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La guerra di Yom Kippur

Il 6 ottobre del 1973 Israele subiva l’agressione dell’Egitto che rischiò di metterne in pericolo l’esistenza. Claudio Vercelli ci aiuta a ricostruire cosa accadde

mezzi israeliani sul Sinai nel 1973

Il quinquennio compreso tra il 1973 e il 1977, per Israele, fu denso di avvenimenti chiave. Come tali, destinati a pesare sull’evoluzione del paese. Si aprì con il governo di Golda Meir (laburista) e si chiuse con l’esecutivo presieduto da Menachem Begin (nazionalista), di fatto avviando un periodo, dove la destra nazionalista ha acquisito una indiscutibile prevalenza, che è ancora ben lontano dall’essersi concluso.

Sul piano internazionale, non va dimenticato, sono quelli gli anni in cui gli Stati Uniti completano il loro disimpegno nel Sud-Est asiatico (il Vietnam, soprattutto) mentre la politica petrolifera del cartello arabo dell’Opec contribuisce ad accelerare quel ciclo inflazionistico che, insieme ai crescenti fenomeni di interconnessione dei mercati finanziari e di trasformazione della struttura produttiva dei paesi a sviluppo avanzato, avrebbero costituito le premesse della globalizzazione. La quale, circa vent’anni dopo, avrebbe rivelato i suoi potenti effetti.

Golda Meir

Sul piano regionale, invece, si concludeva la fase delle guerre arabo-israeliane e si apriva il capitolo del confronto, da quel momento quasi sempre diretto, tra israeliani e palestinesi, partendo dal 1978, con l’intervento di Gerusalemme nel Libano meridionale. Non a caso è una guerra, quello dello Yom Kippur, a stabilire una cesura tra il prima e il poi.

Il conflitto del 1973, infatti, è qualitativamente diverso da quello di poco precedente del 1967, conosciuto come guerra dei Sei giorni. Mentre quest’ultimo era il prodotto del convincimento arabo, ancora una volta, di poter distruggere Israele sul campo di battaglia, il confronto che si consuma brutalmente nell’ottobre del 1973 ha – nelle sue motivazioni – obiettivi più limitati, legati perlopiù al recupero dei territori egiziani perduti sei anni prima. Nonché di una qualche credibilità negoziale, dopo il catastrofico tracollo di sei anni prima. Soprattutto, era una guerra condotta non più da Nasser (Gamāl ʿAbd al-Nāṣir Ḥusayn, per tutti gli anni Sessanta leader pressoché indiscusso della rivalsa araba contro l’«Occidente» nonché discussa guida del post-colonialismo) bensì da Muḥammad Anwar al-Sādāt, al primo subentrato nel 1970 (per poi essere assassinato nel 1981), in sé maggiormente proclive ad una qualche intesa con Washington cosi come con Gerusalemme. Lo stesso modello ideologico che stava alla base dell’agire di Nasser, ossia la creazione di una sorta di terzo polo, da inserire come un cuneo tra l’Occidente liberal-capitalista e l’Oriente comunista, nel mentre si era parimenti esaurito. Le speranze, al pari soprattutto delle illusioni, di un percorso alternativo, da realizzarsi nei paesi in via di sviluppo, a partire dall’Africa, dal Medio Oriente e dal Sud-Est asiatico, si stavano riducendo al lumicino.

