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Scrivo del senso della perdita che ogni ebreo porta con sé

André Aciman racconta nei suoi libri  il sentimento dell’esilio che nasce dall’infanzia egiziana, e l’amore per l’Italia, premiato con l’Oscar.

André, oggi vivi a New York con la tua famiglia. Innanzitutto, che cosa pensa l’opinione pubblica americana della guerra della Russia contro l’Ucraina?

Alessandria d’Egitto all’inizio del Novecento

Diciamo che negli Usa tutti i programmi sono a favore dell’Ucraina e contro la Russia, è evidente; suppongo la stesa cosa da voi. Però da noi ci sono anche settori a favore della Russia, come i repubblicani sostenitori di Trump, che non vogliono riconoscere le ragioni dell’Ucraina. Conosco persone che parteggiano per la Russia, cosa per me incomprensibile. La mia impressione è una: grande pietà per gli ucraini e per l’Ucraina invasa dalla Russia. Nel vedere le immagini della città distrutte sono rimasto davvero impressionato.

Le immagini della popolazione ucraina sotto le bombe testimonia brutalmente cosa significa diventare improvvisamente dei rifugiati di guerra. Ho pensato in questi giorni a uno dei tuoi libri, “Ultima notte ad Alessandria”. Anche lì, seppure in modo diverso, è raccontata la necessità di emigrare, o meglio di fuggire.

Alessandria d’Egitto, oggi

Diciamo che l’Egitto non è mai stato il mio paese, è una cosa che ho sempre saputo. Sono partito da lì a 14 anni, conoscevo la condizione della mia famiglia, e lo sentivo, che anche se fossi nato lì ne sarei stato sempre estraneo. Sai, non ho mai avuto la cittadinanza egiziana: prima quella turca, poi quella italiana, poi finalmente quella americana. L’idea di spostarsi, d’essere sradicato dal paese natio è penosissima, non ci sono parole né aggettivi. Il modo in cui si possa spiegare il sentimento di essere completamente spaesato, è difficilissimo: anch’io, da scrittore, non riesco a tradurre quella sensazione; è come se avessi la gamba da una parte e il cuore dall’altra. In Egitto sono tornato una volta sola e non ci tornerò più, però la mia famiglia è stata là per 50 anni, è stata una bellissima vita. Posso dire che è stato come per gli ebrei tedeschi in Germania, che avevano un bellissimo passato e alcuni di loro poi l’hanno rimpianto. E così per noi il paesaggio egiziano è diventato anche un po’ mitico. I miei figli hanno il mito della vita egiziana, che io però non ho, che non ho mai conosciuto, perché fin dai 10 anni ho capito che quella vita sarebbe scomparsa.

Il libro di Aciman, ispirato agli anni trascorsi dalla sua famiglia in Egitto

In quel romanzo racconti appunto un mondo scomparso: l’Egitto della prima metà del secolo scorso, la comunità ebraica di Alessandria, le stagioni estive passate ai Bagni più famosi della città, ma anche la convivenza tra persone diverse: arabi, ebrei, ortodossi. Cosa ricordi quel periodo della sua vita?

Ci sono bellissimi momenti, non posso negarli, però sono stati pochi in un ambiente veramente ostile. È stato sempre difficile vivere in Egitto, come ti ho detto fin dai 9, 10 anni capivo che non sarebbe potuto continuare. Vedi, a casa nostra c’erano continue riunioni di famiglia, e si diceva sempre: “cosa fare? Dove andare?”. Mio padre era benestante e non poteva vendere la sua fabbrica, perché avrebbe dovuto spiegare il motivo e comunque non avrebbe potuto trattenere i soldi, e così non potevamo partire perché avevamo dei beni che non potevamo lasciare; ovviamente, col senno di poi, sarebbe stato meglio ricominciare da zero, invece mio padre è rimasto fino a quando è stato cacciato. I miei migliori ricordi sono legati agli affetti e sono pieni di calore, ma quel senso di fastidio che vivevo intorno a me era continuo. Ero in esilio mentre ero già lì. Questa, forse, è la condizione di tutti gli ebrei.

Lasciato l’Egitto la prima tappa dell’esilio è stata l’Italia: che rapporto hai con il nostro paese?

Il tempio di Alessandria d’Egitto

Ho vissuto 3 anni in Italia – ora sto proprio terminando un lavoro su quel periodo –  in particolare a Roma, dove ho conosciuto amici carissimi, molto gentili e ospitali. Sono stato a Roma dal 1965 al 68. Conservo ricordi bellissimi, ogni occasione che arriva per tornare in Italia la prendo, all’inizio però non è stato così. Odiavo Roma e Napoli e tutto il resto! Perché mi sentivo completamente spaesato. Non conoscevo la lingua, in Egitto avevo un professore di italiano che non mi ha mai insegnato nulla. Eppure, man mano che mi ci abituavo, ho cominciato ad adorare l’Italia. Abitavo a Roma nella zona dell’Appio, che non mi è mai piaciuta, ma il centro storico l’ho presto amato. Facevo lunghe camminate, non volevo mai tornare a casa.

