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lezione al Collegio rabbinico italiano, oggi

Dopo quella risposta un po’ ingenua che avevo dato al Morè Moshè capii meglio in cosa consistessero gli studi al Collegio e che la chazanut non fosse la parte essenziale degli studi rabbinici. Iniziai ad andare al Collegio ma senza essere iscritto ufficialmente, ero un uditore. Questo significa che non frequentavo tutti i corsi e non facevo esami. Errori gravissimi entrambi, che ritardarono e prolungarono di diversi anni i miei studi successivi quando finalmente, vent’anni dopo, iniziai gli studi al Collegio in modo curriculare. Però, dal punto di vista formativo, non c’è dubbio che quei corsi da “volontario” furono importanti per me. Fra i miei insegnanti di allora (fine anni ’60-inizio ’70), c’era come ho detto prima il Morè Moshè, in particolare per la Mishnà e per Halakhà e Tefillà. All’inizio di ogni lezione riempiva la lavagna con le parole ebraiche nuove e accanto scriveva la traduzione. Così via via imparai il vocabolario fondamentale. Ho ancora i quaderni di quell’epoca e questo metodo dovrebbe essere seguito da tutti gli insegnanti di materie ebraiche (a iniziare da me, ma confesso che non ho la pazienza e la precisione che aveva il Morè Moshè). Oltre al Morè Moshè, ricordo i rabbini e professori Ariel Toaff e Isidoro Kahn, con i quali studiavamo la Torà con il commento di Rashì, Augusto Segre (Storia ebraica), Goltz (Talmud). Extra-collegio studiavo Talmud e Torà con Rashì insieme a Ariel Rathaus, tornato da poco dagli studi in yeshivà a Gerusalemme che per primo mi parlò di cosa fosse una yeshivà, incoraggiandomi ad andarci, cosa che poi feci. Studiavo anche con rav Shalom (Mino) Bahbout, alla Pensione Carmel, ospiti di sua madre la sig.ra Maria Zard z.l. Studiavamo Halakhà e Mishnà con il commento di Bertinoro. La consuetudine proseguì anche anni dopo, quando ci riunivamo alla Pensione lo Shabbat pomeriggio per l’Oneg Shabbat o per dei seminari. 

Fin qui la teoria. E la pratica?

La pratica fu il Benè Akiva. Avevo appena finito la terza media, e a 13 anni mi imbarcai, a inizio luglio del 1967, verso il Campeggio del B.A. a La Villa in Val Badia in Alto Adige. Mi si aprì un mondo intero, già dal pullman che ci portava su in montagna dopo il viaggio in treno. Fra i tanti partecipanti, il giovane non ancora diciottenne Riccardo Di Segni (RDS), al suo ultimo Campeggio B.A. In una serata nitida, il passaggio di un oggetto luminoso in cielo attirò l’attenzione del gruppetto di giovani fuori dell’albergo. RDS sosteneva che fosse un satellite artificiale; io dissi che andava troppo svelto, era un pallone sonda meteorologico. Non lo convinsi. (Quella mia incursione nel dibattito dei “grandi” derivava dalla passione per le scienze che mi aveva instillato la prof. Gabriella Manasse z.l. alla Scuola media). Una dozzina d’anni dopo ritrovai rav Di Segni come docente sui banchi del Collegio rabbinico, e i dibattiti da scientifici si trasformarono in talmudici. A quel primo campeggio fecero seguito tutti i campeggi estivi e invernali, senza saltarne neanche uno, fino all’anno della maturità nel 1972 (anche quell’anno, fra gli esami scritti e gli orali, andai al Campeggio di Cutigliano, in alta Toscana – ma forse avrei fatto meglio a ripassare di più, soprattutto matematica…). Oltre ai campeggi, durante l’anno c’erano seminari, congressi e l’attività settimanale il sabato pomeriggio nei locali sotto al Tempio (dove ora c’è il Museo ebraico; devo dire che non erano molto accoglienti, erano un po’ bui. Lo sono tuttora, ma se per un museo vanno bene, per le attività giovanili meno). Il grosso comunque erano i campeggi in montagna. Fin dall’inizio fui conquistato dall’atmosfera ebraica, soprattutto dello Shabbat: la birkat ha-mazon cantata, la Kabbalat Shabbat con Yedid Nefesh e Lechà Dodì tutti in coro, l’Oneg Shabbat, le sichot giornaliere con madrichim di poco più grandi di noi, le gite e tutto il resto. Altro che l’aria compassata delle nostre sinagoghe monumentali. Insomma, era una vita ebraica vissuta in prima persona, coinvolgente, quotidiana, non subita e recepita passivamente. Un bel periodo. Studio informale e la pratica dell’osservanza fin nei dettagli. Ma anche, occasionalmente, lo studio formale nei seminari pre- o post-campeggio. In uno di questi, incontrai per la prima volta diversi Maestri che furono (e sono) molto importanti per me: Gavriel Levi (che consideravamo la persona più intelligente da noi conosciuta: lo sfidavamo con indovinelli logici, e quando a volte accettava di farsi coinvolgere, regolarmente li risolveva); Berti Eckert, italiano di nascita che veniva dal Kibbutz Yavne, da cui imparai ad amare il Midrash; Menachem Michel Monheit, di Strasburgo, fresco di molti anni di studio in yeshivà a Gerusalemme, e fu lui che mi convinse ad andare a studiare alla yeshivà di Strasburgo; Kurt Arndt, tedesco di nascita, che faceva lezioni di Talmud ascoltando la radio a transistor attaccata all’orecchio (credo musica classica) e ogni tanto esclamava, con accento tedesco: “Qvesta maledetta pubblicità!”. Studiammo con lui l’inizio del trattato Betzà. Grazie a quelle lezioni, la prima parte del trattato la sapevo a memoria, e persino l’avevo tradotta insieme a David Lubin, uno dei partecipanti a quel seminario. Quando, pochi anni fa, dovevo scegliere quale trattato curare fra quelli pronti per la pubblicazione nell’ambito della traduzione in italiano del Talmud, non ebbi dubbi: Betzà. 