Ariel Sharon elabora un piano di reazione

Si pervenne allo scontro militare, peraltro, dopo un lungo periodo di tensioni e attriti, in parte consumatisi attraverso scaramucce nelle zone armistiziali, in parte legati all’attività terroristica dell’Olp. Sono anni di «non pace», dove ai tentativi di mediazione, come il Piano Rogers, si alternano atti di violenza. È la milhemet hahatasha, la «guerra di attrito», inaugurata da Nasser e proseguita dal suo successore. Israele nel 1973 riusciva ad aprire un importante varco diplomatico con l’incontro tra l’allora premier laburista Golda Meir e Paolo VI. Più che per un qualche risultato concreto, che non si raggiunse anche perché non era nelle intenzioni dei due interlocutori, l’udienza concessa dal pontefice costituiva un passo in avanti nel processo di riconoscimento di fatto dell’esistenza dello Stato.

soldati siriani si arrendono

Tuttavia, malgrado gli sforzi di pervenire ad una soluzione negoziata della questione mediorientale, il rifiuto arabo di attribuire una legittimità interlocutoria al giovane Paese costituiva un vincolo insuperabile per qualsiasi passo in avanti. Venivano così maturando le condizioni per uno stallo dal quale si sarebbe usciti con un’ulteriore iniziativa bellica. Il casus belli era già disponibile, dal punto di vista egiziano, ed era offerto dalla perentoria richiesta di riprendersi il Sinai. Nel settembre del 1973 Egitto e Siria, con l’assenso della Giordania, pervennero quindi ad una intesa per sferrare, di comune accordo, un attacco militare contro Israele. La data scelta fu il 6 ottobre, durante la festività del Kippur, quando – plausibilmente – la capacità di risposta del Paese sarebbe stata più contenuta, posto che molti militari erano in licenza e che, più in generale, le difese risultavano allentate.

anche Leonard Cohen andò in Israele per sostenere i soldati israeliani

La sorpresa per parte israeliana fu, infatti, pressoché totale, in quella che venne poi chiamata milhemet yom ha-deen, la «guerra del giorno del giudizio», a volerne rimarcare il carattere di assoluta drammaticità. Poiché grande era stata la sottovalutazione della capacità degli avversari sul piano militare, errate le valutazioni sulla condotta delle unità siro-egiziane (i cui movimenti erano stati interpretati dallo stato maggiore generale di Tsahal come semplici «manovre»), notevole la stanchezza che Israele rivelava dopo la guerra del 1967 nonché le indecisioni maturate sul destino finale della Cisgiordania. Si rendeva visibile anche un altro fianco scoperto, ovvero la carenza di intelligence militare, l’incapacità di prevedere o, quanto meno, intuire, le intenzioni altrui. Un difetto, quest’ultimo, che poteva risultare letale per Israele. La linea di difesa «Bar-Lev» nel Sinai – una serie continua di una trentina di fortini, di una decina di cittadelle, intervallati da campi minati e filo spinato – e il dispositivo di protezione nel Golan non funzionarono. Anche perché, alla resa dei conti, risultarono sguarniti, ossia presidiati da un numero insufficiente di militari.

Manachem Begin.

L’esercito israeliano era di fatto in una situazione di temporanea incapacità di risposta, vuoi per le licenze concesse ai militari in occasione del Kippur, che avevano sguarnito i reparti, vuoi per un generale abbassamento del livello di vigilanza. La mobilitazione dei reparti, dopo che alle ore 14 del 6 ottobre 1973 i cannoni egiziani e siriani avevano aperto le ostilità, si completò tra innumerevoli difficoltà e incomprensibili ritardi, imputabili solo in parte alla dispersione degli uomini per via della solenne festività. Questo stato delle cose favorì quindi l’aggressione araba.

Il 7 ottobre numerose unità egiziane avevano sfondato in più punti la linea Bar-Lev mentre quelle siriane e giordane stavano penetrando nel Golan. L’aviazione israeliana si trovava nella condizione di non riuscire a contrastare la contraerea nemica, di contro a quanto invece era avvenuti nel 1967. Nelle due giornate tra il 7 e l’8 di ottobre la situazione sembrava quindi volgere al peggio per il paese. Solo a partire dai due giorni successivi il faticoso completamento della mobilitazione generale delle unità di Tsahal e una serie di contrasti tra i comandi arabi sul da farsi, concorsero al ribaltamento della situazione sul campo. Il 10 ottobre l’avanzata siriana fu fermata nel Golan, mentre le forze aeree israeliane riprendevano l’iniziativa e il controllo dei cieli, bombardando Damasco. Il 14 ottobre fu la volta del Sinai, dove il contrattacco di Gerusalemme diede esito positivo, permettendo due giorni dopo di riattraversare il canale in senso opposto. Le due capitali arabe erano ora alla portata dell’esercito israeliano. A questo punto la questione si trasferiva dal versante bellico a quello politico.

