raggio ed incisivi, vengano ben coordinati per sfruttarne le sinergie potenziali, e si dispieghino nel lungo periodo. Le decisioni riproduttive vengono prese dalle coppie guardando, sì, alla situazione del momento, ma anche (e soprattutto) a quella che si pensa possa avverarsi nel futuro. Se un sostegno viene dato oggi, non può essere tolto domani per motivi congiunturali, per un cambio delle politiche fiscali o, peggio, per una volontà di distinguersi da parte delle forze politiche che si alternano al governo.  Solo così possono mutare, anche se lentamente, le propensioni riproduttive delle coppie, oggi orientate ad estrema prudenza anche per l’incertezza circa l’evolversi della società nella quale i figli si troveranno a vivere.

Dovremmo affidarci più a una politica delle culle piene, o a quella di una maggiore accoglienza degli immigrati?

immigrati diretti sulle coste italiane. Il nostro paese, nonostante gli aumenti degli sbarchi nel 2023, ha una delle percentuali più basse di popolazione immigrata in Europa

Anche se una robusta politica, come sopra tratteggiata, avesse successo, la ripresa delle nascite avverrebbe molto gradualmente, e solo tra 20 o 30 anni se ne vedrebbe l’effetto sulla popolazione attiva. Solo una incisiva immigrazione può attenuare gli squilibri prima ricordati, e rallentare la precipitosa discesa della popolazione attiva che si sta verificando. Non c’è dubbio alcuno che, nei prossimi due o tre decenni, l’immigrazione continuerà a ritmi sostenuti. Una politica di sostegno alle nascite dovrà essere perseguite con vigore e, allo stesso tempo, sarà necessario predisporre tutto ciò che è necessario per rendere l’immigrazione un gioco a somma positiva: per i migranti, per il paese e per i paesi di origine.

Vorrei ora uscire dai confini nazionali. Se allarghiamo l’orizzonte al resto d’Europa, come immagina il nostro continente nel 2050?

l’integrazione tra italiani e immigrati, nonostante le politiche immigratorie ostili, è di fatto una realtà da anni

Nel suo insieme, il continente europeo sta traversando una fase di ripiegamento non dissimile da quello italiano, seppure con differenze non trascurabili da paese a paese. I paesi del Nord Europa, la Gran Bretagna e la Francia hanno i conti demografici sensibilmente più in ordine dei nostri, con una natalità non troppo sotto il livello di rimpiazzo e più lenti processi d’invecchiamento. Nei paesi scandinavi e in Francia, politiche sociali di sostegno alle famiglie, alle coppie, alle e ai giovani hanno consentito di mantenere livelli di natalità non troppo inferiori al livello di rimpiazzo – quei due figli per donna che consentono la stazionarietà della popolazione nel lungo periodo. Le politiche sociali sono state assai più generose, e più attente, all’equilibrio demografico, per molti decenni. I paesi mediterranei, Italia e Spagna in testa, hanno la natalità più bassa e i processi d’invecchiamento più rapidi, ma hanno puntellato la loro demografia precaria con consistenti flussi di immigrazione.

E se ci spostiamo più a est?

La Germania nel corso degli ultimi anni ha accolto milioni di rifugiati siriani

I paesi dell’Europa orientale, con l’eccezione della Polonia, hanno riproduttività bassissima e forti chiusure all’immigrazione. La Germania, che aveva natalità simile a quella italiana, grazie anche a politiche sociali attive, ha recuperato negli ultimi anni e ha saputo ben utilizzare i flussi di immigrazione. In Russia, dall’inizio del millennio, il governo ha profuso risorse molto alte in favore delle madri con figli, con risultati incoraggianti nei primi anni e un forte ripiegamento negli anni più recenti. Il paese perde popolazione, e vive preoccupazioni per le scarse risorse umane. Infine, la demografia dell’Ucraina è sconvolta dalla guerra, con milioni di profughi. Il vero problema dell’Europa è quello migratorio, attorno al quale confusione e disaccordi sono massimi. L’Europa ha necessità di migranti, ma non li vuole. Un paradosso e un atteggiamento idiosincratico profondamente dannoso.

la Russia è accusata di rapimento di bambini ucraini per effetto della guerra

All’inizio della guerra in Ucraina, alcuni analisti hanno sottolineato che la Russia potrebbe essersi decisa per l’invasione a causa del suo grave deficit demografico. È un’ipotesi plausibile, secondo lei?

Assolutamente no. Sotto il profilo demografico l’Ucraina è più debole della Russia, ha una natalità più bassa e una struttura per età più anziana, anche per l’emigrazione di giovani, molto forte anche prima dell’esodo determinato dalla guerra.

A proposito di immigrati, alcune settimane fa il ministro Lollobrigida ha dichiarato che l’Italia deve reagire a una sostituzione etnica che sarebbe in corso. Posso chiederle se l’espressione “sostituzione etnica” ha dignità scientifica in demografia?

Francesco Lollobrigida (foto: Simona Granati)

L’espressione “sostituzione etnica” (great replacement in inglese, grand remplacement in francese) o equivalenti espressioni, ha radici lontane, e mescola sentimenti razzisti, circa la superiorità della etnia bianca (o caucasica) rispetto alle etnie di altro colore, con il timore che tramite l’immigrazione o i matrimoni misti, le popolazioni di origine europea perdano la loro identità. Un ramo deteriore dell’eugenismo, nella prima metà del Novecento, ha sostenuto questa idea, sposata poi da governi razzisti e tirannici. La teoria della “sostituzione etnica” si sposa, inoltre, a teorie complottistiche secondo le quali ci sono Grandi Vecchi, o Istituzioni, che fomentano l’immigrazione come arma di conquista e sottomissione delle etnie europee. I protagonisti del complotto agiscono nell’ombra, ma potrebbero essere il Grande Capitale, Soros, le Banche, Papa Francesco…Il Ministro Lollobrigida sicuramente non crede a queste grottesche panzane, ma evocando la sostituzione etnica ha dato loro credito.