Com’era la convivenza al Benè Akiva fra ebrei di tutta Italia e non solo?

la “piazza”, cuore storico dell’ebraismo romano

Proprio al Campeggio del B.A. divenni consapevole che c’erano altri tipi di ebrei oltre a quelli romani (nel 1967 i tripolini erano appena arrivati a Roma, dopo la Guerra dei Sei giorni, e ancora non c’erano state molte occasioni d’incontro). Quando al primo campeggio sentii parlare una ragazza milanese pensai fosse straniera… E chi aveva mai visto o sentito dei milanesi, prima? Molti milanesi portavano anche, oltre a loro stessi, la tradizione Lubavitch (il termine “Chabad” ancora non era così diffuso) e fu benemerita, a partire dai niggunim chassidici. Un problema però in effetti c’era: gli shelichim del B.A. erano israeliani, e a quei tempi erano per lo più di scuola ashkenazita, pure quelli di origine yemenita, che arrivati in Israele erano stati subito “acculturati” dai padri fondatori ashkenaziti. E quindi tutte le usanze, le tefillot, i canti ecc. erano d’impronta ashkenazita. È vero che, come qualcuno ha recentemente detto, la Torà non si studia secondo la geografia dei rabbanim, però i minhaghim della propria tradizione andrebbero preservati: è una norma della halakhà pure questa. Mi ci volle del tempo per apprezzare questa regola, e la feci mia solo quando andai in yeshivà. Per fare un esempio piccolo, ma indicativo, i tefillin si legano alla mano in un certo modo simbolico e ci sono diverse usanze: io al B.A. appresi l’uso ashkenazita, e solo anni dopo imparai l’uso romano dal Morè Nello (il massimo cultore dei minhaghim romani della nostra epoca), quando un giorno – stavamo in Piazza, davanti a Boccione – mi fece una dimostrazione pratica. Un uso che poi ho insegnato ai mei figli (spero di averlo capito bene – non c’erano allora telefonini per fare un video o un selfie…). Al B.A. feci anche le mie prime esperienze “giornalistiche”: entrai presto nella redazione di Zeraim, il giornale del B.A. (forse sarebbe meglio dire “giornaletto”, ma per noi era importante). Lo stampavamo in una tipografia vicino al Colosseo (la carta a volte ce la regalava la Tipografia Sabbadini). In quegli anni non c’era la metropolitana, andavo con il mitico Ciao a portare i testi e poi a controllare le bozze. Ci furono anche scontri con lo Shaliach del B.A. Avevamo alcune divergenze di vedute (erano gli anni di inizio ’70, tanto per intenderci: tutti erano contro tutto e tutti). Una sera lo Shaliach si presentò a casa mia con l’incarico di sequestrare l’ultimo numero del giornale appena stampato: mia madre era un po’ spaventata da questo ragazzone alto e biondo. Ma ora, cinquant’anni dopo, siamo ancora in contatto: è venuto al matrimonio dei miei figli in Israele e un suo nipote si è sposato recentemente con la figlia di mio cugino. È stato commovente risentirlo al telefono un paio di mesi fa: mi chiedeva di questo e di quello. Anni dopo scoprii che alcuni articoli di Zeraim furono criticati anche da Torath Chajim, una rivista israeliana (in italiano e in ebraico) molto più seria della nostra, almeno dal punto di vista dei contenuti (la grafica era un po’ spartana pure quella). Nel frattempo, il suo direttore, rav Menachem Emanuele Artom z.l., era diventato uno dei miei Maestri da cui appresi di più.

Il tuo primo approccio con Israele come fu?