Sadat, presidente egiziano

Il 17 ottobre l’Opec (l’Organizzazione dei paesi produttori ed esportatori di petrolio, nata nel 1960), nella sua riunione in Kuwait, aveva raggiunto un accordo interno in ragione del quale imponeva un prezzo di acquisto del petrolio più alto, così come una riduzione delle forniture, a quei paesi che avessero sostenuto Israele. Il 22 ottobre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite imponeva la fine delle ostilità. Ma non si raggiunse fin da subito l’immediato cessate il fuoco poiché sporadici scontri proseguirono ancora per alcuni giorni, fino al 28 ottobre. Solo l’11 novembre, con una intesa diretta tra israeliani ed egiziani, al chilometro 101 della strada che collega il Cairo a Suez, si arrivò quindi alla definitiva conclusione del conflitto. La Risoluzione 338 delle Nazioni Unite del 22 ottobre, che si rifaceva alla precedente 242 del 22 novembre 1967, pur nella sua sostanziale inefficacia diretta, ribadiva la necessità di ricorrere a negoziati per una soluzione definitiva delle tensioni e dei dissidi.

Israele aveva ancora una volta vinto ma non pienamente. Soprattutto, senza riuscire a convincere. Da un lato l’esito del confronto, nel momento in cui volgeva a suo favore, era stato di fatto deciso a tavolino. Profilandosi un insuccesso totale dell’Egitto, le grandi potenze avevano imposto la conclusione delle ostilità. Non di meno, anche se Il Cairo e Damasco uscivano sconfitte, tuttavia avevano dimostrato con la loro “audacia” un coraggio che era invece mancato nel 1967. I loro eserciti per alcuni giorni erano riusciti a mettere in serie difficoltà gli israeliani.

Sadat e Begin firmano la pace a Camp David

Benché poi, all’atto concreto, la situazione si fosse rovesciata, potevano comunque rivendicare per sé una “sconfitta tecnica”, dettata non da errori propri ma dalla volontà altrui, quella delle superpotenze, di porre un limite all’avanzata araba. La propaganda – infatti – avrebbe ben presto consolidato il mito di un conflitto conclusosi non per preservare l’integrità degli attaccanti, oramai alle corde, bensì per tutelare l’«entità sionista» da un completo fallimento militare e dal rischio di essere cancellata dalla carta geografica. Peraltro le unità militari cairote e damascene, anche se esangui, non avevano subito una completa rotta. In particolare modo l’Egitto era riuscito a mantenere alcuni piccoli capisaldi nel Sinai, anche se l’esercito di Gerusalemme si era spinto ben oltre il canale.

