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È disponibile da oggi il libro

“Una ferita italiana? 9 ottobre 1982: attentato alla singagoga di Roma”.

Anticipiamo qui un passo del libro

La violenza aveva calato un silenzio di morte sulla sinagoga di Roma

Stefano Montesi, fotografo, fu tra i primi a raggiungere il luogo dell’attentato. Attraverso i suoi scatti ancora oggi possiamo comprendere gli effetti dell’attentato. Ecco cosa ricorda di quel giorno

 Cominciamo da lei. Cosa faceva nel 1982?

Stefano Montesi

Avevo 26 anni e la fotografia era già la mia professione. Avevo lo studio a San Lorenzo, dove si trova tuttora e dove da sempre risiede la mia famiglia.

Prima di quel 9 ottobre aveva avuto rapporti con il mondo ebraico romano? E dopo?

A quel tempo seguivo soprattutto la cronaca politica, comunque ricordo che mi era capitato di ritrarre rav Toaff. Oggi ho molti più rapporti, anche perché la comunità ebraica di Roma ha da tempo un ufficio stampa, che allora invece non c’era. Inoltre mi è capitato di essere presente più di una volta durante la ricorrenza del 9 ottobre, oltre ad altre iniziative cui vengo invitato.

Torniamo al 9 ottobre del 1982. Come venne a sapere che c’era stato l’attentato?

Mi pare di ricordare che venni conoscenza dell’attentato dai mezzi di comunicazione di allora. Ovviamente non c’erano i social di oggi. A quel tempo era soprattutto la radio a darci le notizie in tempo reale. Appena seppi dell’attentato, mi mossi per andare alla sinagoga.

Cosa trovò al suo arrivo?

Qui e sotto, alcuni scatti di Montesi di quella mattina

Ricordo che arrivai in tarda mattinata. Come si vede dalla foto della macchina crivellata di colpi, la scena   dell’attentato era ancora quella causata dall’attacco. Quando raggiunsi il piazzale davanti la sinagoga c’erano solo i carabinieri a presidiare l’area, e una troupe straniera.

Nessun altro?

No. Fu la cosa che mi colpì subito. Anche se non doveva essere passato molto tempo dal momento dell’attentato, in piazza non c’era più nessuno. Poi ho saputo che ci furino dell manifestazioni di protesta, ma dovette accadere più tardi. Quando arrivai io invece era tutto deserto, a parte i carabinieri e quei giornalisti, come ho detto.

Che sensazioni ebbe a trovarsi lì in quel momento?

C’era un silenzio assoluto, questo lo ricordo bene, che creava la sensazione di vivere in un’aria rarefatta. Mi colpì molto, sembrava quasi di trovarsi in un set cinematografico. A parte questo, si percepiva bene il dramma che si era consumato poco prima. C’erano ancora delle magliette appese sulla cancellata della sinagoga, e degli scialli di preghiera, tutti sporchi di sangue. E poi c’erano le automobili colpite dalle raffiche di mitra. In particolare mi colpì quella “500”, perché era una delle macchine più danneggiate, e così cominciai a fotografarla.

Lei è stato l’unico fotografo a ritrarre anche gli interni di uno degli appartamenti che si affacciano sul Tempio: può raccontare come ci riuscì?

In effetti io fui unico a scattare quelle foto. Si trattò in parte di intuito e in parte di fortuna. Come ho detto, stavo lavorando all’esterno, quando fui avvicinato da qualcuno – mi pare di ricordare che fosse una donna – che mi invitò a entrare in uno dei portoni del palazzo che affacciava sulla sinagoga.

Cosa vide all’interno?

Le scarpe di Eliana Pavoncello, il biberon della figlia e il sangue di Nessim Hazan nell’appartamento in cui trovarono rifugio.

Ho seguito le tracce del sangue. Erano dappertutto, lì nell’androne. Così, seguendole, sono salito fino a che mi hanno condotto in un appartamento. Ricordo la mano insanguinata che aveva lasciato una traccia sul campanello, il segno che chi era arrivato fin lì, per difendersi, aveva chiesto di entrare. Una volta dentro, c’era ancora una grande confusione. Ritrassi il pavimento, su cui erano rimasti abbandonati una scarpa e un biberon di un neonato. Anche lì c’era sangue dappertutto; anche su un letto, dove evidentemente i feriti erano stati adagiati prima dei soccorsi. [il sangue e gli oggetti fotografati da Stefano Montesi sono quelli di Nessim Hazan e di Eliana Pavoncello, che si rifugiarono nell’appartamento insieme alla loro figlia Isabella, di pochi mesi, n.d.a.]

Le foto da quel momento sono diventate quelle che meglio descrivono la scena dell’attentato.

In effetti furono utilizzate sia in Italia, soprattutto dai giornali, che all’estero. L’agenzia con cui lavoro, la Getty Image, le vendette in Europa e in Israele. A quel tempo era molto più difficile far circolare le immagini, perché non si “creavano” immediatamente, come oggi, ma bisognava andare in laboratorio, e poi lavorare sulla pellicola, sul colore ed altro, fino allo sviluppo.

l’impronta della mano di Nessim Hazan sul campanello dell’appartamento in cui trovò rifugio con la sua famiglia

Le era mai capitato di lavorare sul luogo di un attentato?

Prima c’era stato l’attacco a piazza Nicosia, dove pure scattai delle foto.[1]. Poi, negli anni successivi, sono stato in teatri di guerra. C’è però una cosa che vorrei spiegare, di quel giorno.

Prego.

Oggi pare incredibile solo a raccontarlo, ma in quegli anni c’era una violenza molto diffusa nel nostro paese, soprattutto a Roma. Dopo l’attentato alla sinagoga ce ne furono altri, come quello all’Ambasciata americana e quello alla British Airways, per non parlare del terrorismo brigatista.[2] Insomma, oggi non è facile immaginarlo, ma Roma in quegli anni visse periodi di forte tensione e violenza. Io credo che l’attentato alla sinagoga colpì tutta la città, e perciò rimarrà per sempre nella storia.

Qual è la sensazione che si porterà sempre dietro di quella mattina?

A caldo non ci pensi, è difficile mettere ordine alle proprie sensazioni. Poi, più a freddo, è impressionante credere che in una città come Roma possa succedere qualcosa di grave come questo. Quando oggi mi capita di raccontare quel periodo, si fa fatica a credere che sia successo davvero. Io spero che si tratti un tempo che ci siamo lasciati alle spalle. E poi credo che sia importante tenere sempre la viva la memoria di quel che accadde.

[1] il 3 maggio 1979, in piazza Nicosia a Roma, alla sede romana del Comitato Regionale della Democrazia Cristiana, un commando di terroristi uccise un brigadiere e ne ferisce altri due gravemente.

[2] Il 16 settembre 1985 un terrorista palestinese Ahmad Hassan Abu Alì Sereya, vicino al gruppo terroristico di Abu Nidal, lanciò due ordigni davanti il caffè de Paris, a via Veneto, a poca distanza dall’Ambasciata americana, provocando 39 feriti. Il 25 settembre successivo, a via Bissolati, il sedicenne Hasam Aatab, appartenente all’organizzazione terroristica palestinese dei socialisti musulmani, esplose una bomba presso i locali della British Airways, provocando 1 morto e 14 feriti.

Il libro “Un ferita italiana?” è ordinabile qui

Una risposta

  1. Complimenti, Stefano Montesi un grande fotografo, che riesce ad immortalare momenti così tragici come in un set.

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