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La Meghillà: un’opera legata a questo mondo….dallo spirito messianico

Il trattato Meghillà  tradotto in italiano è il nuovo volume del Progetto Talmud. Ne abbiamo parlato con il curatore, rav Michael Ascoli

Rav Ascoli, sei il curatore della traduzione del Trattato “Meghillà”, l’ultimo volume edito del Progetto Talmud, la traduzione in italiano dell’intero Talmud Bavlì. Se non sbaglio, si tende a ritenere che si tratti di uno dei trattati più “semplici” da studiare, forse perché composto da un’ampia parte haggadica, di solito più discorsiva e comprensibile. Visto che ne hai curato la traduzione, sei d’accordo?

rav Michael Ascoli

Sì, Meghillà è considerato un trattato relativamente facile, uno di quelli con cui iniziare ad affrontare il Talmud. Dunque un’ottima occasione per tutti! Occorre comunque fare attenzione: le parti aggadiche sono più affascinanti e attraggono il lettore con più facilità, e di questo i nostri stessi Maestri erano ben coscienti!  Tuttavia hanno bisogno di essere studiati con la stessa concentrazione e con lo stesso desiderio di approfondire il testo tanto i brani narrativi quanto quelli normativi. Il “non si finisce mai di imparare” nel pensiero ebraico ha una declinazione particolare: “chi ha studiato una mishnà 100 volte non assomiglia a chi l’ha studiata 101 volte!”. Si sottolinea cioè il fatto che vi sono sempre aspetti nuovi e ulteriori da considerare. Vorrei suggerire di leggere questa affermazione non solo come un invito ad approfondire sempre di più, ma anche come un incoraggiamento: nessuno pretende che si capisca tutto di un testo, ci si può accontentare di “avere un primo livello di comprensione”. La nostra opera in fondo mira a questo, a rendere accessibile lo studio. Di lì in poi si può solo approfondire ed estendere. Vorrei anche raccomandare di studiare assieme, in compagnia, laddove possibile: nella tradizionale chavrutà, in famiglia…e poi fare domande: i rabbini sono in genere più accessibili di quanto non si creda. Meghillà è un trattato “facile”, oltre che per l’abbondanza di brani aggadici, anche per il fatto che è composto da relativamente pochi dappìm (pagine) e che le sughiòt (i brani) non sono particolarmente lunghe. Insomma, ecco…si può fare!

Quanto tempo avete impiegato per realizzarla?

Sul tempo che è stato necessario per produrre questo volume non saprei dire con precisione, ci sono state  anche parecchie pause tecniche. Comunque le fasi di lavorazione sono tante, ci sono i traduttori, i revisori, i revisori linguistici, il curatore, il redattore di trattato, i lettori finali…tutto il lavoro di redazione per le rubriche varie e ovviamente anche il lavoro tecnico editoriale. Il volume è il risultato della cooperazione di un’ampia squadra dove ognuno ha un ruolo importante.

L’inizio del Trattato (2a) si occupa di indicare in quali giorni possa essere letta la Meghillà, variando tra l’11 e il 15 del mese di Adar, a seconda anche del luogo in cui ci si trovi (un villaggio, una grande città, una città fortificata). A me è venuto in mente l’inizio dell’intero Talmud, con il Trattato Berachot. Anche lì, infatti, ci si domanda da quale momento si possa leggere lo Shemà della sera. Quello che mi colpisce è questa riflessione sul tempo che sembra attrarre i Maestri. Perché il tempo è così importante per il pensiero ebraico?

una meghillà

Vedi? Questo legame fra Berakhòt e Meghillà lo sto imparando da te…La questione dei tempi distinti per la lettura della Meghillà trova la sua ragione profonda nel sottolineare l’importanza della terra di Israele, proprio in relazione a una storia che invece si è svolta in diaspora. Ma per tornare alla tua osservazione, sì, il tempo ha un’importanza fondamentale nel pensiero ebraico. Distinguiamo un tempo divino, quello dello Shabbàt, che scandisce ineluttabilmente la nostra vita, e un tempo che ha un contributo umano, quello delle festività: in questo secondo caso la data è sancita dalla Torà ma il capo-mese è decretato (istituzionalmente, non più oggi) dal Bet Din. Per questo noi abbiamo una benedizione per lo Shabbàt in cui il Signore è “Colui che santifica lo Shabbàt” e una benedizione diversa per le festività, nella quale si riflette la componente umana: il Signore è “Colui che santifica il popolo di Israele e i tempi”, sicché è il popolo di Israele, a cui il Signore ha conferito santità, a sancire la santificazione del tempo. Si può inoltre riflettere sul fatto che nell’ebraismo si santifica il tempo e non lo spazio, sicché si rifugge quanto più possibile dalla rappresentazione, la quale è possibile nello spazio ma non nel tempo. Un riflesso del divieto di farsi immagini. Questo è un tema particolarmente ben sviluppato nell’opera “Il Sabato” di A.J. Heschel (altra opera breve, ma intensa, di cui raccomando la lettura).

La Meghillà di Ester è una storia in realtà molto complessa, con toni a tratti fortemente drammatici. Il nome divino non è mai pronunciato, e c’è un continuo ricorso al travestimento: Ester all’inizio non si mostra come ebrea, Mordechay si veste di un sacco per lanciare un messaggio alla nipote, Haman si immagina nei panni del Re Assuero, ancora Mordechay arriverà a indossare per davvero gli abiti regali. Inoltre tutta la storia si svolge fuori da Israele, cioè in una condizione d’esilio, in cui a lungo gli ebrei temono il pogrom, ossia la persecuzione. Potremo allora definire questo libro, e il Trattato omonimo, il testo che più di altri “parla” a noi ebrei della diaspora, ancora oggi?

(continua a pag. 2)

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