Entrata Amia murales

Nessuna visita a Buenos Aires sarebbe completa senza una visita al Centro AMIA, che nel 1994 fu devastato da un attacco terroristico: 85 i morti, oltre 300 i feriti (impossibile precisarne il numero vista l’entità dell’esplosione).

Entrare all’AMIA, dopo aver passato stringenti controlli di sicurezza, è un’esperienza che non può lasciare indifferenti: soprattutto non lascia indifferente me, ferita in un altro attentato antisemita a migliaia di chilometri di distanza.

La foto delle madri dei desaparecidos ebrei in visita al Centro AMIA. Sullo sfondo l’opera d’arte che li ricorda.

Oltre la porta blindata, il vuoto agghiacciante lasciato dall’esplosivo (il palazzo crollato non è stato ricostruito) è riempito solo da un memoriale e da alcuni oggetti alle pareti. In alto sul muro del palazzo rimasto intatto, si vedono piccole parti di quello esploso, che fanno parte di un affresco, il Muro della memoria. Alle pareti l’omaggio a un altro attentato che ha insanguinato Buenos Aires, quello all’ambasciata israeliana e quello ai desaparecidos ebrei. Accanto, la foto delle mamme dei desaparecidos: vedere lì i loro volti, il fazzoletto bianco che portano in testa è diverso dal leggere semplicemente i racconti su questa tragedia. All’interno, il Centro AMIA ospita mostre di arte e fotografiche ma, soprattutto, il centro di documentazione Turkow. Se sulla strada codici QR ai piedi di alberi permettono di conoscere il profilo e la vita delle vittime, nel Centro, insieme a molti materiali sulla lunga storia degli ebrei in Argentina, sono custoditi documenti e oggetti correlati all’attentato. Mentre osservo la galleria fotografica con le immagini di feriti e persone presenti quel giorno, incontro Anita Weinstein, presidente emerita del Centro Turkow, miracolosamente scampata all’attentato. Parliamo a lungo, come amiche di lunga data, accumunate dal dolore e da una ferita difficile da rimarginare.

Eliana e Anita all'AMIA
Anita Weinstein (a destra) con Eliana Pavoncello

Figlia di ebrei polacchi, sfuggiti alle deportazioni ed emigrati in Sud America, Anita racconta che la madre non avrebbe mai pensato che sua figlia potesse essere vittima di un attacco terroristico contro gli ebrei dopo la Shoah. Inevitabilmente la nostra conversazione si incanala sui temi dell’antisemitismo e della giustizia che tarda ad arrivare.

“La cosa buona è che la società argentina ha avuto una risposta molto positiva, anche a distanza di tanto tempo da quello dell’attentato – mi dice. La ricorrenza è un giorno importante: ogni anno ed è ricordato in ogni modo, ma quei responsabili di tutto questo sono liberi nel mondo. Ricordo in particolare uno che era nella lista dei ricercati dell’Interpol, che avrebbe dovuto essere arrestato qui in Argentina ma non è stato fatto. Hanno fatto degli accordi. Sappiamo e ricordiamo che la società argentina è vigile su quanto è successo ed è importante per noi come ebrei e come membri di questa società mantenere la memoria, naturalmente, e i rapporti con la società. L’antisemitismo non è morto e ora su Internet gira ancora, incontriamo tante e nuove forme di antisemitismo ma è qualcosa che non viene detta apertamente. Sappiamo che c’è antisemitismo, anche se non te ne accorgi girando per la strada. Questo è un quartiere ebraico (Once), vedi anche ortodossi che camminano per strada con i loro riconoscibili abiti, ma le frasi e le battute antisemite sono soprattutto in rete”.

Anita non sapeva dell’attentato alla Sinagoga di Roma, si sorprende che possa essere successo in una democrazia come l’Italia e si commuove al mio racconto di cosa è stato e quanto sono stati dolorosi questi quaranta anni appena trascorsi.

Le chiedo perché all’epoca non sono state prese misura di sicurezza. “Questo paese ha avuto una dittatura militare per molti, molti anni. Era un periodo in cui esisteva l’antisemitismo: entravano nelle case perché erano ebrei, prendevano i bambini e le persone e le colpivano di più perché erano ebrei. Sono andati anche in una scuola e hanno preso e ucciso la metà dei bambini, che erano ebrei. Questa era la dittatura e l’espressione dell’antisemitismo. Siccome la dittatura era di destra, avevano paura che gli Stati Uniti potessero accusarli di antisemitismo, quindi dicevano di andare contro le persone di sinistra, che erano ebrei. Dicevano: ti colpisco e ti uccido non perché sei ebreo, ma anche perché sei ebreo. Essere ebrei era “un ingrediente”, se catturavano un oppositore che era anche ebreo per loro era meglio. C’erano molti movimenti politici ebraici. Dopo questa dittatura è arrivata la democrazia, che abbiamo celebrato, pensando di essere ormai in salvo. C’è un film, dal titolo “Argentina1985” (disponibile anche in italiano su Prime Video) che rende l’idea di che cosa sia stato vivere qui sotto la dittatura. L’antisemitismo però continua a esistere ed esistono i movimenti anti-israeliani, che poi sono la stessa cosa. Antisemitismo nascosto dall’antisionismo, ovunque sul web e sui media. Per loro è differente, per me no. Qui dicono: non sono antisemita, ho un amico ebreo”.

AMIA vittime FOTO
Anita Weinstein di fronte alla foto che la ritrae, all’epoca dell’attentato, nella galleria di immagini ospitata nel centro AMIA

Davanti alla preziosa raccolta di volti, di voci e di storie, di tutte le storie collegate a questo orribile attentato, parliamo del significato che per lei ha la memoria.

La memoria è molto importante. Qui vengono in molti a chiedere informazioni. Quanto accaduto all’AMIA fa parte dei programmi scolastici, gli insegnanti vengono qui a cercare materiali, mostriamo documenti, registrazioni, fotografie. Gli studenti vengono anche qui per intervistarci, fare domande. Fino a qualche anno fa venivano numerosi, interessati alla mia storia, e volevano capire da dove potesse venire tanto odio e come fosse possibile per qualcuno odiare a tal punto di uccidere. Trovo che sia molto importante questo coinvolgimento spontaneo. Sono molto grata del fatto che scelgano di venire qui ad informarsi, a chiedere quante sono state le vittime, chi erano, cosa ne è stato dei feriti, come vivono ora. E quando tornano a scuola devono raccontare quello che hanno imparato qui ai loro compagni e lo raccontano anche alle loro famiglie. E questo può cambiare la percezione e la comprensione degli avvenimenti, anche di quello che è successo storicamente, in Spagna durante l’Inquisizione e in Germania. Piano piano si comprende cosa sia stato l’antisemitismo, come il nazismo lo ha lentamente e inesorabilmente diffuso nella mente del popolo, che alla fine lo ha accettato. I piccoli atti di antisemitismo che c’erano in Germania (per esempio “non puoi giocare con mio figlio perché sei un bambino ebreo”) si sono insinuati nella mente delle persone e hanno creato un terreno fertile per la Shoah”.

CI salutiamo entrambe con emozione e con un abbraccio che, forse, vale più di tante parole.

Nella foto in alto, la parte dove sorgeva l’edificio AMIA distrutto dall’esplosione e un particolare del murale “Il muro della memoria”.

Qui l’intervista completa a Anita Weinstein

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