La mia passione per la storia al servizio della memoria
Liliana Picciotto, Responsabile Ricerca storica del Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC), da anni lavora alla ricostruzione della memoria dell’ebraismo italiano
Liliana, per cominciare questa nostra intervista mi piacerebbe iniziare dalla tua famiglia.
Sono nata in Egitto da una famiglia di origine siriana, e questo elemento è stato per me sempre molto importante. I miei parlavano in arabo-siriano tra loro, questo ha influito sulla mentalità della famiglia, sui comportamenti, sulla cucina: pensa all’uso delle spezie, o a tanti piatti particolari. Mio nonno era funzionario dell’impero ottomano, a lungo aveva viaggiato per quel territorio, – mio padre ad esempio, è nato a Baghdad per questo. Mio nonno, dopo la fine dell’impero, in conclusione della prima guerra mondiale, decise di venire ad abitare a Milano attratto dal fatto che si stava formando là una piccola comunità ebraica orientale. A Milano stavano bene, il nonno si mise a fare import-export, avevano 4 figli tra cui mio padre. I ragazzi andarono alle scuole italiane e tutto filava liscio. Senonché, Mussolini nel 1936 cominciò a fare discorsi pubblici bellicisti in favore della guerra di Spagna, contro i neri in Etiopia e altro. Mia nonna, madre di 4 ragazzi, per proteggerli dalla guerra, cominciò a guardarsi attorno per lasciare il Paese. Troppo pericoloso sarebbe stato rimanere e riuscire a non farli arruolare. In Egitto abitava uno zio, sorella della nonna, certo Shaul Dowek che insisteva perché la famiglia vi si trasferisse, che là tutto era pacifico, che i ragazzi sarebbero potuti crescere in tranquillità. Nel 1938, poco prima dell’emanazione delle leggi antiebraiche, i Picciotto si imbarcarono per Alessandria d’Egitto.
Oggi penso che fu una specie di premonizione provvidenziale, quella dei miei nonni di andare in Egitto, dove sono rimati fino al 1948, scampando così alla persecuzione. In Egitto trascorsero 10 anni molto piacevoli, la comunità ebraica era molto grande e offriva di tutto. Nel 1947 nacqui io, nel 1948, le autorità si accorsero che i Picciotto non avevano mai richiesto, perché di difficile ottenimento, il permesso di soggiorno e li espulsero, non era un provvedimento antisemita come quelli che vennero dopo. In fretta e furia gli altri tre fratelli si sposarono con le rispettive fidanzate e furono pronti a rientrare in Italia. La scelta cadde su Milano per due ragioni, una che la città era a terra completamente bombardata e, sicuro, il commercio sarebbe presto rifiorito. La seconda è che conoscevano già la città. Quanto a me, sono arrivata in Italia a 1 anno, perciò mi considero un’ebrea italiana con tutto il curriculum scolastico e universitario milanese.
Che tipo di ebraismo era quello milanese di quegli anni?
Era un ebraismo privo di una forte religiosità, nel senso che tutti erano molto sicuri della loro identità ebraica, senza avvertire la necessità di farne una professione religiosa. Anche in casa la religiosità era abbastanza scarsa; si frequentava la sinagoga per i moadim, si mangiava kasher solo in quelle occasioni, e poco altro; certo, prima del bar mitzvà, si prendevano lezioni di Torà (non più di un’infarinatura), si faceva la milà ai bambini maschi. Del resto tutta la Milano ebraica era abbastanza scarsamente osservante. Direi che l’osservanza a Milano l’hanno portata i Lubavitch, alla fine degli anni ’60, arrivati grazie a una famiglia milanese ashkenazita, e da allora hanno lavorato moltissimo.
Come hai maturato l’interesse per la storia?
È nata del tutto causalmente. Cercavo un lavoro prima ancora di laurearmi in scienze politiche, e vidi un annuncio del CDEC, che cercava una segretaria, in via Eupili. Era il 1969. Fui presa, e da quel momento è scoppiato un amore folle, mai finito. Questa passione la devo a Luisa Ravenna, che era segretaria del CDEC e che ha iniziato un lavoro incredibile, contro ogni avversità, per costituire il Centro; posso dire che grazie a lei si è tenuta accesa la fiamma della memoria. Se oggi sappiamo qualcosa della Shoah lo dobbiamo a lei.
Puoi raccontarmi, in breve, come il CDEC è arrivato a costituire un’istituzione così importante per la conservazione della memoria?
Stiamo parlando del 1969. A quel tempo tutti erano occupati a guardare a Israele, alla guerra del ’67, alla vittoria, alle critiche che arrivarono successivamente, causate soprattutto da una propaganda sovietica che permeava tutta o quasi la sinistra italiana. L’interesse era polarizzato su quello. La Shoah invece era abbastanza in secondo piano. La faccenda dei testimoni, e delle testimonianze, è emersa dopo, in connessione col fatto che in Germania ovest si stavano cominciando i grandi processi contro i criminali nazisti, e alcuni giudici erano venuti in Italia per parlare con il CDEC, per trovare testimonianze a carico dei criminali da processare.
Allora iniziò un grande lavoro di ricerca, raccolta di documentazione e testimonianza, iniziò anche la profonda collaborazione tra Eloisa Ravenna e i giudici tedeschi, mal da lei considerati fino a quel momento. Il CDEC ebbe, in quegli anni, permessi speciali di accesso agli archivi di Stato, che, a quel tempo, erano rigidamente chiusi agli studiosi. Non era possibile infatti esaminare gli atti di un periodo così vicino, occorreva attendere 70 anni. Invece, per via dei procedimenti penali tedeschi, avemmo la fortuna di accedere a questi atti. Si fecero grandi missioni in tutti i capoluoghi di provincia, dove c’erano gli archivi, e raccoglievamo elementi per le procure tedesche, tenendo però copia del materiale. E così, dal nucleo archivistico iniziale del 1955, anno di nascita del CDEC per iniziativa della FGEI (Federazione giovanile Ebraica d’Italia), si dovettero attendere questi processi per costituire un vero archivio documentale.
A che punto è oggi secondo te la tutela della memoria?