È possibile tracciare una differenza tra “etnia” e “razza”?

George Soros, ebreo di origini ungheresi, è periodicamente accusato dalle destre europee di complottare contro gli stati sovrani. Anche Giorgia Meloni in passato si è espressa in tal senso, come in questo tweet

Quanto al termine razza, in Europa ha connotazioni genetiche, e conduce all’ipotesi che esistano etnie accomunate da una radice genetica immutabile. L’uso fattone dal nazismo ha squalificato il termine, che pur si ritrova nella nostra Costituzione. Nel mondo anglosassone, invece, la parola “race” è universalmente utilizzata come sinonimo di etnia, cioè di gruppo connotato da tratti culturali, religiosi o linguistici comuni.

Infine, mi piacerebbe conoscere il suo giudizio sulla situazione demografica in Israele. Tra le ragioni delle proteste di questi mesi, infatti, c’è sullo sfondo il trend demografico del paese, con particolare riferimento alla popolazione Haredi e araba. È possibile, secondo lei, che gli andamenti demografici possano comportare effetti sensibili, nel medio periodo, sulla composizione del paese?

La preoccupazione di un “sorpasso” della popolazione araba palestinese su quella d’Israele non è più attuale per la flessione della natalità nella prima e la sua ottima tenuta nella seconda. Le Nazioni Unite, nelle loro ultime previsioni, assegnano alla Palestina, nel 2050, 9 milioni di abitanti contro quasi 12 a Israele, che manterrebbe la sua preminenza demografica. Anche all’interno di Israele c’è una questione demografica, anzi ce ne sono due. La prima riguarda la minoranza araba (quasi totalmente musulmana), cresciuta rapidamente per un dinamismo demografico analogo a quello delle popolazioni della Palestina.

bambini israeliani. Israele ha un trend demografico positivo, soprattutto grazie alla popolazione più religiosa

Oggi questa minoranza conta circa 2 milioni di persone, pari al 21% della popolazione totale; la sua forte crescita è stata in passato motivo di gran preoccupazione, nel timore di un progressivo snaturamento del predominio politico e religioso della maggioranza ebrea. Queste preoccupazioni sono andate smussandosi negli ultimi anni per il forte rallentamento della crescita, analogamente a quanto è avvenuto per la popolazione di Palestina. Le recenti previsioni (formulate dallo Israel Central Bureau of Statistics) mostrano che la quota della popolazione araba dovrebbe mantenersi invariata nei prossimi trent’anni. È dall’interno della comunità ebraica che sorge la seconda questione, legata alla componente Haredi, o ortodossa (alcuni la definiscono ultraortodossa), fortemente conservatrice, che mantiene una riproduttività doppia di quella del resto degli Ebrei d’Israele, e il cui peso cresce in continuazione. Oggi i Haredim costituiscono il 13% della popolazione dello stato, ma nel 2050 la loro quota sarà quasi raddoppiata (25%).

ebrei religiosi a Gerusalemme

Da un lato il dinamismo dei Haredim sostiene la crescita dello stato, fatto giudicato positivo nel quadro geo-demografico della regione. Ma, dall’altro, inquieta la tendenza all’isolamento, il rifiuto di integrarsi nel dinamico contesto della società israeliana, la dipendenza dai sussidi pubblici, la stretta aderenza a normative religiose anche quando in contrasto con i fondamenti laici dello stato. Per molti, essi rappresentano un pericolo per la coesione interna, e per l’equilibrio democratico del paese.

Un’ultima domanda. Oggi gli ebrei nel mondo sono circa 15 milioni. Da un punto di vista demografico, ha senso dire che è stato colmato il tragico vuoto inferto all’ebraismo dalla Shoah?

Sergio Della Pergola (Foto: E. Salman)

Premesso che il vuoto creato da sei milioni di vite spezzate dalla Shoah non può in nessun modo essere dimenticato, cancellato o colmato, dal mero punto di vista puramente contabile la risposta è no. Secondo il maggiore studioso della demografia ebraica, Sergio Della Pergola, nel 1900, gli Ebrei nel mondo erano 10.4 milioni, e nei quattro decenni seguenti la loro crescita demografica fu vigorosa, arrivando a 16,5 milioni nel 1940, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

Una risposta

  1. Negli Stati Uniti, rispetto all’Italia, l’occupazione femminile è decisamente più alta (il 68% rispetto al 57% -World Bank, Labor Force Participation Rate), il tasso di disoccupazione in genere è molto più basso e i figli tendono a raggiungere l’autonomia economica molto prima. Nondimeno, anche negli Stati Uniti assistiamo ad un forte calo del tasso di nascite negli ultimi 15 anni (meno 18% – National Bureau of Economic Research), praticamente fino al livello più basso di sempre; anche il tasso dei matrimoni è calato al livello più basso di sempre. Mi chiedo, quindi, se un’analisi economica, come quella offerta nell’intervista, basta a spiegare il fenomeno, o se bisogna anche prendere in considerazione certi cambiamenti di costumi e di opinioni.

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