Un giovane Rav Gianfranco Di Segni
Rav GIanfranco Segni “con la chitarra in mano”

Movimentato, soprattutto il primo dei due viaggi con il Benè Akiva, nel 1970. I viaggi organizzati dal B.A. in quegli anni duravano 5-6 settimane. Visitammo tutto Israele, dal nord al sud fino a Sharm el-Sheikh, che all’epoca era ancora sotto il dominio israeliano. Passammo una decina di giorni nel kibbutz Tirat Tzvi, nel Bet Shean: mi adibirono alla raccolta delle olive. Era la prima volta che vedevo olive così grosse (e mai più le rividi: credo fossero destinate all’esportazione). Ora, quando durante le lezioni di Talmud e Halakhà devo spiegare il concetto “grande come un’oliva”, che secondo i calcoli rabbinici equivale a circa 30 grammi, sono in grado di convincere i soliti scettici. Il venerdì sera, al Bet ha-keneset del kibbutz, cantarono Lechà Dodì praticamente sottovoce. Pensai: devono essere proprio stanchi questi kibbutznikim. Forse in quell’occasione capii che vivere in kibbutz non è proprio una passeggiata (oltre al caldo torrido delle casette dove eravamo alloggiati). Non contenti del già lungo viaggio “istituzionale”, io e il mio amico Guido Coen facemmo un pre-viaggio per conto nostro. Andammo a Bet Lechem e a Chevron (in quei tempi si girava liberamente senza problemi, con gli autobus di linea). Poi andammo tre giorni al Mar Morto, Masada, Ein Ghedi: luoghi stupendi. Peccato che non presi precauzioni per il sole di 400 metri sotto il livello del mare. Quando, al ritorno, scendemmo dal pullman di linea a Arad, una giovane signora mi vide così malconcio che ci invitò a casa sua a bere qualcosa. Ero ustionato dappertutto e completamente disidratato. Tornati a Gerusalemme, l’infermiera dell’alloggio della Sochnut all’Har Hatzofim dove alloggiavamo pensò fosse meglio farmi vedere in ospedale. Andai allo Shaare Tzedek, dove mio fratello Marcello, studente ai primi anni di medicina, stava facendo un praticantato estivo. Passai la notte sul lettino dell’ospedale con il pensiero che mi avrebbero fatto il trapianto di pelle. Nessuno mi diceva niente e se me lo diceva, capivo poco o nulla. Invece alla fine, sempre in silenzio, si limitarono a mettermi un po’ di pomate e a darmi degli antibiotici, oltre a presentarmi un conto più salato dell’acqua del Mar Morto. In qualche modo ne venni a capo. Ma fu una lezione formativa anche quella. Dopo la fine del viaggio del B.A., andai ospite per qualche giorno dalla famiglia di uno dei madrichim, Roni Ostermann z.l., in una cittadina vicino Tel Aviv. Da alcuni giorni soffrivo di mal di stomaco. I genitori, un po’ preoccupati, mi fecero andare da un medico che controllasse cosa avessi. Forse è un attacco di appendicite, disse il luminare. Mi fece fare un esame specifico, ma era a posto. Allora sarà un’intossicazione alimentare, passerà, sentenziò il dottore. Sceso dall’aereo all’aeroporto di Roma, con la chitarra in mano (rotta), mia madre appena mi vide capì che non stavo bene e mi fece subito visitare dal medico di famiglia, Vittorio Sacerdoti z.l. Il dottore (quello del morbo di K. al Fatebenefratelli, durante la guerra) mi diede un’occhiata negli occhi, li vide leggermente gialli e disse: è epatite. Feci i controlli e così era. Mi ero beccato il virus dell’epatite, che in Israele è endemico mentre in Italia no e io, evidentemente, non c’ero mai venuto in contatto. Stetti a casa due mesi, a riposo e con dieta particolare, per cui anche le feste le trascorsi senza poter andare al Tempio. Pazienza per lo shofar, ma per il lulav di Sukkot qualcosa forse si poteva fare: a quell’epoca, i lulavim li avevano solo i rabbanim e i chazanim. Gli altri andavano al Tempio e facevano la berakhà sul lulav a disposizione del pubblico (si era lontani dai tempi in cui Shalom Tesciuba z.l. avrebbe rivoluzionato il culto a Roma, con i prodotti Kasher le-Pesach e quelli di tutto l’anno e con la fornitura di lulavim per tutta la comunitàMia madre, che in quell’anno era nel Consiglio della CER e spesso si recava negli uffici della Comunità, chiese a rav Toaff se poteva darle un lulav per me (“il più semplice che c’è”). Il rabbino capo chiamò immediatamente lo shammash e glielo fece preparare all’istante. In un’altra occasione, mia madre chiese spiegazioni a rav Toaff sul fatto che andavo in riva al Tevere, con il solito Ciao, a fare la tevilat kelim a piatti e pentole: non ricordo cosa rispose il rabbino capo, ma con il senno di poi certamente non era una buona idea, per tanti motivi, e sarebbe stato molto meglio se fossi andato al miqwè del Tempio. In Consiglio, in quel periodo, c’era anche Gavriel Levi a cui mia madre ogni tanto chiedeva consigli pratici per l’applicazione di certe regole della kashrut.

Ci stiamo allargando un po’ troppo. Torniamo ai viaggi in Israele. Come andò il secondo?

(continua a pag. 4)

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