qui e sotto: due dei volumi scritti da Vercelli e dedicati a Israele

Gli effetti della guerra del Kippur su Israele furono molteplici ed in parte traumatici. Soprattutto, si rivelarono di lungo periodo. Forte impatto sull’opinione pubblica ebbe il numero delle vittime: 2.300 morti, 5.500 feriti e 294 prigionieri (mentre gli egiziani contavano 12.000 morti, 35.000 feriti e 8.400 prigionieri e i siriani 3.000 morti, 5.600 feriti e 41 prigionieri). Un numero relativamente contenuto, se si tiene in considerazione il fatto che si era trattato di una guerra di aggressione, ma destinato a pesare sulla coscienza collettiva per via dell’iniziale imperizia delle autorità militari. A ciò, in Israele, si coniugò, fin da subito, un’accesa polemica sulla sottovalutazione del potenziale bellico avversario, così come sulla sopravvalutazione del proprio. Oltre che la maniera in cui si era consumata l’invasione araba, pesava non di meno la misura in cui si era articolata la risposta difensiva israeliana. Il paese sapeva bene che se era indispensabile vincere non meno determinante era anche il come, il quanto e il quando. Ci si era aggiudicati la partita finale, insomma, ma si erano persi alcuni importanti passaggi intermedi. Non a caso si parlò di mehdal – un insuccesso derivante dalla negligenza e dall’inazione – per definire la condizione, imperdonabile, nella quale le forze armate, ma anche le autorità civili, si erano mosse durante l’attacco arabo. La linea Bar-Lev, nella sua sostanziale inutilità, divenne così – per certuni – il simbolo architettonico della oziosa compiacenza che aveva caratterizzato la condotta israeliana negli anni tra il 1970 e il 1973; per altri, non di meno, il segno della intrinseca fragilità del Paese dinanzi ad un’aggressione ben coordinata.

Si sapeva, inoltre, che d’ora innanzi nessuna iniziativa bellica si sarebbe consumata senza l’assenso delle superpotenze; gli stessi esiti del confronto del 1973 stavano a dimostrare che sui campi di battaglia si poteva essere temporaneamente vincenti ma che l’esito ultimo dipendeva dalle scelte operate in campo diplomatico nonché economico e politico. Per certi versi, ciò poteva risultare una garanzia, ovvero una tutela, ma era anche un vincolo enorme alla libertà di manovra nei confronti di vicini così riottosi. Si avviava un nuovo capitolo del confronto tra Israele e i paesi arabi, meno condizionato dalla guerra sui campi di battaglia e più legato alle infinite vicissitudini del conflitto di usura del terrorismo e della mediazione politica. Sul piano più strettamente politico l’istituzione, nel novembre del 1973, della Commissione Agranat di indagine sulla conduzione della guerra, i cui lavori sarebbero terminati nella primavera dell’anno successivo, avrebbe rivelato quanto i fatti dell’autunno fossero divenuti una ferita in parte non più sanabile. Quel che risultò, dalla pubblicazione della sintesi del suo primo rapporto, nell’aprile del 1974, era che l’esercito aveva interpretato erroneamente i segnali provenienti sia dall’Egitto che dalla Siria. La dottrina militare prevalente in Tsahal voleva che il Cairo non si muovesse contro Israele senza godere della superiorità aerea e che la Damasco non intendesse fare alcunché senza l’assenso egiziano.

Ben Gurion

Partendo da queste premesse i vertici dell’esercito israeliano avevano deliberatamente sottovalutato le indicazioni provenienti dall’intelligence, non procedendo alla mobilitazione della riserva e mantenendo sguarnite le linee del fronte proprio nel momento più delicato. Oltre a ciò uno stato di generale impreparazione e di mancanza di coordinamento, due peccati capitali, avevano caratterizzato le prime fasi della risposta sul terreno.

I severi risultati ai quali la commissione pervenne ebbero degli immediati effetti di ricaduta su tutta la classe politica, con le dimissioni di Golda Meir e il passaggio del testimone a Yitzhak Rabin. il 3 giugno 1974. Moshe Dayan, che pure non era stato identificato come corresponsabile dello stato delle cose, decise comunque di ritirarsi dall’esecutivo. La morte di Ben Gurion, il 29 novembre 1973, non di meno sembrava voler sancire simbolicamente la conclusione di un’epoca. Quella che si era aperta con il 1948. Da allora, nulla sarebbe rimasto come prima.

Una risposta

  1. Claudio, leggerti e un vero piacere.
    In genere si questi temi leggo in ebraico e così non conosco i tuoi libri, ma ora li leggero.
    Sei molto bravo, chiaro onesto e ampio.
    Mi farebbe anche molto piacere incontrarti.

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