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Sono agnostico; ritengo infatti che l’ateismo sia una forma di presunzione. Sono agnostico perché questo mi dà forza per costruire la mia individualità. Del resto, c’è sempre tempo per dare una risposta sulle domande fondamentali! Ma soprattutto, praticare la pittura come esercizio quotidiano, di concentrazione, è per me, la più alta forma di meditazione naturale dell’anima, anche se laica.
Mi hai parlato delle difficoltà dell’inizio. E oggi? Qual è il tuo rapporto con la comunità romana e tripolina?

G. Ortona, “Gasometro”, 2015

Vivo un ebraismo tutto mio, laico. Mi sento molto ebreo quando vedo il Maccabi in Champions League e soprattutto la bandiera d’Israele, che ritengo una delle più belle al mondo. Quanto al resto, la mia famiglia era abbastanza osservante, sebbene tale fede non poggiasse su uno studio molo approfondito. Io invece ho sempre respinto la ritualistica, ma naturalmente apprezzo quei credenti che hanno un rapporto di autenticità con il divino. Unica strada che può portare ad una trasformazione del sé interiore. Della mia infanzia mi resta il bel ricordo del venerdì sera: era bellissimo l’incontro con la famiglia, con i miei cugini. Oggi mi sento più ebreo quando sono fuori dall’ambiente ebraico; ma all’interno del mio mondo di provenienza vivo una condizione di insoddisfazione, credo comune a tanti.

Questa tua insoddisfazione ha anche a che fare con la tua identità di artista? Come sappiamo, l’ebraismo ha sempre avuto una certa diffidenza verso le arti figurative.

G. Ortona", "Le palazzine di Roma", 2011, olio su tela incollata su tavola
G. Ortona”, “Le palazzine di Roma”, 2011, olio su tela incollata su tavola

Ti risponderò con le parole di Josef Brodsky, che quando gli veniva chiesto se si sentisse uno scrittore ebreo, rispondeva che lui si sentiva come prima condizione, quella di essere uomo, e che poi si accorgeva di essere ebreo dallo sguardo degli altri. Al Macro, per esempio, Gabriele Simongini si accorse, e mi fece comprendere, dell’importanza che io do ai titoli dei miei lavori, dove in questi colse a volte l’ironia yiddish. L’ultimo pezzo, ad esempio, si chiama “Ritratto triplo di un tripolino”: più yiddish di così si muore. E quindi anch’io rispondo come Brodsky. La mia individualità e la mia idea di estetica cerca di vincere continuamente il contorno del mondo in cui vivo. Sono contro l’imposizione di stilemi di vita. Però forse hai ragione, forse il fatto che esistano pochi artisti ebrei deriva proprio da questo, dal divieto di rappresentazione. Quanto a me, allora mi sento più vicino alla cultura occidentale: mi piace questo aspetto ludico, l’edonismo e il piacere e la coltivazione dello studio della forma. Al contrario, ho sempre visto l’ebraismo come una forma religiosa abbastanza faticosa per me, perché il mio è un temperamento gioioso e giocoso, anche negli aspetti più seri della vita.

Come hai vissuto il lockdown?

G. Ortona, “Coronavirus Flaminium”, 2020, olio su tavola

Fisicamente, non è cambiato molto, perché gli artisti devono vivere molte ore della giornata in assoluta solitudine, però ho scoperto una Roma che assomigliava a Berlino est prima della caduta del muro del 1989, una Roma meravigliosa e senza turisti. E poi la pandemia ha colpito la mia immaginazione. Ad esempio feci un disegno che rappresentava il palazzetto dello sport di Pierluigi Nervi al Flaminio, e che visto dall’alto sembrava un coronavirus.

Progetti futuri?

Preferisco mantenere un po’ di riserbo. Posso però dirti che sto lavorando su una tematica nuova, quella dei bagnanti in costume, con giochi d’acqua. Ho comunque diversi progetti in cantiere. Vedremo.

(in evidenza: G. Ortona, “Oro olimpico”, 2021, olio su tela)

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