Il grande pubblico ha avuto modo di conoscerti grazie al successo ottenuto dal tuo libro forse più noto, “Chiamami col tuo nome”, diventato un film e premiato con l’Oscar (per la migliore sceneggiatura non originale). Cosa si prova ad aver scritto un romanzo che ottiene un successo così universale?

dal libro di Aciman è stato tratto l’omonimo film. Tutti i libri di Aciman sono pubblicati in Italia da Guanda

C’erano due registi all’inizio, James Ivory e Luca Guadagnino, che ci stavano lavorando. Mi hanno spiegato che volevano scartare proprio le pagine romane, a cui ero molto affezionato, ma per me è ok, credo che il libro sia diverso dal film, io non conosco il cinema, e così ho detto loro: nessun problema. E infatti è andato tutto benissimo, addirittura per le scene principali, come quella tra il protagonista e suo padre, sono state riprodotte le pagine del libro parola per parola, il che mi ha fatto molto piacere. Ho detto al regista di aver visto il film molte volte, nelle varie presentazioni in cui ero invitato, e che la fine del film mi è piaciuta più della fine del romanzo! Voglio dire che il film è stato fedele allo spirito del libro, completamente. Nel film si parlano 4 lingue, tedesco, inglese, francese italiano, senza averlo voluto Guadagnino ha fatto in modo che tutta la mia vita sia stata riprodotta nel film. Non come Bassani e De Sica, che quando è uscito il film su “il giardino dei Finzi Contini” hanno litigato per tutta la vita!

Quanto conta la tua identità ebraica nel modo di percepire il mondo, e di scrivere?

i protagonisti del romanzo di Aciman

La mia identità ebraica non è religiosa, ma naturalmente è presente. Esiste perché ho dovuto pagare fin da giovane l’essere ebreo. Per questo la mia sensibilità è ebraica e non può essere altrimenti – non può essere cattolica, ad esempio. Vivo con l’ironia che ogni ebreo coltiva, per cui non solo ogni parola ha un significato doppio, ma anche la vita stessa è fatta di tanti scontri, doppi, diversità, con cui l’ebreo è costretto a convivere. Gli ebrei hanno sempre avuto l’ironia come strumento per leggere la realtà, e anche come forma di resistenza. È l’idea che ogni cosa ha un altro modo di essere letta, che va indagato, che emerge e poi scompare di nuovo. Come ti dicevo, è un modo per resistere. In fondo l’ebreo sa che non può appartenere a un paese solo, ma a molti paesi, perché teme che lui o i suoi discendenti saranno perseguitati, e io credo che questo modo fa parte di come avvertiamo la vita. Agli ebrei piace stare con altri ebrei, e allo stesso tempo si evitano, perché sanno che troppi ebrei insieme fanno un ghetto, è perché la loro presenza favorisce la minaccia contro di loro. Per questo credo che l’ebreo abbia inventato un Dio che deve avere humor e ironia: infatti, mi dico, non può aver fatto tanti sbagli verso gli ebrei, perché anche se è affettuoso, poi li ha puniti molte volte, come se forse anche lui sia indeciso nel procedere.

Credi che i tuoi libri possano essere avvicinati alla parola “nostalgia”?

Luca Guadagnino con gli attori del film

Preferisco parlare di “senso della perdita”, che secondo me è più elusivo, più difficile da trattare della nostalgia, che è un concetto basilare, che non mi piace. Io racconto di un sentimento legato a qualcosa che ci è stato strappato via, che non tornerà mai più. È un sentimento quotidiano, che avverto costantemente: molte cose che ho oggi penso che non torneranno più. Ho il rimpianto, ecco. Per esempio ho tre figli a cui sono molto affezionato, e stanno ormai per sposarsi, e io già rimpiango la loro fanciullezza. So che quel tempo non tornerà mai più, le porte si stanno chiudendo. E se penso poi alla mia famiglia di origine, vedo una grande famiglia in Egitto, ormai completamente sparpagliata nel mondo. Vedi, ecco di nuovo che torna, la grande la nuvola del periodo egiziano, che si infila dappertutto. Per esempio, nel libro “Chiamami col tuo nome” c’è la casa in cui abita il ragazzino protagonista: devi sapere che quella è proprio la nostra casa in Egitto! L’ho semplicemente trasferita in una località di mare in Italia. Ho voluto ricostituirla, solo con genitori molto più accoglienti.

Andrè Aciman ragazzo ad Alessandria d’Egitto

Posso chiederti a quale progetto stai lavorando ora, e quando i lettori italiani potranno leggere il suo nuovo romanzo?

Come ti ho accennato prima, ho finito in questi giorni un nuovo romanzo, sarà ambientato in Italia nel periodo del mio stesso soggiorno. L’ho appena consegnato al mio agente.

Uscirà per Guanda, come gli altri?

Lo spero. Lugi Brioschi è un amico cui voglio bene, vedremo.

Un’ultima domanda: hai un tuo rituale per dedicarti alla scrittura?

Il mio rituale…è che non ho regole. Oggi ho fatto il bucato, poi un giro in biciletta per Central Park, se mi va mi vedo con gli amici, per tutto il resto del tempo, scrivo. Se posso scrivo tutto il giorno. Questa è la mia vita e spero che continui così. La scrittura è un moto perpetuo, e mi auguro di muovermi ancora a lungo.

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