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Ovviamente andai alla Scuola ebraica, non poteva essere altrimenti, viste le premesse famigliari. In ogni caso a quell’epoca, sul finire degli anni ’50, molta parte della Comunità mandava i suoi figli a Scuola ebraica. La mia Morà di materie ebraiche era Anna Lehmann z.l. Ben presto, grazie a lei e al terreno preparato in famiglia, iniziai ad amare le materie ebraiche: diciamo che in queste “andavo bene”. Qualche anno fa un mio compagno di classe d’allora, con cui sono rimasto in contatto regolare seppur saltuario, mi ha detto: “Ero stupito di come tu riuscissi a leggere l’ebraico così rapidamente”. In effetti, per conoscere bene le “cose ebraiche” il primo requisito è conoscere la lingua ebraica, e per conoscere una lingua, la prima cosa è imparare a leggerla e scriverla.

Che ci puoi dire delle Scuole medie? Anche quelle le hai fatte alla Scuola ebraica?

Moshè Sed
Morè Moshè Sed – “E i tuoi occhi vedranno il tuo Maestro”, Isaia 30:20

Sì. Erano state trasferite da poco nella nuova sede di Lungotevere Sanzio ed erano intitolate a rav Angelo Sacerdoti, un ulteriore motivo per andarci. Lì avvenne il reale e definitivo “imprinting” (scusa l’uso di un termine biologico, deformazione professionale). Il mio insegnante di materie ebraiche era il Morè Moshè Sed z.l., uno dei morim più apprezzati, seguiti e influenti degli anni ’60-’70. Formò decine e decine di studenti. Quest’anno, il 29 marzo – 27 Adar II, ricorrono i quarant’anni dalla sua scomparsa: che questo mio ricordo sia di ‘illui nishmatò (“elevazione della sua anima”). Il Morè Moshè, accortosi che mi piacevano le materie ebraiche e che mostravo di avere una certa attitudine, mi propose di frequentare il Collegio rabbinico. La mia risposta, ingenua, fu che non potevo fare il rabbino perché non ero intonato. Evidentemente avevo le idee un po’ confuse sul ruolo del rabbino… Il Morè mi guardò fisso negli occhi, con uno sguardo che mirava lontano (lo ricordo ancora come se fosse oggi), e mi disse: “Vabbe’, potrai essere utile all’ebraismo italiano anche in altro modo”. Uno o due anni dopo, quando stavo già al ginnasio e mi si chiarirono le idee sugli studi rabbinici, iniziai veramente a studiare al Collegio rabbinico e il Morè Moshè fu di nuovo mio insegnante. 

Il Morè Moshè fu anche il tuo Maestro per il bar mitzwà?  

No, per il bar mitzwà fui preparato dal Morè Vittorio Della Rocca z.l., di cui abbiamo celebrato un paio di mesi fa il primo anniversario dalla sua scomparsa. Credo che i miei genitori lo scelsero perché avevano avuto modo di conoscerlo personalmente e ne apprezzavano le grandi qualità umane. Mio padre lo conosceva – immagino – dai tempi in cui stava nel consiglio della CER. Per mia madre le cose andarono così. Con il matrimonio, si era trasferita a Roma da Firenze nel 1947. In quel periodo era rabbino capo di Roma rav David Prato, richiamato (dopo circa 6 anni passati in Israele) a risollevare la Comunità di Roma dalle tragedie e dagli sconquassi subiti durante le persecuzioni e la guerra.

rav David Prato (1882-1951)

Rav Prato aveva vissuto e studiato a Firenze per più di vent’anni, e certamente conosceva bene sia la famiglia paterna di mia madre (Grünwald) che quella materna (Ventura – il fratello di mia nonna Nelly, il maskil Fabio Ventura, era collega di Prato nel rabbinato fiorentino). Tornato a Roma rav Prato riprese anche il ruolo di Direttore del Collegio rabbinico e incaricò mia madre di dare lezioni di cultura generale agli allievi del Collegio, dato che durante gli anni delle leggi razziste e della guerra non era stato possibile per loro svolgere studi regolari. Fra quegli allievi c’era il giovane Nello Pavoncello (il “Morè Nello”), come risulta dai verbali del Collegio del 1949-50, e penso ci fosse anche l’ancor più giovane Vittorio Della Rocca. (A proposito, parlando con te adesso mi viene in mente che forse il mio nome ebraico, David, sia proprio un omaggio a rav David Prato, che morì nel 1951 alcuni anni prima della mia nascita). 

Alberto Mieli e Rav Chayim Vittorio della Rocca
Rav Chayim Vittorio Della Rocca abbracciato da Alberto Mieli (Zi Pucchio, a sinistra), che rimase accanto a Rubino Della Rocca fino all’ultimo nella marcia della morte e poi disse al bambino Vittorio che suo padre non sarebbe più tornato

Il Morè Della Rocca è stato per me una figura imponente, nel vero senso del termine, che va al di là della preparazione per il bar mitzwà. Entrò nella mia vita nel tredicesimo anno mentre mio padre z.l. se ne stava andando (morì tre settimane dopo il bar mitzwà, che peraltro era stato rimandato di quattro mesi, con l’autorizzazione di rav Elio Toaff z.l., proprio a causa della malattia). Da allora ho sempre nutrito un affetto per il Morè Della Rocca come l’avrei avuto per mio padre. Un affetto reciproco visto che anche lui, all’età di circa 10 anni, aveva perduto suo padre Rubino, deportato dai nazisti e mai ritornato, e quindi comprendeva bene lo stato d’animo della nostra famiglia, non solo mio ma anche di mia madre, mio fratello Marcello e mia sorella Miriam, che infatti è citata nel libro di memorie di rav Della Rocca. Questo sentimento speciale si è poi trasmesso naturalmente anche ai miei figli. 

Hai accennato prima ai tuoi studi al Collegio rabbinico. Ci puoi dire qualcosa di più?

(continua a pag. 3)

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